mercoledì 24 luglio 2024

ABIGAIL: DAL TRAMONTO ALL'ALBA 2.0 MADE IN RADIO SILENCE

Dopo gli esordi super indie, all'insegna del mockumentary e dei film antologici, oggi il duo composto da Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, noto anche come Radio Silence, è stabilmente sulla cresta dell'onda dell'horror mainstream grazie all'enorme successo di Scream (2022) e Scream VI (2023), tanto da potersi permettere senza battere ciglio di abbandonare la saga di Ghostface da loro rilanciata per tuffarsi in una produzione del tutto slegata da franchise: Abigail. Distribuito nel corso della primavera del 2024, il lungometraggio ottiene discreti incassi al botteghino, sebbene nettamente più bassi rispetto alle fatiche precedenti, ma con riscontri largamente positivi da parte della critica, a conferma di una carriera ormai libera anche dalla possibile etichetta di "quelli dei requel".


La pellicola segue le impreviste conseguenze del rapimento della bambina che dona il titolo alla stessa (Alisha Weir), organizzato da una banda di professionisti, assemblata dal misterioso Lambert (Giancarlo Esposito), di cui fanno parte la tossica riabilitata Joey (Melissa Barrera), l'ex poliziotto Frank (Dan Stevens), l'hacker Sammy (Kathryn Newton), il forzuto Peter (Kevin Durand) e l'autista Dean (Angus Cloud).


I Radio Silence fin dai tempi di V/H/S (diretto insieme a David Bruckner, Justin Martinez, Glenn McQuaid, Joe Swanberg, Chad Villella, Ti West e Adam Wingard nel 2012) hanno portato avanti un'idea di cinema fortemente radicata nei codici di genere e nella sovversione degli stessi in chiave ironica e talvolta persino aspramente satirica. Un atteggiamento puramente postmoderno perfettamente aderente al panorama hollywoodiano contemporaneo, dove ogni singolo film vive come una sorta di ipertesto che, o perché parte di un universo narrativo espanso o perché un sequel o reboot, richiede conoscenze pregresse allo spettatore per poterne godere in pieno ammiccamenti, connessioni o ribaltamenti teoretici. Quando si parla di cinema postmoderno non si può non pensare alla filmografia di Quentin Tarantino, divenuto simbolo stesso di una settima arte intrisa di cinefilia e in cui qualsiasi elemento sia narrativo che formale risponde al bisogno di richiamare altre opere. In particolare con Abigail Bettinelli-Olpin e Gillett compiono un'operazione che, in maniera fin troppo esplicita per essere involontaria, aggiorna al terzo millennio quanto fatto più di venti anni fa da un'altra coppia di amici, Tarantino e Robert Rodriguez, che ibridarono l'action a fondo malavitoso con l'horror sovrannaturale dando vita a Dal tramonto all'alba (From Dusk Till Dawn, 1996). Simile è l'approccio estremamente ludico e autoreferenziale sia al filone crime (o pulp come andava di moda definirlo al tempo), sia a quello orrorifico, così come l'utilizzo costante di dialoghi brillanti e l'ambiguità morale di tutti i personaggi ma chiaramente gli autori di Finché morte non ci separi (Ready or Not, 2019) sono consapevoli di parlare a un pubblico che conosce a menadito la produzione del cineasta vincitore della Palma d'oro per Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) e dunque fin dai trailer annunciano sfacciatamente il twist che nel modello di riferimento era la chiave di volta dell'intero racconto, perché ciò a cui tengono maggiormente è fornire a quello stesso pubblico un giro sulle montagne russe a base di gore, humour nero e ribaltamento dei topoi sui vampiri, specie quelli a cui sono più affezionati quei Millennials nati proprio durante il decennio dominato dal regista di Le Iene (Reservoir Dogs, 1992), dal quale peraltro deriva l'idea di una squadra di rapinatori privi di rapporti personali tra di loro e che usano pseudonimi. 


Al di là di questo apparato di citazionismo anni Novanta Abigail è difatti un inno al cinema for cinema sake, privo delle implicazioni sociali di Ready or Not o di quelle metacinematografiche di Scream, ma irresistibilmente divertente, in grado di sfruttare al meglio sia il setting da horror gotico che la verve interpretativa di un cast a pieno agio con l'orrore postmoderno. Proprio come nel cult del 1996 anche qui non ci saranno grandi sottotesti a livello tematico o innovazioni epocali per quanto concerne la forma ma se neanche un minuto dei circa 110 di cui si compone la pellicola annoiano è ovviamente merito della perizia con cui gli autori si muovono all'interno del genere che frequentano ormai da più di dieci anni e che probabilmente intendono omaggiare proprio con questo disimpegno totale e ricercato, perché come la leggerezza sarà anche una perversione, come diceva Sorrentino tramite Michael Caine in Youth (2013), ma anche una tentazione necessaria in alcuni momenti della nostra vita.

lunedì 8 luglio 2024

OMEN - LE ORIGINI DEL PRESAGIO: UN PREQUEL FINALMENTE AL PASSO CON I TEMPI

Spesso da almeno una ventina di anni gli appassionati di cinema lamentano una diffusa mancanza di idee nel panorama hollywoodiano, simboleggiata dalla propensione sempre più accentuata verso nuovi capitoli di saghe già affermate, siano essi sequel, prequel, reboot, requel e chi più ne ha, più ne metta. Come ogni stereotipo chiaramente un fondi di verità in queste affermazioni è innegabile, specie nel post-pandemia con la generale crisi della sala cinematografica, ma è altrettanto innegabile che vi siano molti esempi di opere di valore tra queste nuove iterazioni di vecchie proprietà intellettuali. A tal proposito il 2024 vede l'uscita di Omen - Le origini del presagio (The First Omen), debutto al lungometraggio di Arkasha Stevenson. Nonostante un certo scetticismo anche tra i fan dell'originale, in parte legati al dimenticabile remake risalente al 2006 (The Omen, John Moore), il film ottiene un buonissimo riscontro critico e discreti numeri al botteghino, tanto da presagire (scusate il gioco di parole) un possibile requel ambientato dopo gli avvenimenti del cult diretto da Richard Donner.



Protagonista della pellicola, ambientata nella Roma dei primi anni Settanta, è la novizia Margaret (Nell Tiger Free), che dopo aver sofferto per anni di strane allucinazioni sembra rivedere la se stessa del passato nella giovane Carlita (Nicole Sorace), la quale proprio a causa di queste visioni viene ostracizzata dalle suore che gestiscono l'orfanatrofio che ospita le due ragazze. Quelli che sembrano comportamenti vessatori dettati da pregiudizi assumono però contorni ben più inquietanti quando Margaret entra in contatto con Padre Brennan (Ralph Ineson), che le apre gli occhi su una incredibile cospirazione interna alla Chiesa.



Inserirsi all'interno di una saga ben con solidata, specialmente a distanza di decenni dal suo periodo aureo, è sempre un'impresa improba, nella quale ogni regista deve scegliere tra due indirizzi principali: uno maggiormente nostalgico e rispettoso del canone al quale si approccia, strada solitamente più battuta, e un altro, al contrario, che integra i topoi principali del franchise con una visione personale di quel materiale, come era accaduto, per esempio, nei tanti sequel di Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984). Stevenson, dopo un incipit citazionista, sia nei confronti del capostipite, sia verso L'esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973), mette subito in evidenza quanto il film sia figlio di una sensibilità al genere tutta contemporanea, ponendo al centro del racconto il percorso di formazione di Margaret, che arriva a Roma sicura ormai della propria scelta di matrice religiosa, per poi attraversare una sorta di discesa negli Inferi, quanto mai letterali rispetto al viaggio dell'eroe campbelliano, attraverso cui entra in contatto con tutte quelle esperienze che portano l'adolescente a diventare realmente adulto. Il Male ma anche il desiderio sessuale, l'istinto materno, la fratellanza con i pari, il conflitto con le generazioni precedenti trasformano completamente l'io della novizia e ovviamente il suo rapporto con Dio e la Chiesa, in piena corrispondenza a quanto avviene agli stessi giovani che protestano nella Roma sessantottina che, non a caso, fa da sfondo alle vicende narrate. Anche in queste affinità elettive tra milieu e racconto specifico dei personaggi principali la regista americana dimostra di essere maggiormente legata all'horror più contemporaneo, alla lezione di autori come Eggers e Peele che hanno aggiornato storie quasi ancestrali alle istanze di un mondo profondamente cambiato rispetto ai tempi di Donner e Friedkin, dove la rabbia giovanile è ancora più attenta alle disparità sociali e politiche verso le minoranze e le donne sono sempre più consce della idiosincrasia tra i proclami di un'epoca di pari opportunità e una manifesta realtà concreta, quotidiana in cui gli uomini continuano a decidere del corpo e della mente femminile, come simboleggiato dalla maternità diabolica imposta dall'élite ecclesiastica (maschile) a donne e giovani ragazze indifese nei loro confronti, almeno fino a quando non trovano persino in questa gravidanza forzata uno strumento di reazione al patriarcato de facto.



Persino da un punto di vista formale Stevenson non si limita a girare un film competente, in cui l'orrore nasce semplicemente dalla preparazione verso jumpscare piazzati nei momenti di maggiore tensione, bensì imbastisce un'atmosfera di costante angoscia in primis emotiva ed esistenziale, a cui aggiunge una potenza immaginifica in parte figlia dei già citati Donner e Friedkin, in parte connessa a un'iconografia cristiana che fornisce all'artista più attento un campionario di figure terrificanti più che sufficientemente variegata. Interessante anche la libertà con cui la cineasta mostra, alla faccia della censura, sfacciatamente momenti di estrema violenza esibita, persino con connotati sessuali che solitamente sono quelli più allarmanti per gli studios, attenti a non spiazzare troppo il benpensante pubblico americano. Mai come in questo caso il finale aperto a nuovi sequel risulta gradito, poiché Omen - Le origini del presagio riesce nella tutt'altro che semplice impresa non solo di soddisfare l'appassionato di cinema orrorifico, bensì di mettergli voglia di ulteriori spaventi.