Quando si parla di cinema italiano nella maggior parte dei casi la mente viaggia tra i capolavori del Neorealismo, le risate amare della Commedia all'italiana e gli exploit contemporanei di autori come Sorrentino o Garrone, dimenticando però l'altra faccia della medaglia del periodo aureo della settima arte nostrana. In più di un'occasione ho accennato a una rinascita negli ultimi cinque o sei anni dei generi nel Belpaese ma quando è esplosa la diffusione di horror, peplum e gialli che hanno regalato fama internazionale a personalità quali Mario Bava e Dario Argento? Una data convenzionalmente accettata dagli storici è il 1957, anno di uscita de I vampiri, diretto da Riccardo Freda come sfida alla secolare estraneità della cultura italiana nei confronti del gotico e concluso proprio dal summenzionato Bava, a causa di dissidi tra il regista e i produttori negli ultimi giorni di riprese. Un titolo divenuto sinonimo della nascita dell'horror sul suolo italico ma merita ancora oggi una visione, al di là del ruolo di capostipite del genere? Scopriamolo.
Ambientato in una Parigi contemporanea, il film segue l'inchiesta del giornalista Pierre Latin (Dario Michaelis) sui misteriosi omicidi di giovani donne, tutte private del sangue come se a ucciderle fosse stato un vampiro. Alla continua ricerca di possibili indizi sul caso, il reporter deve gestire anche la corte dell'aristocratica Giselle Du Grand (Gianna Maria Canale), innamorata di lui come sua zia lo era del padre del protagonista.
Nonostante un titolo tanto diretto, I vampiri si presenta fin dalle prime sequenze come un parente piuttosto lontano dal filone iniziato dal seminale Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, Friedrich Wilhelm Murnau, 1922). Pur senza rinunciare a topoi come la scelta di avvenenti donne in qualità di vittime e un'ambientazione tipicamente gotica come il castello della Du Grand, Freda attinge alla sua notevole cinefilia e all'esperienza di regista affermato per dare vita a una miscela di elementi provenienti dai più disparati riferimenti, al punto da rendere quasi irriconoscibile la matrice vampirica originaria. Tra mad doctor e sieri sperimentali di origine fantascientifica, una componente whodunit poeiana e la sopracitata ambientazione moderna, il cineasta nato ad Alessandria d'Egitto sceglie di dare vita a una propria lettura del mito dei non-morti, puntando su un'aderenza al reale che li rende un perfetto mezzo di critica sociale, anticipando in tal senso le istanze del New Horror americano degli anni Settanta.
Come confermato anche all'interno di interviste e della sua biografia, Freda vede nel vampirismo la smania delle generazioni più anziane di riacquistare il vigore perduto prelevandolo dai giovani, in un egoistico atto di ribaltamento della freudiana operazione di uccisione dei padri. A ciò si aggiunge, utilizzando come esempio di tale visione il personaggio della duchessa, una più politica riflessione sul rapporto tra il mondo contemporaneo e la decadenza dell'aristocrazia, ormai del tutto depauperata dei propri privilegi dall'ascesa borghese. In un ultimo tentativo di mantenere il proprio status si avventa sulla vitalità del motore della società attuale, attraverso strumenti del tutto moderni come chimica e chirurgia, privando il vampiro di quel sostrato erotico racchiuso nel gesto del morso sul collo.
Alle interessanti digressioni rispetto alla tradizione del filone esploso con il romanzo di Bram Stoker a fine Ottocento, Freda abbina una cura per la forma figlia di un'impostazione classicheggiante di ispirazione hitchcockiana, in totale opposizione alla sovraesposizione della macchina da presa resa popolare dal Neorealismo. Proprio come il maestro del brivido, l'autore italiano si mantiene costantemente in bilico tra la trasparenza registica hollywoodiana e momenti di virtuosismo attrattivo, resi ancora più evidenti dalla maestria nell'uso del bianco e nero da parte del direttore della fotografia Bava, che alle ascendenze espressioniste abbina straordinari effetti speciali, come l'indimenticabile trasformazione senza stacchi di montaggio di Giselle.
Vale dunque la pena recuperare I vampiri anche per chi non possiede particolari velleità di storia del cinema? Assolutamente sì: pur non essendo il miglior lavoro di un director raffinato come Freda, la sua originale interpretazione della figura del vampiro, insieme all'eccezionale impianto estetico lo rendono un titolo da riscoprire.