venerdì 29 dicembre 2023

FALCON LAKE: LO SPETTRO DEL PRIMO AMORE

Non di rado attori e attrici passano dall'altro lato della cinepresa, talvolta con risultati discreti ma dimenticabili, specialmente quando dirigono se stessi, in altri casi però riescono a dimostrare una visione tanto personale da fare invidia a numerosi registi con anni di esperienza alle spalle. Di questa categoria fa senza dubbio parte Charlotte Le Bon, che dopo aver recitato in notevoli produzioni internazionali debutta alla regia di un lungometraggio con Falcon Lake. Presentato all'edizione 2022 del Festival di Cannes, il film ottiene il plauso unanime della critica, compresa quella italiana, mentre il pubblico nostrano può recuperarlo da qualche mese in streaming tramite Rai Play.


Protagonista della pellicola è Bastien (Joseph Engel), tredicenne francese in vacanza in Canada con la famiglia, grazie alla quale conosce Chloé (Sara Montpetit), più grande di tre anni ma con cui instaura in breve tempo un rapporto molto speciale dopo aver parlato del presunto fantasma che aleggia sul lago intorno al quale trascorrono le vacanze estive.


Dall'ormai lontano XVIII secolo, grazie al più noto romanzo scritto da Goethe, la narrativa ha iniziato a interessarsi sempre di più al processo di maturazione degli adolescenti, dando vita a quel genere denominato romanzo di formazione o Bildungsroman. Falcon Lake rientra appieno in questo tipo di racconto, in special misura per quanto concerne la scoperta dell'amore. Materiale dunque tutt'altro che nuovo ma che, come ci insegnano i maestri dell'arte di raccontare, può sempre colpire il pubblico per il modo in cui queste esperienze così vicine a tutti noi vengono messe in scena. Le Bon, nonostante sia alla sua prima prova registica, dipinge, quasi letteralmente, un'opera di raro lirismo, chiaramente figlia di precedenti cantori dell'adolescenza come Rohmer o Truffaut ma in grado di divincolarsi dal semplice manierismo tramite un'interessante commistione con atmosfere e persino elementi narrativi tipici del gotico anglosassone. La plumbea luce che emana l'ambiente del lago, così caro anche ad autori ottocenteschi quali Coleridge e Mary Shelley, così come i costanti riferimenti a presunte presenze fantasmatiche, donano al lento e inesorabile sviluppo di un sentimento in grado di legare fortemente Bastien e Chloé, al netto delle tante differenza caratteriali e di modi di vivere, un retrogusto tetro. La morte sembra aleggiare sempre dietro l'angolo, aumentando anche il senso di urgenza e precarietà tipico del primo amore, che per quanto potente e sconvolgente possa essere vive sempre su un sottilissimo filo, finendo quasi sempre per esaurirsi in un tempo tanto breve quanto impossibile da dimenticare. 


Per esprimere al meglio questo singolare coming of age gotico la cineasta franco-canadese opta per un approccio totalmente distante dalla visione hollywoodiana del filone, privilegiando i silenzi allo sproloquio, la luce naturale, persino nelle sequenze notturne, all'illuminazione posticcia di tanti teen movie e una coppia di attori protagonisti estremamente credibili, sia per età che per la capacità di rendere palpabile tutta la frenesia erotica della scoperta di sé. Il climax con cui i due si avvicinano sempre di più viene scandito anche da un crescendo dal punto di vista fisico, proprio a sottolineare quanto sensoriale, tattile e misterioso sia l'innamoramento tra ragazzi, come evidenziato dall'insistenza sui morsi alle mani o dai tanti contatti fisici precedenti alla vera e propria esperienza sessuale tra Bastien e Chloé.

Se il buongiorno si vede dal mattino Falcon Lake rappresenta il migliore degli auspici possibili per la carriera da cineasta di Le Bon, avendo diretto uno dei migliori racconti di formazione girati da anni e un'opera prima da ricordare a lungo.

mercoledì 27 dicembre 2023

REBEL MOON - PART ONE: A CHILD OF FIRE: I MAGNIFICI SETTE ARTURIANI NELLO SPAZIO SIDERALE

Chiusa una fase quantomeno turbolenta come quella dell'ormai defunto DCEU, Zack Snyder collabora oggi assiduamente con Netflix, che, grazie ai buonissimi risultati ottenuti dal regista con Army of the Dead (2021), gli concede totale (o quasi) libertà nella realizzazione di un progetto decennale, una space opera chiamata Rebel Moon. Inizialmente l'idea nasce come possibile spin-off ambientato nel franchise di Star Wars, pensata per offrirne una visione maggiormente indirizzata al pubblico adulto, in maniera non dissimile da Rogue One: A Star Wars Story (Gareth Edwards, 2016), ricevendo un cortese rifiuto dai vertici di Lucas Film. A questo punto Snyder rimaneggia il soggetto dando vita a un proprio universo narrativo, per il quale il colosso dello streaming prevede numerose espansioni crossmediali. Ecco dunque che nel corso di dicembre 2023 viene distribuito, anche in alcune sale americane ed inglesi, Rebel Moon - Part One: A Child of Fire, prima parte del dittico già girato dal cineasta americano in versione parzialmente ridotta per venire incontro a un rating adatto a un pubblico adolescente. In attesa di scoprire anche la versione estesa della stessa e la seconda parte, che arriveranno entrambe intorno ad aprile del 2024, scopriamo come mai anche questo film ha nettamente diviso critica e pubblico, con giudizi però prevalentemente negativi.


Ambientata in un immaginario universo futuristico dominato dall'impero di Mondo Madre, al momento però in preda a una crisi politica di cui sta approfittando il sanguinario reggente Balisarius (Fra Fee), la pellicola segue il tentativo di ricostruirsi una vita pacifica da parte di Kora (Sofia Boutella), ex comandante dell'esercito che, dopo aver disertato, ha trovato rifugio in una comunità contadina ai limiti dei possedimenti di Mondo Madre. Purtroppo però una nave spaziale comandata dall'ammiraglio Noble (Ed Skrein) arriva sul pianeta Veldt, dove vive la donna, in cerca di un gruppo di ribelli e chiede delle provviste proprio al suo villaggio. Il crudele ufficiale uccide senza pietà il leader della comunità per poi obbligarla a rifornire i soldati con l'intero raccolto dei campi. Quando alcuni di essi tentano di stuprare una ragazza del villaggio, Kora abbandona l'idea di fuggire e uccide l'intera guarnigione lasciata da Noble sul pianeta. Una vera e propria dichiarazione di guerra per la quale la protagonista decide, accompagnata dall'amico Gunnar (Michiel Huisman), di andare in cerca di guerrieri in grado di difendere i contadini dalla rappresaglia dell'esercito, a cominciare dall'ex generale Titus (Djimon Hounsou).


Giudicare questa prima parte di Rebel Moon è tutt'altro che un compito semplice, poiché è fin troppo evidente la natura episodica della stessa, così strettamente connessa alla seconda da pregiudicarne la riuscita complessiva come opera autosufficiente. A questo deficit narrativo contribuisce però anche una scrittura priva di equilibrio, dato che la pellicola si divide in una prima metà di introduzione alla vastissima lore e soprattutto ai due protagonisti assoluti, Kora e Gunnar, che funziona a dovere, creando una notevole curiosità nello spettatore nei confronti di quanto seguirà e una certa dose di empatia verso tali personaggi. Meno riuscita risulta, d'altro canto, l'altra metà, dove l'assemblaggio della squadra di rinnegati, chiaramente ispirata a I sette samurai (Akira Kurosawa, 1954), per difendere i contadini vessati dal potere politico e militare di Mondo Madre viene affrettata così tanto da lasciare poco spazio per dare vita a un tangibile rapporto sia tra i personaggi che tra questi ultimi e il pubblico. Persino una delle più interessanti divagazioni rispetto alla chiara matrice lucasiana del lungometraggio viene depotenziata dalla suddetta fretta nel giungere alla battaglia centrale.

Detto di questi tutt'altro che trascurabili difetti, probabilmente ascrivibili in realtà alla scelta di mostrare prima il montaggio più breve, il film mostra anche tanti lampi di bellezza, a cominciare dalla fotografia, curata personalmente da Snyder. In un panorama dominato da scelte di inquadrature, illuminazione e lenti completamente standardizzate come quello degli attuali blockbuster, è rinvigorente assistere a sequenze illuminate perlopiù da luce naturale e con un singolare utilizzo del fuori fuoco come quelle ambientate nel villaggio su Veldt, dove l'ispirazione al maestro del cinema giapponese si evince anche sul versante formale e non soltanto su quello del racconto. In particolare la scena in cui dialogano la ragazza interpretata da Charlotte Maggi e Jimmy (Anthony Hopkins), un robot che aiuta Kora a uccidere i soldati sul pianeta, spicca per il lirismo espresso dalla forte illuminazione delle inquadrature e la cornice bucolica che circonda i personaggi, con un'atmosfera di incontro tra due outsider che ricorda Frankenstein di James Whale (1931), così come alcuni momenti di L'uomo d'acciaio (Man of Steel, Zack Snyder, 2013). Le concessioni alla contemplazione dell'affascinante pianeta in cui vive la protagonista vengono esaltate anche da una cgi egregiamente implementata all'interno dei set ricostruiti materialmente, donando scorci davvero suggestivi su una galassia che promette davvero mondi interessanti da esplorare per qualunque fan della sci-fi più avventurosa.


Allo stesso mondo il panorama politico e sociale tratteggiato solo parzialmente in questa prima pellicola rievoca certamente classici della space opera quali Star Wars e Dune, ma con evidenti riferimenti anche alla politica militarista statunitense e, soprattutto, al tanto amato da parte dell'autore ciclo bretone, come è possibile notare dalla caratterizzazione di alcuni personaggi o dalle vicende riguardanti la decaduta famiglia reale di Mondo Madre, i cui guerrieri, peraltro, vengono spinti a creare dei rapporti affettivi con un commilitone per combattere al meglio, prendendo in prestito un'usanza tipica di quel mondo ellenico che affascina Snyder quasi quanto le avventure di Artù. Tutto ciò però al momento resta purtroppo fin troppo sospeso a causa della scelta di dividere quello che è senza alcun dubbio un unico grande film in due, così come quella, ancor più discutibile, di rilasciare in anticipo un montaggio evidentemente monco rispetto a quello più corposo che arriverà tra qualche mese. Il giudizio su Rebel Moon dunque resta sospeso a mio parere. Promosso ma con riserva.

domenica 17 dicembre 2023

RAW: LA FAME DI VITA GIOVANILE IN CHIAVE HORROR

In un panorama europeo e mondiale che finalmente sembra pronto a riconoscere, in primis mediaticamente, il ruolo creativo delle donne nel cinema spicca la figura di Julia Ducournau, vincitrice della Palma d'oro con il controverso (nella migliore delle accezioni dal mio punto di vista) Titane nel 2021. Prima però di ottenere uno dei riconoscimenti più prestigiosi per qualunque regista la parigina dirige Raw - Una cruda verità (Raw, 2016), con cui riesce già a trovare una propria fetta di pubblico tra gli appassionati di horror e un eccellente riscontro dalla critica, come testimoniato dalla vittoria del premio FIPRESCI alla rassegna sopracitata.


Il film segue l'arrivo all'università di Justine (Garance Marillier), totalmente abnegata al proprio sogno di diventare veterinaria. L'impatto con la nuova realtà, nonostante qui ritrovi anche la sorella maggiore Alexia (Ella Rumpf), è purtroppo molto negativo, in primis a causa degli eccessivi riti a base di nonnismo organizzati dagli studenti dell'ultimo anno ai danni dei novellini, tra cui in particolare il momento in cui la ragazza, fieramente vegetariana, viene costretta a mangiare un pezzo di carne di coniglio. Da qui la sua vita viene completamente sconvolta, con costanti disturbi fisici e soprattutto l'incalzare di una insostenibile fame di carne. Umana.


Sebbene Raw rappresenti il suo esordio al lungometraggio, Ducournau dimostra con quest'opera una conoscenza del genere di riferimento e, soprattutto, della teoria femminista legata allo stesso davvero capillare, che mette in pratica tramite quello che a tutti gli effetti è un coming of age ancora prima di un horror. Sulla scia di quanto fatto in precedenza da De Palma e Kusama, la regista transalpina ricorre ai canoni del racconto dell'orrore per esprimere quello, ben più reale, del traumatico passaggio dall'adolescenza all'età adulta, che diventa ancor più complesso quando è vissuto da una ragazza. Justine, infatti, come Carrie, vive con disgusto il processo di conoscenza del proprio corpo e della carne in generale, a causa di un'educazione votata al diniego totale del valore della stessa, incarnato nel caso del capolavoro depalmiano dal milieu religioso, mentre qui dalla scelta di famiglia per una dieta rigorosamente vegetariana, che però, come si scoprirà nel finale, nasconde solamente sotto il tappeto la proverbiale polvere di una vita che non può mai essere fatta di assoluti, bianchi e neri. Questa privazione vissuta per anni esplode in un bisogno insaziabile di matrice cannibalistica, chiara metafora di quella fame tipica di ogni ragazzo alle prese per la prima volta con le infinite possibilità offerte dalla libertà dalle imposizioni genitoriali: fame di amore, amicizie, sesso, droghe e tutte le trasgressioni che per un ventenne equivalgono alla vita vera. Una sorta di rivoluzione moltiplicata alla seconda nel caso di una giovane donna, poiché, oltre a dover fisiologicamente sopperire alle esperienze impossibili da provare nell'ambito del focolare domestico, viene quotidianamente frenata anche dagli innumerevoli pregiudizi e dalle catene dei moralismi di una società ancora culturalmente intrisa di maschilismo, per cui, ad esempio, un uomo può sfogare liberamente i propri appetiti sessuali mentre la medesima cosa diventa un marchio di infamia per una ragazza.

Ecco che in questo contesto esplode il cosiddetto mostruoso femminile teorizzato da Barbara Creed, trasformando la naturale fame di Justine in una dipendenza dalla carne umana che travalica quella ben più volitiva di Jennifer's Body (Karyn Kusama, 2009), anche perché finisce per assumere anche caratteri maggiormente freudiani quando si interseca a quella di Alexia e il rapporto tra le due diventa centrale nella narrazione. Come in una sorta di rilettura al femminile di Inseparabili (Dead Ringers, David Cronenberg, 1988) prima della serie tv, Ducournau mostra attraverso gli apparenti atteggiamenti opposti alla vita e all'uso del proprio corpo da parte delle sorelle proprio le conseguenze delle restrizioni imposte sul mondo femminile dalla visione patriarcale della società, che non a caso portano, almeno nel caso di una delle due, a una cattività che in fondo riguarda da vicino chiunque viva ai margini della conformità.


Raw rappresenta, in conclusione, non soltanto un esordio eccezionale, bensì una pellicola eccezionale tout court per la capacità di sfruttare i caratteri dell'horror per raccontare i travagli reali vissuti da buona parte di tutti noi durante la crescita, peraltro con una maturità di sguardo e un'eleganza formale che vanno al di là di qualsiasi semplicistico trend sintetizzato da termini come horror art-house o elevated horror.

venerdì 8 dicembre 2023

NAPOLEON: IL CREPUSCOLO DEGLI DEI DELLA STORIA TRADIZIONALE

Nei non rari momenti di crisi del cinema, in particolare nella sua accezione più legata alla sala, spesso Hollywood si è aggrappata alla spettacolarità sensoriale delle grandi produzioni, quelle possono mettere in evidenza la differenza rispetto a esperienze casalinghe come la televisione, l'home video o lo streaming sui dispositivi smart. Al centro di queste campagne vi erano sempre stati i cosiddetti kolossal, pellicole enormi da ogni punto di vista e spesso di ambientazione storica o mitologica. Oggi, pur vivendo uno dei suddetti periodi di stanca del grande schermo, queste opere sembrano non solo aver perso il ruolo tradizionalmente assegnatole dagli studios, ma addirittura zoppicano ben più di altri generi o filoni, relegate sovente a sparute eccezioni o alla serialità. Chi, invece, continua strenuamente ad affollare le sale con questo tipo di produzioni è Ridley Scott, la cui floridissima filmografia annovera capisaldi contemporanei come Il gladiatore (Gladiator, 2000) e Le crociate (Kingdom of Heaven, 2005) e che quest'anno porta in sala Napoleon, biopic sul celeberrimo imperatore. Un'operazione rischiosissima, finanziata da un altro colosso come Apple, che, come facilmente preventivabile, sta dividendo nettamente sia critica che pubblico, equamente distribuiti tra apprezzamenti anche prestigiosi e opinioni estremamente negative, soprattutto in Francia.


Il lungometraggio percorre gran parte della vita politica e privata di Bonaparte (Joaquin Phoenix), alternando le più celebri imprese militari, a partire dalla presa di Tolone da giovane comandante nel pieno del Terrore giacobino, all'esplorazione dell'uomo dietro la leggenda, specie per quanto concerne la relazione con Giuseppina (Vanessa Kirby), la perso a cui si lega maggiormente, persino dopo il divorzio ottenuto per generare un erede.


Considerando la fama del protagonista e il tipo di produzione, un blockbuster da quasi 200 milioni di dollari, probabilmente la maggioranza degli spettatori si sarebbe aspettata da Napoleon un biopic classico, elevato rispetto alla media dalla messinscena delle battaglie campali. Scott invece, seppur artefice del ritorno in auge di quel tipo di cinema agli albori del terzo millennio, dirige un'opera molto più coraggiosa e personale, dove il conquistatore còrso viene spogliato di tutta l'aura mitica nata da un'abile operazione propagandistica (si pensi in tal senso ai dipinti di Jacques-Luis David) o semplicemente dalla storiografia tradizionale basata sulle epopee di sovrani e papi, divenendo sì un simbolo ma della banalità del male che inevitabilmente caratterizza il potere. Il cineasta britannico non disdegna di mostrare le uniche capacità da stratega militare di Napoleone, così come il carisma che suscita nei soldati o nel popolo più umile, ma al tempo stesso ne mette in risalto anche fragilità, a cominciare dalle difficoltà nella diplomazia o nei rapporti sociali in toto, e soprattutto la fin troppo umana ossessione per una donna, la sua imperatrice, nella più personale accezione del termine. Giuseppina, magistralmente interpretata da Vanessa Kirby, viene ritratta come il perfetto contraltare del consorte: tanto raffinata e libertina lei, quanto rozzo e manipolatore lui e forse proprio a causa di tale complementarietà entrano in una spirale emotivamente tossica per cui, nonostante i reciproci torti, schiaffi (non solo figurati) e violenze psicologiche, finiscono per non poter fare a meno dell'altro. Persino ogni grande evento della irripetibile ascesa e caduta politica di Bonaparte trova la sua vera ragion d'essere nella relazione con la vedova de Beauharnais, come quando l'allora generale diserta la campagna egizia pur di tornare in patria e affrontare i tradimenti della moglie. 


Da questo punto di vista Scott forse pecca non di sfrontatezza, bensì di un pizzico di conservatorismo, poiché a mio avviso una enfasi ancora maggiore su questo lato demistificatorio della Storia e sul sovvertimento dei tradizionali ruoli di forza tra i sessi avrebbe ottenuto un risultato ancora più importante, sia per la carriera del regista che per il blockbuster in generale. L'inserimento di numerose sequenze dedicate alle più famose battaglie vinte o perse dal condottiero, infatti, appare come un tentativo di tenere comunque il piede anche nella scarpa del kolossal hollywoodiano più classico, sebbene vada sottolineato come questa scarpa sia di una fattura straordinaria. Per composizione delle inquadrature, utilizzo di luci e ombre, montaggio sonoro e generale potenza immaginifica lo spettacolo offerto da questi momenti, specialmente la battaglia di Austerlitz, l'autore di Blade Runner (1982) dimostra ancora una volta la netta differenza tra un autore con una precisa visione in primis estetica della settima arte rispetto alla masnada di aspiranti cineasti che imperversa nel panorama ad alto budget attuale, dove risulta davvero riconoscere la mano di uno rispetto agli altri. 

Seppur imperfetto e in parte incapace di prendere pienamente la strada dell'unicità, Napoleon risulta un enorme spettacolo visivo, tramite cui viene messo alla berlina il potere in tutte le sue emanazioni, che diventa ancor più crudele e pericoloso quando mitizzato, come vorrebbero molti di quegli spettatori indignati dalla visione di un grande condottiero incapace di soddisfare sessualmente sua moglie.

giovedì 2 novembre 2023

L'ESORCISTA - IL CREDENTE: IL REQUEL CHE NON S'AVEVA DA FARE

Nell'analizzare il particolarissimo caso di Dominion: Prequel to the Exorcist (Paul Schrader, 2004) avevo sottolineato come qualunque tentativo di serializzare L'esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973) avesse incontrato problemi di vario tipo, da produzioni travagliate a recensioni spietate, dando l'idea che aleggi una sorta di maledizione sul franchise. A sfidare la sorte avversa quest'anno ci pensa David Gordon Green, che, forte del successo ottenuto con il rilancio della saga di Halloween, tenta un'operazione simile anche in questo caso, dirigendo un seguito del film originale che non tiene conto di tutte le opere successive, con l'idea di proseguire poi con una trilogia da lui scritta e diretta. L'Esorcista - Il credente (The Exorcist: The Believer, 2023) arriva nelle sale di tutto il mondo nel corso di ottobre, con un carico di aspettative immenso, forse oltre le proprie effettive possibilità: nonostante un discreto risultato al botteghino (inferiore a onor del vero però di molte pellicole horror hollywoodiane recenti), la critica asfalta totalmente  l'opera, aprendo una concreta crepa nel piano di realizzare un secondo e un terzo capitolo firmati Green.


Dopo un prologo ambientato durante il terremoto occorso ad Haiti nel 2010, il lungometraggio segue la vita di due famiglie, quella molto credente di Miranda (Jennifer Nettles) e Tony (Norbert Leo Butz), la cui figlia Katherine (Olivia O'Neill) è amica per la pelle di Angela (Lidya Jewett), nata proprio in occasione di quella catastrofe naturale dove suo padre Victor (Leslie Odom Jr.) ha perduto l'amore della sua vita per quel parto. Mentre le due ragazze attraversano insieme il bosco vicino le loro case spariscono misteriosamente, venendo ritrovate solamente tre giorni dopo all'interno di un granaio. Al prevedibile sollievo provato dai tre genitori si sostituisce però una preoccupazione ancora più grave rispetto a quella provata durante l'assenza delle figlie, dato che queste mostrano fin da subito comportamenti molto strani, che sfociano in una violenza inconsueta e fenomeni difficilmente spiegabili solamente attraverso la scienza.


Fin dalla sequenza iniziale, con l'inquadratura di due cani che si azzannano tra di loro e l'ambientazione esotica, appare chiara la volontà di Green di lavorare a una sintesi tra omaggio al classico friedkiniano e attualizzazione dello stesso, seguendo la strada intrapresa con Halloween (2018) ma ripetersi è sempre più difficile rispetto al primo exploit. L'esorcista - Il credente, infatti, può essere diviso in due parti ben distinte: la prima, che si conclude la totale accettazione dei protagonisti della natura spirituale dei problemi di cui soffrono Kat e Angela, mostra spunti narrativi interessanti che riescono ad aggirare la tentazione di seguire pedissequamente il canovaccio del 1973, come la doppia possessione e il mistero legato a cosa sia effettivamente accaduto nei tre giorni di buoi mnemonico delle due, così come i diversi status sociali delle famiglie inseriscono una contestualizzazione socio-culturale che potrebbe elevare il puro meccanismo di genere, esattamente come accadeva nel succitato capostipite. Certamente la parte investigativa, così come la parentesi in cui i medici cercano di offrire una spiegazione psicologica alla condizione delle giovani, appaiono già in questa metà piuttosto stringate, specie rispetto all'incedere adagio e sinistramente scrupoloso di Friedkin, ma il repentino avviamento verso il rituale di esorcismo potrebbe rappresentare il viatico verso un'ulteriore emancipazione nei confronti di quest'ultimo, magari verso lidi puramente horror o di maggiore introspezione del significato più recondito del Male, che ancora una volta si accanisce proprio verso chi non ha alcuna colpa o difesa. Niente di tutto questo. La successiva evoluzione del racconto precipita nella più pallida scia di lotte contro le possessioni demoniache, mentre ogni scelta da parte dei personaggi risulta poco logica e altamente didascalica nelle spiegazioni.


La povertà narrativa viene spesso relegata allo sfondo nel cinema di genere quando sale in cattedra la maestria formale, la capacità di agire sulle emozioni dello spettatore tramite la forza delle immagini o un uso sagace della colonna musica ma anche da questo punto di vista Green non regala neanche mezza sequenza memorabile. Se Halloween iniziava con una visita all'istituto psichiatrico in cui è rinchiuso Myers che brillava per costruzione della suspense e un uso di angolazioni estremamente audace, giusto per fare un esempio tratto dalla recente filmografia del cineasta americano, L'esorcista - Il credente non mostra un briciolo del tocco del suo autore, riuscendo addirittura a sperperare i momenti di puro fan service o di connessione al predecessore, con una superficialità del tutto assente nella trilogia dedicata al killer di babysitter. La maledizione dei sequel di The Exorcist ha dunque colpito ancora e mai così duramente, vista la netta differenza di qualità rispetto anche al prequel diretto nel 2004 da Renny Harlin, che almeno spiccava per la fotografia di Storaro e l'interpretazione di Stellan Skarsgard.

domenica 15 ottobre 2023

DOMINION: PREQUEL TO THE EXORCIST - LA MALEDIZIONE DELLA SAGA DEMONIACA

Lo strepitoso successo ottenuto nel 1973 da L'esorcista (The Exorcist, William Friedkin), condito persino da due statuette agli Academy Awards, non poteva che comportare la realizzazione di sequel, anche se proprio dalla visione del capostipite qualunque spettatore risulta ben più intrigato dall'idea di saperne di più a proposito del passato di Padre Merrin (Max von Sydow). Presentato come un esperto conoscitore delle possessioni demoniache, l'uomo è già stato in contatto con Pazuzu da quanto si apprende nel corso dell'opera e proprio in base a queste poche informazioni e alla curiosità a esse legate nasce l'idea di produrre un prequel, diretto da un maestro come Paul Schrader. Peccarto che quando il primo montaggio viene mostrato alla produzione le reazioni sono così negative da causare il licenziamento dell'autore e il totale (o quasi) rifacimento del film, con al timone questa volta Renny Harlin, scelto per il proprio regresso con il cinema dell'orrore. Soltanto nel 2005, in seguito alla bocciatura unanime di critica e pubblico del suddetto L'esorcista - La genesi (Exorcist: The Beginning, 2004), la versione schraderiana viene completata e distribuita al cinema, con il titolo Dominion: Prequel to the Exorcist, con recensioni ben più lusinghiere ma comunque lontane dai fasti del capolavoro del 1973, esattamente come accaduto a William Peter Blatty con il terzo capitolo, a sua volta preceduto dalla demolizione collettiva di L'esorcista II - L'eretico (Exorcist II: The Heretic, 1977), nonostante la regia di John Boorman. Una storia pluridecennale di fallimenti per questo franchise, dunque, ma siamo sicuri che non ci sia niente da salvare?

Dopo un prologo ambientato in un piccolo borgo olandese soggetto a una rappresaglia nazista, il racconto si sposta nel cuore del Kenya, nel 1947, dove Merrin (Stellan Skarsgard), che ha abbandonato il sacerdozio, svolge degli scavi archeologici per riportare in superficie una chiesa risalente all'epoca bizantina. Una volta reso accessibile l'edificio, che appare fin troppo ben conservato e sinistro per essere un luogo sacro del V secolo, la zona viene sconvolta da numerosi episodi violenti, che culminano in una crescente tensione tra i soldati britannici locali e la popolazione autoctona. Secondo il prete locale, Padre Francis (Gabriel Mann), la causa di tutto risiede nel giovane Cheche (Billy Crawford), posseduto dal diavolo in persona.

Nell'analizzare Dominion è quanto mai fondamentale sottolineare le traversie produttive sopramenzionate in quanto risultano evidenti alcune mancanze a esse dovute, come una certa schizofrenia nel rapporto tra fotografia e commento musicale, per non parlare della pessima computer grafica utilizzata per le iene che infestano i dintorni degli scavi archeologici. Nonostante ciò e persino a discapito di una sceneggiatura altrui, la poetica del regista de Il collezionista di carte (The Card Counter, Paul Schrader, 2021) emerge con incontestabile evidenza anche in un contesto di limitata indipendenza creativa, facendo di Merrin un personaggio estremamente vicino a Travis Bickle e William Tell. Come questi ultimi vive ai margini di quello che una volta era il suo mondo a causa di un'esperienza traumatica che non riesce a superare e dopo un incontro inaspettato con l'innocenza perduta tenta di percorrere una strada di redenzione, di chiara matrice cristiana. Proprio a tale proposito ecco che l'espiazione del peccato viene ulteriormente espansa rispetto agli esempi precedenti, dato che in questo caso il protagonista è letteralmente alle prese con colui che incarna l'esatto opposto dell'amore divino, che non a caso ha scelto come involucro fisico il corpo di un reietto come Lankester. Lontano però dai consueti schemi dell'horror (e dalle aspettative di Morgan Creek Productions) Schrader pone Lucifero al centro dell'intreccio solamente nella parte finale del lungometraggio, dove appare come una figura glabra e asessuata che, alla stregua di quanto visto in L'ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ, Martin Scorsese, 1988), agisce indirettamente, con fare seducente, per portare alla luce quel lato oscuro che è insito nella natura umana, persino senza la sua intromissione fattuale. Ancora prima dell'apparizione demoniaca la pellicola è costantemente intarsiata dalla presenza del Male, a cominciare dalla brutalità dei gendarmi tedeschi che costringono Merrin a sacrificare dieci suoi concittadini, facendo vacillare in maniera decisiva la sua fede in Dio e nella bontà nel mondo. Esattamente l'obiettivo attribuito dalla teologia al Diavolo, raggiunto però non dall'ex angelo più bello del Paradiso, bensì dalle stesse creature nate a immagine e somiglianza del Signore. 
Grazie anche alla meravigliosa fotografia di Vittorio Storaro, quasi completamente votata all'uso di illuminazione naturale, che ricorda molto il lavoro svolto su un altro film incentrato sul lato oscuro dell'animo umano (Apocalypse Now, Francis Ford Coppola, 1979), l'autore di First Reformed (Paul Schrader, 2017) rinuncia alla facile spettacolarizzazione hollywoodiana del soprannaturale per affrontare il più ancestrale dei paradossi cristiani ed etici in generale, ovvero l'esistenza del Male nel cuore di ogni essere umano, mettendo in parallelo l'orrore della Storia (il nazismo) con quello individuale dell'uomo che qualche decennio dopo avrebbe sacrificato persino la propria vita nel tentativo di salvare una ragazza innocente, rea solamente di aver attirato le attenzioni delle ombre che proiettano le luci più splendenti.

Proprio come la saga nata nel 1973, la cui luce crea un'oscurità così profonda da inghiottire il lavoro, la passione e la maestria artistica di chiunque tenti di aggiungere nuove storie a quella nata dalla penna di Blatty, sebbene la qualità non sia mai mancata, come nel caso di Dominion.

sabato 23 settembre 2023

IL COLLEZIONISTA DI CARTE: L'INESPIABILE COLPA INDIVIDUALE E COLLETTIVA

Sia nelle vesti di sceneggiatore, sia in quelle di regista e persino da saggista Paul Schrader continua ad arricchire il panorama cinematografico da ormai cinquant'anni, senza mai risultare vetusto o distaccato dall'incedere, sempre più rapido, della contemporaneità. Tornato sulla ribalta internazionale grazie a First Reformed (2019), nel corso dell'edizione 2021 del Festival di Venezia presenta, in concorso, Il collezionista di carte (The Card Counter), che pur senza ricevere un'adeguata distribuzione in sala ottiene il plauso unanime della critica, tanto da essere inserito anche in numerose classifiche dei migliori film dell'anno.


Protagonista della pellicola è William Tell (Oscar Isaac), abilissimo giocatore di carte reduce da otto anni di carcere per aver partecipato alle torture perpetrate dai soldati americani ai prigionieri ad Abu Ghraib. Nonostante l'abilità maturata nel contare le carte evita accuratamente di vincere grosse somme o di attirare l'attenzione dei professionisti, almeno fino a quando non incontra Cirk (Tye Sheridan), ventenne accecato dal proposito di vendicarsi dell'ex maggiore John Gordo (Willem Dafoe), colui che aveva insegnato sia a Tell che al padre del giovane i sistemi disumani di interrogatorio che hanno portato questi prima a picchiare moglie e figlio e poi al suicidio. L'ex soldato prende il ragazzo sotto la sua ala protettrice e contatta La Linda (Tiffany Haddish) per entrare nel giro dei grandi tornei di poker, così da guadagnare abbastanza per rimettere in carreggiata Cirk.


Fin dalle prime inquadrature è impossibile non notare le affinità tra Il collezionista di carte e i precedenti ritratti di individualità ai margini della filmografia schraderiana. Come Travis Bickle o Julian Kay di American Gigolò (Paul Schrader, 1980), Tell, il cui nome è un esplicito richiamo al mondo calvinista in cui il regista è sempre stato immerso, vive una sorta di infinita reclusione con cui tenta di espirare peccati commessi molti anni prima, peraltro non totalmente dipendenti dalla sua volontà. Sebbene non si trovi più in uno stato di cattività o all'interno di una sorta di microcosmo separato dal resto della società come quello di un esercito di stanza in un paese straniero, il protagonista rinuncia in prima istanza a ogni coinvolgimento con le dinamiche sociali del cittadino comune, come si denota dalla cura con cui rimuove ogni traccia del suo passaggio da qualunque motel in cui soggiorna. Motel che costituiscono soltanto una tipologia dei numerosi non-luoghi che permeano il lungometraggio, perfetti per rappresentare la transitorietà dell'umanità post-capitalistica, così come l'asetticità dell'esistenza da asceta del terzo millennio scelta da William. In contiguità con l'idea di un cinema trascendentale proposta da Schrader in una delle opere teoriche più note, il ritiro punitivo autoimposto viene interrotto da un improvvisa modificazione della routine che inserisce al suo interno un elemento che ne risveglia il lato più emotivo. Il rapporto con Cirk, che a un certo punto assume tratti quasi genitoriali, nasce evidentemente dall'inconscio desiderio del reduce di riportare sulla strada giusta una persona che ha vissuto esperienze simili alle sue senza però aver ancora macchiato la propria anima. Quasi come se il ragazzo corrispondesse al Tell prima della perdita dell'innocenza, questi mette da parte il proprio ritiro dalla mondanità per poterlo preservare dal diventare parte del Male, non rinnegando neanche più la possibilità di provare sentimenti, tanto da arrivare persino a intraprendere una relazione con una donna.


Nella Weltanschauung del regista di Mishima - Una vita in quattro capitoli (Mishima: A Life in Four Chapters, 1985) non sembra mai esserci davvero spazio per la redenzione, nessun gesto riesce a ripagare i debiti dei protagonisti e, mentre il mondo semplicemente dimentica l'orrore giustificato da mere questioni politiche portato avanti dal paese che si autoproclama leader morale del pianeta intero, il peccatore non può fare altro che continuare a tentare di espiare, sebbene l'inquadratura finale lasci un piccolo spazio per la speranza e l'amore.



venerdì 15 settembre 2023

BARBIE: IN BILICO TRA DECOSTRUZIONE E IL PESO DEGLI STUDIOS

Chi avrebbe mai detto che il 2023 ci avrebbe consegnato persino un film sulla Barbie, simbolo per decenni di un certo status quo perbenista e sessista americano, scritto e diretto dalla coppia più indie del cinema USA? Eppure proprio Greta Gerwig, insieme al marito Noah Baumbach, dirige per la prima volta un blockbuster portando sul terreno del live action la popolarissima bambola di Mattel, che chiaramente finanzia il progetto insieme a Warner Bros, a proposito di colossi al centro di polemiche etiche. Ancor più incredibilmente, anche grazie a una campagna di marketing geniale, esaltata dal fenomeno dei meme Barbenheimer, Barbie è a oggi il più grande incasso dell'anno e con una schiera enorme di recensioni positive.


Ambientata in gran parte all'interno di Barbieland, il mondo in cui vivono le note bambole, la pellicola segue le disavventure di Barbie stereotipo (Margot Robbie), la quale, improvvisamente, inizia a perdere tutta la sua abituale perfezione a causa dei pensieri negativi di Gloria (America Ferrera), donna in carriera del mondo reale che influenza il giocattolo disegnandone versioni più cupe e problematiche. Su suggerimento di Barbie stramba (Kate McKinnon), anche lei divenuta "diversa" a causa delle azioni della sua umana, la protagonista si reca nell'altra dimensione, così da tornare priva di difetti ma con lei parte anche Ken (Ryan Gosling), il quale scopre durante questo viaggio il patriarcato (e i cavalli), decidendo di importarlo a Barbieland.


Dopo un esilarante ouverture che parodia 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), Barbie mette subito in scena, tramite la sfavillante ricostruzione di una cittadina che sembra uscita direttamente dai sogni di ogni bambina cresciuta giocando con l'iconica bambola, un mondo alternativo che, a differenza di quello fin troppo simile al reale di The Lego Movie (Phil Lord, Christopher Miller, 2014), ribalta completamente la società odierna. Barbieland non è soltanto un compendio di tutto quanto creato da Mattel in decenni, compresi i modelli ritirati dal mercato, ma soprattutto un'oasi dove qualsivoglia tipo di potere pertiene unicamente alle donne, mentre gli uomini vivono solamente nella costante adorazione dell'altro sesso, come satelliti gravitanti intorno a un pianeta. Una sorta di repubblica delle donne aristofanea che da un lato abbatte del tutto le ingiustizie del patriarcato, dall'altro però ne replica le dinamiche tossiche e discriminanti semplicemente facendo del mondo maschile la minority oggettificata e del tutto privata di indipendenza, anche solo identitaria. Proprio in virtù di questa sagace operazione di what if che aggiorna intelligentemente il classico ribaltamento dei ruoli della commedia, il film per tre quarti della sua durata funziona come mai ci si potrebbe aspettare da una grande produzione odierna, mettendo in ridicolo qualsiasi estremismo ideologico e ingiustizia sociale e persino l'intera storia del marchio Mattel, che tramite un consiglio d'amministrazione fatto unicamente di WASP inetti e le critiche al vetriolo della teenager Sasha (Arian Greenblatt), viene demolito nella sua ipocrita pretesa di mostrarsi progressista solo nella superficie. 

Il costante umorismo, caricato dalle tantissime citazione cinematografiche disseminate ovunque e quasi sempre relative proprio a opere di lotta al sistema come Matrix (The Matrix, The Wachowskis, 1999), insieme alle performance quanto mai ispirate e autoreferenziali di Margot Robbie e Ryan Gosling, donano a un prodotto evidentemente ad alto budget quella freschezza sia visiva che narrativa tipica dei lavori più indipendenti del duo Gerwig-Baumbach, come se il peso delle ambizioni economiche della produzione non impattassero minimamente sulla libertà creativa degli stessi. Almeno fino al quarto finale del lungometraggio.


Proprio nel momento della pars costruens del pamphlet satirico ecco che la magia svanisce e la sceneggiatura si perde uno scioglimento dell'intreccio all'insegna di tutto quanto è sempre stato assente nella filmografia dei due autori: la sagacia lascia spazio al didascalismo e a un monologo che rimette in gioco tutte le ingenuità da terza ondata femminista che nel 2023 sembravano essere state sostituite da una profondità di analisi e proposta politico-sociale ben diversa, il personaggio di Allan (Michael Cera) viene completamente dimenticato, lasciando l'amaro in bocca circa le possibili implicazioni anche su altre minoranze e all'autrice di Lady Bird (2017) scappa addirittura una battuta su un collega che si ricollega a vicende personali su cui ci sarebbe davvero poco da scherzare, specialmente in un film che tenta di dare voce anche agli istinti più autodistruttivi dell'essere umano.

Proprio in questo infausto finale, che proprio nella penultima sequenza assume le inquietanti vesti di uno spot apologetico scopiazzato dal ben più stratificato epilogo di Vanilla Sky (Cameron Crowe, 2001), sembra venire meno la forza creativa degli autori, schiacciati dalla potente influenza della macchina da blockbuster imbastita da Warner, dimostrando che davvero autori quali Spielberg o Nolan restano eccezioni più uniche che rare nell'imporre la propria visione anche all'interno dello studio system. Ciononostante Barbie resta una visione assolutamente consigliata e un esempio da seguire per dare vita a prodotti pop in cui divertimento e riflessioni vanno di pari passo.

giovedì 14 settembre 2023

OPPENHEIMER: IL BIOPIC SECONDO CHRISTOPHER NOLAN

Nonostante una carriera principalmente votata al neo-noir e alla fantascienza, spesso mescolando entrambi i generi all'interno dello stesso lungometraggio, Christopher Nolan non è nuovo alla ricostruzione storica, come dimostra Dunkirk (2017), eppure mai si era misurato con la biografia di un grande della Storia. Almeno fino all'estate del 2023, che vede l'uscita di Oppenheimer, che segna anche la sua separazione ufficiale da Warner Bros dopo decenni di fruttuosa collaborazione, dato che a produrre il film è Universal. Divenuta un fenomeno ancora prima di arrivare in sala grazie al fenomeno virale a base di meme dovuto alla contemporanea distribuzione in gran parte del mondo con Barbie (Greta Gerwig, 2023), la pellicola sta ottenendo un enorme successo commerciale, tanto da avvicinarsi alle cifre della trilogia nolaniana dedicata a Batman, così come l'unanime plauso della critica, persino quella solitamente più distante dal cinema del regista.


La narrazione si dipana attraverso due diversi punti di vista, contrassegnati anche da una diversa scelta cromatica, sulla vita di J. Robert Oppenheimer (Cillian Murphy), a partire dai suoi studi universitari fino al Progetto Manhattan e al susseguente impegno per il controllo sull'escalation nucleare, che gli provoca numerosi problemi di tipo politico. In particolare il potente Lewis Strauss (Robert Downey Jr.) ne mette in ombra il prestigio ottenuto attraverso l'atomica facendolo accusare, per vie traverse, di comunismo nel pieno della caccia alle streghe maccartista.


Aspettarsi da Christopher Nolan un classico biopic, in cui il protagonista viene raccontato come un eroe predestinato a raggiungere la grandezza in pieno rispetto dell'American dream, sarebbe quantomeno ingenuo e infatti Oppenheimer, nonostante una maggiore e apparente classicità rispetto al resto della sua filmografia (cosa che deve aver tratto in inganno alcuni dei pochi detrattori), mantiene gran parte delle coordinate poetiche e formali del suo cinema. Il film da un lato rispetta con maniacale attenzione ai dettagli la veridicità storica, evitando nella stragrande maggioranza di piegare quanto realmente accaduto ai bisogni della finzione, ma dall'altro trasforma l'obiettivo della macchina da presa in una pressoché costante rappresentazione del punto di vista dello scienziato, a cui si contrappone una diversa prospettiva, segnalata dal bianco e nero, che vive in bilico tra la tipica ripresa oggettiva del classicismo hollywoodiano e il punto di vista di Strauss, novello Salieri di formaniana memoria. La scelta di filtrare ogni evento tramite la soggettività del protagonista permette al cineasta britannico di saltare, in maniera proustiana, da un ricordo all'altro senza dover necessariamente seguire la fabula, tanto da arrivare fin dalle prime sequenze a interrompere il naturalismo del racconto con flash e visioni di "Oppie". Questi momenti onirici, talvolta formati da una manciata di frame rapidi come immagini subliminali, altre volte invece rappresentati da inserti grafico-sonori che si innestano (verbo caro a Nolan) all'interno del reale, mostrano in gran parte stelle ed esplosioni atomiche, introducendo dunque fin dai primi minuti del lungometraggio il tema dei sentimenti che il "distruttore di mondi" nutre nei confronti della propria creatura, che diventa una sorta di mistero da decifrare lungo tutta la pellicola.


Una sfaccettatura da thriller che, insieme agli elementi da legal drama, non solo legano l'opera alla filmografia dell'autore di Inception (2010), ma che, soprattutto, pongono l'accento sul vero fulcro della stessa: l'alone di mistero che circonda il vero pensiero di un uomo geniale sì, ma altrettanto colpevole di aver dato vita a un'era in cui l'uomo è potenzialmente in grado di autodistruggersi. Proprio per questo Nolan lascia spesso da parte il linguaggio filmico tipico del period drama e del biopic per tessere un tesissimo thriller, che trova la sua definitiva consacrazione in due scene, anche piuttosto distanti tra loro. La prima è quella della realizzazione di Trinity, il primo ordigno nucleare esploso in New Mexico, costruita con un dosaggio così massiccio di suspense da divenire a tutti gli effetti la perfetta concretizzazione di quella definizione data da Alfred Hitchcock di tale meccanismo narratologico nel corso della celeberrima conversazione con Truffaut: lo spettatore sa benissimo cosa sta per succedere, è il perno della storia del protagonista, della Seconda guerra mondiale e forse del Novecento, eppure la sua detonazione viene procrastinata così a lungo e con una tale perizia nel ritmo e nella concentrazione di aspettative che il suo arrivo esplode in primis all'interno dell'emozione del pubblico, davvero messo a dura prova dall'attesa. Pur all'insegna dell'attesa ma con una diversissima costruzione è l'altra scena-madre del film, ovvero lo svelamento del dialogo sul lago tra Oppenheimer e Einstein. In questo caso il riferimento evidente è Orson Welles, dato che tutto l'astio provato da Strauss verso il fisico americano e, di conseguenza, la gogna politica a cui lo sottopone nasce proprio da un fraintendimento legato a questo dialogo. Verso la conclusione della pellicola, alla stregua della rivelazione del trucco in The Prestige (Christopher Nolan, 2006), il pubblico scopre finalmente quanto in realtà il punto focale di quell'incontro sia esattamente ciò che Robert prova verso il suo lavoro all'atomica e la grande differenza tra i due geni della fisica quantistica.


Oppenheimer rappresenta in definitiva non soltanto il miglior film dell'anno, almeno fino a questo momento, ma anche una pietra miliare nelle possibilità offerte dal biopic e l'ennesimo magnifico tassello del puzzle nolaniano sull'enigma dell'uomo contemporaneo, di cui il fautore degli stermini di Hiroshima e Nagasaki assurge il ruolo di exemplum di latina accezione.

martedì 22 agosto 2023

JENNIFER'S BODY: UN CULT GENERAZIONALE IN ANTICIPO DI UN DECENNIO

Alla definizione di cult movie spesso corrisponde un prodotto in grado di attirare un seguito crescente soltanto a distanza di anni dalla sua distribuzione ufficiale, com'è accaduto con Blade Runner (Ridley Scott, 1982) o Fight Club (David Fincher, 1999). A questa categoria non può che appartenere anche Jennifer's Body, diretto da Karyn Kusama nel 2009. Nonostante la sceneggiatura rechi la firma di Diablo Cody, reduce dall'enorme successo di Juno (Jason Reitman, 2007), per il quale aveva vinto anche un Academy Award, e la presenza di una star in grande ascesa come Megan Fox, il film incassa molto meno di quanto preventivato e la critica in larga parte lo deride apertamente, sottolineandone proprio presunti difetti macroscopici di scrittura. Con l'avvento del movimento #MeToo e una serie di ottimi riscontri da parte dei successivi lavori della regista americana, la pellicola è stata ampiamente rivalutata. Scopriamo se con merito.


Protagoniste del lungometraggio sono le teenager Jennifer (Megan Fox) e Needy (Amanda Seyfried), amiche da tutta la vita nonostante la prima sia la ragazza più popolare del liceo, mentre la seconda sia molto più introversa e meno appariscente nel look. Una sera mentre assistono al concerto dei Low Shoulder, band indie estremamente ambiziosa, il locale in cui si trovano prende fuoco e Jen, estremamente scossa dall'accaduto, viene portata via dal leader del gruppo (Adam Brody) per sacrificarla a Satana, così da ottenere grande fama in pochissimo tempo. La ragazza sopravvive alle pugnalate delle rockstar ma da quel momento inizierà a nutrirsi delle interiora di numerosi compagni di scuola, tutti maschi.


Per quanto interessante possa essere analizzare i motivi che hanno decretato il fallimento nel 2009 del film, Jennifer's Body è così ricco di spunti di riflessione da un punto di vista prettamente cinematografico per cui mi soffermerò solamente sul testo. Fin dal titolo risulta evidente quanto il corpo femminile sia al centro del racconto, non come banale mezzo di exploitation per irretire i pruriginosi istinti del pubblico maschile, bensì per attaccare proprio questa attitudine a oggettificare le donne, rendendole semplici involucri utili solamente a soddisfare i suddetti bisogni. Per poter mettere in scena ciò che prova qualsiasi ragazza nel momento in cui scopre di essere costantemente nel mirino delle attenzioni sessuali degli uomini, Kusama ricorre agli strumenti offerti dal cinema di genere, dando vita a un ibrido tra due filoni dell'horror particolarmente attenti alla questione femminile quali slasher e rape and revenge. La scelta di chiamare il personaggio interpretato da Megan Fox, attrice simbolo della sessualizzazione fin dalla sua partecipazione a Transformers (Michael Bay, 2007), Jennifer non può non portare alla mente un classico del r&r quale I Spit on your Grave (Non violentate Jennifer, Meir Zarchi, 1978), così come lo stupro da lei subito e la conseguente trasformazione in una forza vendicatrice nei confronti dell'universo maschile, mentre l'ambientazione liceale pertiene maggiormente agli epigoni di Halloween - La notte delle streghe (Halloween, John Carpenter, 1978). Da quest'ultimo l'autrice di Girlfight (2000) riprende anche l'importanza del tema della difficile transizione dall'infanzia all'età adulta dell'adolescenza, i cui traumi vengono simboleggiati dalla lotta per la sopravvivenza causata da un omicida seriale della protagonista Needy, costretta a fare i conti però non con un killer mascherato, bensì la propria migliore amica. Quest'ultima, difatti, a seguito della violenza subita si trasforma in una spietata predatrice che rappresenta perfettamente da un lato l'incubo freudiano di qualunque maschio etero, dall'altro il la materializzazione di tutta l'aggressività fisica e psicologica insita nel sessismo di cui si nutre la società patriarcale tradizionale del mondo occidentale. Non a caso l'arma utilizzata dalla giovane dal volto di Amanda Seyfried per affrontare la ragazza con la quale è cresciuta e per cui prova un evidente tensione sentimentale e sessuale è proprio un coltello, ossia quell'oggetto fallico centrale per ogni slasher nel riflettere la matrice femminista del filone filmico, come evidenziato negli studi seminali di Carol Clover.


All'esplorazione tramite l'horror delle difficoltà quotidiane delle donne nel nostro mondo ancora eccessivamente maschilista, Kusama e Cody abbinano anche un accuratissimo, grazie anche a una vena ironica davvero sprezzante, spaccato dell'ambiente teen dei primi anni Duemila, con particolare cura nel ricostruire vezzi e peculiarità delle subculture giovanili quali goth, indie ed emo. Dalla scelta dei brani della OST fino alla suddivisione i gruppi sociali dei personaggi, con tanto di battute caustiche verso l'arretratezza culturale della periferia americana tipica, Jennifer's Body costituisce un'opera manifesto di un'epoca, di una generazione e di un intero universo giovanilistico e non solo, con un linguaggio cinematografico personale e ancora oggi fresco, motivi per cui è comprensibile come sia riuscito a diventare, seppur con colpevole ritardo, un cult, importantissimo perché anche chi non ha mai vissuto il 2009 possa riflettere sulle iniquità di genere.

sabato 19 agosto 2023

EO: IL BUON SELVAGGIO AI TEMPI DEL CINEMA DIGITALE

In mezzo a professionisti esemplari e prolifici dell'industria hollywoodiana e assidui frequentatori dei festival più prestigiosi del panorama mondiale vi sono ancora oggi figure anche biograficamente più singolari, che potrebbero ispirare essi stessi la fantasia di qualche collega regista o romanziere, come ad esempio Terrence Malick. Oggi però mi riferisco al polacco Jerzy Skolimowski, attivo dietro la macchina da ormai più di cinquant'anni ma anche davanti alla stessa, persino nel blockbuster per eccellenza The Avengers (Joss Whedon, 2012), o con pennelli e tavolozza. Un artista a trecentosessanta gradi, che, nonostante l'avanzare dell'età, dimostra ancora una vivacità intellettuale invidiabile, confermata dall'uscita nel 2022 del suo ultimo film, EO, presentato in concorso a Cannes e capace di ottenere la candidatura al miglior film internazionale all'ultima edizione degli Academy Awards.


Protagonista assoluto della pellicola è un asino, dal quale prende il titolo l'opera, che in seguito alla chiusura del circo nel quale si esibisce con Kasandra (Sandra Drzymalska) è costretto a un lungo peregrinare in giro per l'Europa, dalla natia Polonia fino all'Italia. Nel corso di questo errare incontra una moltitudine di esseri umani, alcuni estremamente gentili con lui, al pari della sua vecchia padrona, mentre altri ne mettono persino a repentaglio la vita, come alcuni ultras che lo picchiano per aver distratto il rigorista della squadra che supportano.


Fin dalla breve sinossi appena esposta risulta evidente l'ispirazione, apertamente confermata e rivendicata dal suo autore, di EO a una pietra miliare della settima arte quale Au hasard Balthazar (Robert Bresson, 1966), con il quale condivide il punto di vista di un asino e persino alcune svolte del racconto. Naturalmente girare un film con un modello tanto prestigioso aumenta anche i rischi, come in fondo dimostra l'accoglienza tutt'altro che straordinaria riservatagli dalla critica nostrana, eppure Skolimowski, che conosce come pochi il cinema bressoniano, rende proprio un soggetto ormai non più così originale, soprattutto dal punto di vista formale. Rielaborando il modernismo e il rigore estetico del suo maestro, il cineasta polacco porta avanti il proprio percorso di scoperta e adattamento dei linguaggi tipici del digitale, spesso ai confini della video arte, a un background dalla matrice ancorata nelle nouvelle vague europee degli anni Sessanta già visibile nel precedente 11 Minut (2015). Scegliendo di adottare pienamente il punto di vista del protagonista sulla narrazione, la macchina da presa rifiuta le classiche angolazioni ad altezza umana o i campi lunghi da narratore onnisciente, facendo sì che il profilmico sia costantemente filtrato dalla soggettività dell'asino, motivo per cui viene del tutto abbandonata ogni velleità di pura oggettività propugnata dal decoupage americano. Da questa totale connivenza tra mdp e oggi e interiorità di EO scaturisce in primis una potenza emotiva non così preventivabile per un lungometraggio avente come personaggio principale un animale privo di parola, che invece sovrasta di gran lunga per quanto concerne l'empatia dello spettatore uomini e donne inquadrati, che spesso risultano soltanto meri figuranti, alla stregua di quei paesaggi che si susseguono rapidi dal finestrino di un viaggiatore. Viaggiatore proprio come lo stesso asinello, che come un viandante di teutonica matrice culturale, scopre tramite incontri più o meno fugaci una grande varietà di umani, che però, al netto di alcune eccezioni, si rivelano quanto mai crudeli nei confronti degli animali; talvolta nei confronti del protagonista, in alcuni casi invece con altri fratelli del mondo animale. 


Per mettere in luce proprio la diversità dell'ex circense rispetto all'egoismo e perfino al sadismo umano Skolimowski adopera un registro espressivo che distorce sovente il classicismo, come ad esempio le soggettive tinte di rosso che sottolineano la dimensione espressiva di quanto inquadrato, poiché EO, a differenza di quanto pensano ancora oggi molti, prova eccome dei sentimenti, è capace di ricordare ed è talmente emotivo da arrivare persino a vendicare delle mucche destinate al macello provocando la morte di un perfido allevatore. Pur ricalcando a grandi linee il cammino cristologico al centro della pellicola diretta da Bresson, l'autore di La ragazza del bagno pubblico (Deep End, Jerzy Skolimowski, 1970) vi aggiunge caratteri tipici della propria poetica, rendendo maggiormente sfumato il giudizio etico sui personaggi, facendo dell'asino un buon selvaggio di rousseauniana memoria aggiornato però al relativismo tipico del mondo post-11 settembre, dove nessuno è mai totalmente innocente e puramente buono; eppure se qualcuno vi si avvicina, scegliendo addirittura la via del martirio pur di abbandonare un'esistenza tanto sofferta e votata al male, lo fa sicuramente di più un outsider come un animale da soma.

domenica 9 luglio 2023

DECISION TO LEAVE: MARE E MONTAGNA DESTINATI SOLAMENTE A SFIORARSI

A distanza di ben dieci anni dal folgorante successo mondiale di Oldboy (2003), Park Chan-wook è ancora oggi il primo nome che viene in mente a una grandissima fetta di appassionati quando si parla di cinema sudcoreano, alla pari forse solamente con Bong Joon-ho, grazie soprattutto all'incetta di Oscar ottenuti con Parasite (2019). Dopo aver esplorato le diverse sfumature della vendetta e dell'erotismo il cineasta realizza nel 2022 Decision to Leave, ottenendo ampi riconoscimenti in tutto il mondo, in primis al Festival di Cannes, e sfiorando persino la candidatura all'Academy per il miglior film internazionale. La pellicola ha goduto persino di una fugace distribuzione su grande schermo in Italia, a conferma dello status di maestro riconosciuto dell'autore di Stoker (Park Chan-wook, 2013).

Protagonista del lungometraggio è Jang Hae-jun (Park Hae-il), detective molto stimato ma con problemi di insonnia alle prese con la morte di un ex ufficiale dell'immigrazione, precipitato durante un'escursione montana. Le indagini portano a sospettare di omicidio la giovane moglie del defunto, Song Seo-rae (Tang Wei). Nel corso degli interrogatori il poliziotto inizia a provare una forte attrazione nei confronti della donna, apparentemente ricambiata, che provocherà conseguenze inattese sia a livello personale che professionale.


"Due solitudini si attraggono" cantavano nel 2002 i Subsonica, fornendo con un anticipo di più di vent'anni una perfetta theme song per Decision to Leave. Quello che inizia come un tipico whodunit, condito da omicidio, detection e atmosfere plumbee ormai tipiche di quel panorama neo-noir contemporaneo che proprio Park aveva contribuito a cementare con la cosidetta Trilogia della vendetta, si trasforma infatti in un più classico noir intriso di elementi da melò sul solco tracciato da Hitchcock con La donna che visse due volte (Vertigo, 1958), che non a caso è stato più volte riconosciuto dal regista come una delle opere che lo ha maggiormente segnato. Proprio come nel capolavoro interpretato da James Stewart e Kim Novak la pellicola si divide in due metà quasi speculari, costituite da due diverse fasi della relazione proibita e non pienamente vissuta dei protagonisti, legati non solo da un evidente desiderio reciproco ma anche dagli inganni femminili verso l'amato, distrutto sia nel proprio orgoglio di investigatore che di riservato uomo che aveva appena messo a nudo completamente i suoi sentimenti. Se Hitchcock però metteva in scena nella seconda metà un meccanismo ai limiti della necrofilia da parte di Scottie nel tentativo di rivivere quell'amore che gli era stato negato, l'autore asiatico sembra ripartire in dosi identiche l'ossessione dell'uno verso l'altro, con un primo turno in cui Hae-jun fa di tutto pur di restare accanto alla vedova, mentre nella seconda i ruoli si invertono, tanto che quest'ultima si risposa e si trasferisce unicamente per continuare a vivere vicino al poliziotto.
E in fondo proprio i più disparati tentativi di avvicinarsi da parte della coppia costituiscono in cuore pulsante del lungometraggio, lasciando completamente in secondo piano l'intreccio giallo, come in una sorta di sintesi tra L'avventura di Michelangelo Antonioni (1960) e In the Mood for Love (Wong Kar-wai, 2000), poiché persino la scomparsa di un'amica o la morte di un marito finiscono sullo sfondo a discapito della ricerca di un contatto sincero tra due individui destinati però alla solitudine. A conferma di ciò ogni singolo elemento della messa in scena lavora proprio per unire e separare allo stesso tempo gli amanti: dall'insistente inquadratura, raddoppiata dagli specchi, che contraddistingue l'interrogatorio in cui scocca la scintilla fino ai diffusissimi contatti tra le mani e persino i respiri dei due, la macchina da presa suggerisce continuamente l'impossibilità di tenere distanti Seo-rae e Hae-jun, eppure al contempo ne sottolinea la diversa indole interiore rendendo prettamente visiva la citazione di Confucio pronunciata dalla donna in cui diventa evidente come lei sia paragonabile al mare, mentre lui alla montagna. Almeno fino allo struggente quanto poetico finale in cui i due elementi finalmente si mescolano tra loro al punto quasi da ribaltarsi all'interno della medesima inquadratura.

Con Decision to Leave Park non si limita ad aggiungere alla proprio filmografia un altro splendido tassello, bensì realizza una delle opere migliori del 2022, insieme a The Fabelmans (Steven Spielberg), ribadendo quanta qualità abbia ancora da offrire una forma d'arte continuamente data per morta come il cinema.


venerdì 16 giugno 2023

THE FLASH: UN INSPERATO QUANTO TRAVOLGENTE COMMIATO AL DCEU

Parlare di produzioni travagliate quando si tratta di pellicole targate DC Comics sembra quasi la regola (si pensi anche soltanto a Zack Snyder's Justice League arrivato per un vero e proprio miracolo su HBO Max nel 2021), eppure dopo quasi dieci anni di lavorazione, continui cambi di timonieri e le vicende giudiziarie di Ezra Miller sembrava proprio che The Flash non sarebbe mai stato distribuito, com'è invece accaduto, finalmente, nell'estate del 2023, con alla regia Andy Muschietti.


Ambientato a distanza di alcuni anni dalla resurrezione di Superman e la conseguente battaglia contro Steppenwolf, Barry Allen (Ezra Miller), nonostante il parere negativo di Bruce Wayne (Ben Affleck) e incoraggiato involontariamente dalla "crush" Iris West (Kiersey Clemons), decide di tornare indietro nel tempo per impedire la morte della madre (Maribel Verdù), per la quale tra l'altro viene da anni accusato ingiustamente suo padre Henry (Roy Livingston). Sebbene tenti di intaccare meno possibile il continuum spazio-temporale Flash viene scaraventato da un'entità misteriosa in una versione alternativa del 2013, dove è costretto a collaborare con il se stesso diciottenne, un Batman più anziano (Michael Keaton) e la kryptoniana Kara (Sasha Calle) per sconfiggere il generale Zod (Michael Shannon) e tornare nel proprio presente.


Analizzare un'opera come The Flash, arrivata in sala con almeno un lustro di ritardo rispetto ai piani iniziali, senza che la mente vaghi verso le sue vicissitudini produttive è un'operazione davvero difficile, specie se si considera quanto queste si rispecchino nella diegesi, dove i continui tentativi, spesso maldestri, di Barry e le infinite diramazioni del multiverso in cui si muove riflettono quasi specularmente le innumerevoli sliding doors attraversate dal film e dall'intero DCEU. Cosa sarebbe successo se avessimo avuto un The Flash a raccontare le origini del personaggio ancora prima del team up con il resto della Justice League? Come avrebbe accolto il pubblico l'idea del multiverso cinque o sei anni fa, quando uno strumento narratologico di questo tipo risultava ben noto quasi unicamente agli appassionati dei fumetti dedicati proprio al velocista scarlatto? Il racconto nato dalla penna di Christina Hodson risponde parzialmente a queste domande, non con ipotesi fantasiose, bensì con un intero percorso di crescita del protagonista e della sua controparte adolescente che si può riassumere in una delle frasi pronunciate a più riprese da Nora Allen: non sempre esiste una risposta, per questo qualche volta bisogna solamente lasciar andare. L'eroe, difatti, mai come nel suddetto caso non è colui che deve mostrarsi in grado di superare qualsiasi ostacolo e sconfiggere la minaccia di un male esterno, incarnato da un generale Zod che assurge in maniera palese un ruolo da MacGuffin hitchcockiano, bensì l'individuo che riesce a scavare nel profondo del proprio io fino a venire a patti con il suo lato oscuro e le ferite che ne hanno segnato l'esistenza, fino ad accettare quanto essi ne abbiano definito carattere, ideali, inclinazioni e rapporti umani. Come già accadeva in alcuni dei migliori esponenti del panorama cinecomic contemporaneo l'atavica lotta tra Bene e Male assume tratti quanto mai interiori ed esistenziali, seppur esteriorizzati attraverso topoi del genere come le numerose sequenze action e la moltiplicazione dei Barry Allen, che danno forma concreta alle diverse anime che convivono dentro ciascuno di noi in maniera non dissimile dalla classica dualità Jekyll/Hyde. Certo questa volta la coppia non si distingue per il diverso grado di moralità ma, in linea con un tono piuttosto scanzonato, si diverte a giocare con il divario generazionale tra millennials e teenager, con una lunga serie di gag dall'ottima riuscita, grazie anche alla verve interpretativa di Miller, che sanciscono un unicum all'interno dei lungometraggi DC, spesso piuttosto incerti quando si tratta di gestire i tempi comici. Nonostante ciò resta a elevare il film rispetto a un certo piattume in cui versa il filone negli ultimi anni è proprio la gravitas insita nelle vicende umane del protagonista, novello Marty McFly guidato da un Doc rappresentato da un'altra coppia, i due diversi Batman che, al netto delle differenze di età, disavventure e periodi storici in cui sono stati concepiti per la sala, cercano di indirizzare il più giovane amico verso quella consapevolezza dell'importanza dell'accettazione di sé e della fallibilità umana che rendono il vigilante di Gotham un personaggio amato da qualsiasi generazione. 


Sebbene non manchino le ombre, figlie in alcuni casi delle succitate traversie produttive, come lo scarso utilizzo della carismatica Supergirl o la poca personalità della regia di Muschietti, che si fa notare davvero soltanto nel corso dell'adrenalinico inseguimento in moto a inizio pellicola, The Flash esce vincente dai tanti traumi subiti, dimostrando come sia possibile mostrare il lato anche più leggero dei supereroi DC senza dover per forza scimmiottare la concorrenza, lasciando però un grande vuoto almeno in una certa fetta di spettatori: come si può dire addio a cuor leggero a un Affleck così struggente e muscolare al tempo stesso nei panni del Cavaliere oscuro, così come al resto di quel patrimonio di personaggi, possibili storie, relazioni e temi, persino visuali, che hanno contraddistinto lo Snyderverse e che questo film ha omaggiato ben più di quanto ci si aspettasse?