Chi avrebbe mai detto che il 2023 ci avrebbe consegnato persino un film sulla Barbie, simbolo per decenni di un certo status quo perbenista e sessista americano, scritto e diretto dalla coppia più indie del cinema USA? Eppure proprio Greta Gerwig, insieme al marito Noah Baumbach, dirige per la prima volta un blockbuster portando sul terreno del live action la popolarissima bambola di Mattel, che chiaramente finanzia il progetto insieme a Warner Bros, a proposito di colossi al centro di polemiche etiche. Ancor più incredibilmente, anche grazie a una campagna di marketing geniale, esaltata dal fenomeno dei meme Barbenheimer, Barbie è a oggi il più grande incasso dell'anno e con una schiera enorme di recensioni positive.
Ambientata in gran parte all'interno di Barbieland, il mondo in cui vivono le note bambole, la pellicola segue le disavventure di Barbie stereotipo (Margot Robbie), la quale, improvvisamente, inizia a perdere tutta la sua abituale perfezione a causa dei pensieri negativi di Gloria (America Ferrera), donna in carriera del mondo reale che influenza il giocattolo disegnandone versioni più cupe e problematiche. Su suggerimento di Barbie stramba (Kate McKinnon), anche lei divenuta "diversa" a causa delle azioni della sua umana, la protagonista si reca nell'altra dimensione, così da tornare priva di difetti ma con lei parte anche Ken (Ryan Gosling), il quale scopre durante questo viaggio il patriarcato (e i cavalli), decidendo di importarlo a Barbieland.
Dopo un esilarante ouverture che parodia 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), Barbie mette subito in scena, tramite la sfavillante ricostruzione di una cittadina che sembra uscita direttamente dai sogni di ogni bambina cresciuta giocando con l'iconica bambola, un mondo alternativo che, a differenza di quello fin troppo simile al reale di The Lego Movie (Phil Lord, Christopher Miller, 2014), ribalta completamente la società odierna. Barbieland non è soltanto un compendio di tutto quanto creato da Mattel in decenni, compresi i modelli ritirati dal mercato, ma soprattutto un'oasi dove qualsivoglia tipo di potere pertiene unicamente alle donne, mentre gli uomini vivono solamente nella costante adorazione dell'altro sesso, come satelliti gravitanti intorno a un pianeta. Una sorta di repubblica delle donne aristofanea che da un lato abbatte del tutto le ingiustizie del patriarcato, dall'altro però ne replica le dinamiche tossiche e discriminanti semplicemente facendo del mondo maschile la minority oggettificata e del tutto privata di indipendenza, anche solo identitaria. Proprio in virtù di questa sagace operazione di what if che aggiorna intelligentemente il classico ribaltamento dei ruoli della commedia, il film per tre quarti della sua durata funziona come mai ci si potrebbe aspettare da una grande produzione odierna, mettendo in ridicolo qualsiasi estremismo ideologico e ingiustizia sociale e persino l'intera storia del marchio Mattel, che tramite un consiglio d'amministrazione fatto unicamente di WASP inetti e le critiche al vetriolo della teenager Sasha (Arian Greenblatt), viene demolito nella sua ipocrita pretesa di mostrarsi progressista solo nella superficie.
Il costante umorismo, caricato dalle tantissime citazione cinematografiche disseminate ovunque e quasi sempre relative proprio a opere di lotta al sistema come Matrix (The Matrix, The Wachowskis, 1999), insieme alle performance quanto mai ispirate e autoreferenziali di Margot Robbie e Ryan Gosling, donano a un prodotto evidentemente ad alto budget quella freschezza sia visiva che narrativa tipica dei lavori più indipendenti del duo Gerwig-Baumbach, come se il peso delle ambizioni economiche della produzione non impattassero minimamente sulla libertà creativa degli stessi. Almeno fino al quarto finale del lungometraggio.
Proprio nel momento della pars costruens del pamphlet satirico ecco che la magia svanisce e la sceneggiatura si perde uno scioglimento dell'intreccio all'insegna di tutto quanto è sempre stato assente nella filmografia dei due autori: la sagacia lascia spazio al didascalismo e a un monologo che rimette in gioco tutte le ingenuità da terza ondata femminista che nel 2023 sembravano essere state sostituite da una profondità di analisi e proposta politico-sociale ben diversa, il personaggio di Allan (Michael Cera) viene completamente dimenticato, lasciando l'amaro in bocca circa le possibili implicazioni anche su altre minoranze e all'autrice di Lady Bird (2017) scappa addirittura una battuta su un collega che si ricollega a vicende personali su cui ci sarebbe davvero poco da scherzare, specialmente in un film che tenta di dare voce anche agli istinti più autodistruttivi dell'essere umano.
Proprio in questo infausto finale, che proprio nella penultima sequenza assume le inquietanti vesti di uno spot apologetico scopiazzato dal ben più stratificato epilogo di Vanilla Sky (Cameron Crowe, 2001), sembra venire meno la forza creativa degli autori, schiacciati dalla potente influenza della macchina da blockbuster imbastita da Warner, dimostrando che davvero autori quali Spielberg o Nolan restano eccezioni più uniche che rare nell'imporre la propria visione anche all'interno dello studio system. Ciononostante Barbie resta una visione assolutamente consigliata e un esempio da seguire per dare vita a prodotti pop in cui divertimento e riflessioni vanno di pari passo.
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