lunedì 20 dicembre 2021

LE CONSEGUENZE DELL'AMORE: L'INETTO CONTEMPORANEO IN CERCA DI UMANITÀ

Paolo Sorrentino non necessita alcuna introduzione. Amato incondizionatamente all'estero, divisivo in Italia, come spesso accade ai nostri artisti più fortunati, ma conosciuto almeno per La grande bellezza (2013) anche al di fuori della cerchia degli appassionati. In occasione della distribuzione, sia in sala che in streaming, di É stata la mano di Dio (Paolo Sorrentino, 2021) oggi mi preme ricordare il secondo lungometraggio del cineasta partenopeo, Le conseguenze dell'amore, che nel lontano 2004 ne aveva lanciato la fulgida carriera. Pluripremiato nel Belpaese, riscopriamo il film amato addirittura dagli hater più accaniti del regista premio Oscar.

Protagonista assoluto dell'opera è Titta Di Girolamo (Toni Servillo), ex commercialista invischiato con alcune cosche mafiose siciliane che lo hanno costretto a una sorta di esilio in un hotel svizzero, dove ogni giorno deposita grosse somme di denaro in una banca locale. La  monotonia della sua vita all'estero viene infranta dall'infatuazione nei confronti di Sofia (Olivia Magnani), barista dell'albergo. La decisione di rivolgerle finalmente la parola cambia irrimediabilmente la sua routine.

Con il senno di poi Le conseguenze dell'amore rappresenta un passo fondamentale nell'evoluzione della poetica e dello stile sorrentiniani, a cominciare dalla rappresentazione del personaggio attorno a cui ruota l'intera narrazione. Titta, così come i due Tony del precedente L'uomo in più (2001) o il successivo Gep Gambardella, vive una condizione di totale impasse, una stasi perpetua che ha totalmente disumanizzato un'esistenza costellata solamente da meccanici rituali, ripetuti con un misto tra la sacralità liturgica e la precisione di un orologiaio. Non a caso soggiorna da anni in un hotel, passa giornate intere in una banca e durante la notte passeggia insonne nella propria camera. Una carrellata di non-luoghi simbolo della condizione esistenziale contemporanea, spogliata dal post-capitalismo di ogni traccia di reale umanità in favore di puri e vacui simulacri della stessa. Attraverso una quanto mai emblematica, lunga inquadratura di un tappeto mobile Sorrentino sintetizza la totalità dello spettro psico-sociale dell'uomo a cavallo tra i millenni, senza bisogno di una singola parola, bensì ricorrendo alla nuda potenza semantica delle immagini.

Tale situazione di stallo viene, d'un tratto, spezzata da quella che Di Girolamo stesso definisce la più pericolosa scelta che abbia mai fatto: parlare finalmente all'unica donna che sia in grado di ricordargli i sentimenti provati un tempo. Ripescando a piene mani dai canoni del noir classico, l'autore affida a un'affascinante presenza femminile il compito di stravolgere la situazione iniziale di un uomo invischiato nel malaffare ma non abbastanza forte da reggere gli effetti di tale stile di vita, fino al rovinoso finale. Rispetto al canovaccio di opere come La fiamma del peccato (Double Indemnity, Billy Wilder, 1944) e I gangsters (The Killers, Robert Siodmak, 1946), la pellicola in analisi ribalta però la caratterizzazione della femme fatale, tramite una Sofia conturbante solamente fino a quando il protagonista si limita a osservarla a distanza di sicurezza, per rivelarsi successivamente come una persona di notevoli principi morali e semplicità quasi sconosciute al raffinato ex commercialista. Una decostruzione del genere che permette al cineasta napoletano di mettere in scena un personaggio a metà tra quelli tipici dello stesso e la figura dell'inetto letterario resa celebre dai romanzi di Italo Svevo. Una caratterizzazione non lontana da quella dell'anonimo antieroe di Fight Club (David Fincher, 1999) o dello smemorato Leonard in Memento (Christopher Nolan, 2000), divenuti nel corso degli simboli cinematografici dell'esplorazione da parte della settima arte di uno status antropologico comune all'intera specie all'indomani della caduta del muro di Berlino.

Le conseguenze dell'amore riesce, in conclusione, a espandere i primi semi dell'idea cinematografica di uno dei registi più influenti della cinematografia attuale, trasportando allo stesso tempo la scena italiana in un contesto dal respiro internazionale, cogliendo i i segni di una malattia sociale che travalica ampiamenti i confini nostrani a cui spesso gli autori del Belpaese si limitano.


domenica 12 dicembre 2021

SIR GAWAIN E IL CAVALIERE VERDE: IL VIAGGIO DELL'EROE TRA CIVILIZZAZIONE E STATO DI NATURA

Nonostante un unico exploit all'interno del cinema più commerciale (Il drago invisibile, Pete's Dragon, 2016), David Lowery è un nome che gli appassionati ormai attendono a ogni sua nuova fatica con molta curiosità, in special misura tra le nuove leve del firmamento statunitense. In seguito a numerosi ritardi causati dalla pandemia di COVID-19 il 2021 vede, finalmente, la distribuzione in tutto il mondo della sua ultima opera, Sir Gawain e il Cavaliere Verde (The Green Knight), seppur con una certa delusione per l'arrivo direttamente in streaming per quanto concerne il mercato italiano. Accolto con entusiasmo unanime in patria, il film sta attirando nel belpaese pareri più contrastanti, probabilmente anche per un crescente fastidio verso la casa di produzione A24, rea secondo certa critica di imporre ai propri registi un determinato stile ben identificabile (cosa che non sembrava infastidire ai tempi delle major della Hollywood classica o della Hammer negli anni Sessanta). Scopriamo quanto c'è di vero in entrambe le interpretazioni.

Liberamente ispirato all'omonimo poema epico-cavalleresco risalente al XIV secolo, il lungometraggio segue le gesta dell'aspirante cavaliere Gawain (Dev Patel), figlio di Morgana (Sarita Choudhury) e dunque nipote di re Artù (Sean Harris), che, nel corso dei festeggiamenti di Natale presso la corte reale, si offre di partecipare alla sfida lanciata dal misterioso Cavaliere Verde. Il protagonista decapita l'avversario senza alcuno sforzo ma, secondo le regole imposte in precedenza, è costretto l'anno successivo a recarsi presso la cappella nemica per subire la medesima ferita. Pur di rispettare l'impegno preso il nobile inizia un viaggio che ne cambia completamente la visione del mondo.

Aspettarsi da Lowery, sostenuto oltretutto da una casa di produzione come la A24, un fantasy di ispirazione medioevale nel solco di quanto offerto dai kolossal hollywoodiani sarebbe del tutto fuorviante per la fruizione di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, che, al contrario, rispecchia in tutto e per tutto la personalità del suo autore. Come in parte già avvenuto con The Old Man & the Gun (David Lowery, 2018), il cineasta e montatore americano non nasconde i riferimenti a pietre miliari del genere o del filone narrativo di pertinenza, come Excalibur (John Boorman, 1981), a cui però aggiunge un gusto per la rarefazione e la dilatazione spazio-temporale delle inquadrature tipica della propria visione della settima arte. Se il fantasy oggi vive soprattutto dei meravigliosi mondi e delle battaglie di massa rese possibili dai progressi della CGI, la pellicola in analisi opta per un'illuminazione naturale ben più vicina al cinema di Malick ed effetti speciali analogici come matte painting e trucco protesico che richiamano alla mente la trilogia originale di Star Wars. Proprio con l'universo ideato da George Lucas condivide anche un impianto narratologico evidentemente in linea con il classico viaggio dell'eroe analizzato da Joseph Campbell: Gawain , presentato come un giovane dalle grandi aspirazioni ma ben poca dimestichezza con le grandi imprese, percorre un itinerario che fin da subito perde ogni connotazione geografica in favore di una dimensione prettamente etico-psicologica, attraverso cui perde l'innocenza e raggiunge finalmente la maturità dell'uomo adulto. Nel rispetto di questi canoni codificati fin dagli albori della narrativa, il protagonista è costretto a superare una serie di ostacoli lungo il cammino, impilati da Lowery attraverso una carrellata del tutto priva di decoupage classico al punto da rievocare la tradizione teatrale medievale dei luoghi deputati, nei quali l'ipotassi alla base del cinema narrativo tradizionale cedeva il passo alla paratassi. Tale ispirazione diventa quanto mai esplicita nella sequenza in cui lo scontro tra Gawain e il Cavaliere Verde viene messo in scena, per il pubblico ludibrio, tramite il teatro dei burattini o nelle insistite inquadrature, in dettaglio, di affreschi dalla netta estensione in orizzontale, proprio in conformità con il suddetto spettacolo tipico del periodo.

Altrettanto in linea con questa forma teatrale così lontana dalla compostezza delle unità aristoteliche risulta anche la strisciante e costante compresenza della dualità: sacro e profano, dovere e piacere, Cristianesimo e Paganesimo danno vita a una costante tensione che da un lato ben esemplifica la tensione tipicamente adolescenziale di un bambino che sta per diventare adulto, dall'altro suggerisce anche lotta ancora molto attuale tra civilizzazione e stato di natura. Recuperando una dialettica molto cara alla filosofia di Jean-Jacques Rousseau, Lowery esemplifica tramite le figure opposte dei contendenti alla sfida di Natale i poli opposti di uno scontro che travalica i secoli come quello tra le regole e i vincoli imposti dalla società umana e la libertà, selvaggia e forse anche per questo spaventosa, della vita allo stato brado, fatta di istinti basici resi ancor più proibiti dalla rigidezza dell'etica cristiana. Il confronto finale tra l'aspirante cavaliere e il suo soprannaturale nemico, con la presa di coscienza ottenuta in seguito a un lungo sogno premonitore, sembra proprio alludere all'importanza nella formazione di un individuo realmente maturo della scoperta di tutta quella parte inconscia, scevra dalle limitazioni imposte dalla società civile, che forgiano l'uomo, rendendo anche tutt'altro che un semplice vezzo sensazionalistico l'inquadratura (già cult o scult a seconda dei punti di vista) dello sperma sulla cintura magica donata all'eroe dalla madre prima e da una conturbante nobildonna (Alicia Vikander) dopo.

Sir Gawain e il Cavaliere Verde continua, in conclusione, il percorso cinematografico intrapreso dal proprio autore in bilico tra omaggio ai maestri della New Hollywood (Malick, Coppola, Lucas ecc.) che lo hanno formato e una spiccata personalità poetico-stilistica che riesce a gettare una luce nuova su temi e topoi secolari. Forse non la miglior traduzione filmica del ciclo arturiano ma certamente una delle più coraggiose e coerenti con una determinata idea di cinema e scusate se è poco di questi tempi.

domenica 24 ottobre 2021

NO TIME TO DIE: L'EPILOGO ALLA SVOLTA ORIZZONTALE DI 007

Scelto, tra l'immancabile scetticismo dei fan più oltranzisti, per uno dei ruoli più iconici della storia del cinema nell'ormai lontano 2006, Daniel Craig torna a impersonare, per un ultimo volta, James Bond con No Time to Die, diretto, in seguito all'addio di Danny Boyle, da Cary Joji Fukunaga. Distribuito finalmente nel corso di questo autunno, dopo aver subito numerosi rinvii a causa della pandemia da COVID-19, il film sembra aver convinto sia la critica che il pubblico, dando vita anche a un animato dibattito sulla rete circa il sostituto dell'attore britannico e anche la direzione narrativa che intraprenderà il prossimo, inevitabile episodio di una saga davvero immortale.

Riprendendo le fila dell'epilogo del prequel, la pellicola mostra Bond felicemente impegnato con Madeleine (Lèa Seydoux), libero dalle missioni per il governo e alle prese con una vacanza in Italia, con la quale intende anche mettere un punto al proprio passato. Purtroppo per la coppia la SPECTRE torna ad attentare alla sua vita, alimentando i sospetti dell'uomo nei confronti della compagna, che decide di lasciare con una certa brutalità. Cinque anni dopo l'ormai ex 007 viene contattato dalla spia americana Felix Leiter (Jeffrey Wright) per aiutarlo a recuperare una pericolosissima arma di distruzione di massa dalle grinfie della sopracitata organizzazione criminale. Scoperta l'origine dell'arma stessa James accetta di collaborare con l'amico, persino a discapito dei piani di M (Ralph Fiennes), direttore dell'MI6, venendo a scoprire, però, di una minaccia ancor più insidiosa della SPECTRE, che lo riporterà anche a incrociare la strada della donna che non ha mai smesso di amare.

Pur orfano della regia di Sam Mendes, No Time to Die non solo continua la svolta prettamente orizzontale impostata a partire da Skyfall (2012), bensì la porta fino alle estreme conseguenze. Sebbene già i precedenti Casino Royale (Martin Campbell, 2006) e Quantum of Solace (Marc Forster, 2008) fossero ben più connessi narrativamente rispetto al passato, è innegabile come i due episodi diretti dal regista nato a Reading insieme a quello in analisi costituiscano una vera e propria trilogia, per certi versi accostabile all'operazione nolaniana in ambito Batman. Se nel primo capitolo 007 era quasi morto per poter risorgere e acquisire gran parte di quelle caratteristiche che lo hanno reso riconoscibile nel corso di decenni, fungendo di fatto da nuova origin story, nel seguito diretto ha dovuto affrontare le conseguenze della perdita dell'unica famiglia che avesse mai posseduto, fino a conoscere un nuovo amore, in grado di riscaldare il suo cuore dopo la perdita di Vesper. In tale ottica, chiaramente improntata a una versione contemporanea dell'immortale viaggio dell'eroe campbelliano, l'opera diretta da Fukunaga assurge la funzione di epilogo, atto a chiudere tutti i fili del racconto intrecciatisi dopo la presunta dipartita del protagonista nell'incipit di Skyfall.
Evitando spoiler che mai come in questo caso potrebbero rovinare parzialmente l'esperienza spettatoriale, la celeberrima spia si trova ad affrontare tutti i demoni del proprio passato e persino quelli legati maggiormente alle persone a cui tiene maggiormente, dando persino la propria benedizione all'agente scelta per sostituirlo. Tutto ciò si traduce in un coinvolgimento emotivo da parte del pubblico raramente riscontrato all'interno persino di una saga così amata, reso evidentemente possibile dall'impronta seriale totalizzante summenzionata, capace di far affezionare i fruitori ai personaggi a livelli molto più simili a quelli tipici della serialità televisiva fortemente orizzontale che domina il panorama audiovisivo attuale. Certamente concorre a questa forza emozionale la prova attoriale eccellente da parte dell'intero cast, a partire da un Daniel Craig sempre eccezionale nel comunicare più con la mimica facciale che non con la dialettica, ma niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza una continuity tanto ferrea. A ciò si aggiunge, proprio come nei precedenti episodi post-2006, una caratterizzazione di Bond ben più umana ed empatica rispetto a quelle esasperatamente larger than life di Sean Connery o Roger Moore: ancora una volta lo 007 contemporaneo mostra tutti i suoi limiti di uomo spesso fin troppo succube dei suoi sentimenti, di paure che tutti noi comuni spettatori conosciamo e comprendiamo e pronto a rinunciare al brivido dell'avventura, della conquista sessuale fine a se stessa pur di abbracciare un amore che colmi il vuoto lasciatogli da un'infanzia da orfano. 
Un lungometraggio, dunque, che mostra più cuore di quasi tutti i prequel, senza rinunciare, al contempo, a marchi di fabbrica della saga, come le location sparse per tutto il globo o il vodka martini, e persino una dose di ironia che ricorda in parte l'epoca Brosnan. Da questo punto di vista spicca la sequenza ambientata a Cuba, dove il breve minutaggio di Ana de Armas nei panni di una combattiva quanto naif spia della CIA ruba la scena anche a momenti ben più centrali per la narrazione più ampia. Anche visivamente rappresenta uno dei picchi di un'opera che trova il suo fiore all'occhiello nelle spettacolari sequenze d'azione, tra le quali spicca un lungo piano sequenza che non può non ricordare quanto fatto da Fukunaga nel corso della prima stagione di True Detective (Nic Pizzolatto, 2014-). Pur mancando l'eleganza nella composizione di Mendes o la furia cinetica di Campbell e Forster, la regia mostra momenti di grande perizia formale, mostrando invece il fianco per quanto concerne la qualità del racconto. Pur risultando efficace grazie alla dimensione emotiva fin qui descritta, la sceneggiatura lascia spesso a desiderare nella gestione dei molteplici spunti tematici innestati e, soprattutto, nel ritratto del villain, che spreca il talento di Rami Malek per un personaggio solamente abbozzato nel suo rapporto sia con Bond che con Madeleine.

No Time to Die, in definitiva, non raggiunge a mio parere le vette rappresentate da Casino Royale e Skyfall, probabilmente anche a causa di una gestazione piuttosto turbolenta, ma chiude con notevole coraggio l'era più umana dell'epopea bondiana, rafforzando il posto nel cuore di ogni fan riservato agli occhi azzurri e dolenti di Daniel Craig.

domenica 10 ottobre 2021

MALIGNANT: RIVISITAZIONE LUDICA DEL GIALLO ALL'ITALIANA

Pur senza possedere la riconoscibilità divistica di colleghi quali Quentin Tarantino o Christopher Nolan, James Wan è indubbiamente una miniera d'oro per Hollywood, capace di generare centinaia di milioni di dollari, sia con i budget più risicati che attraverso i fastosi mezzi dei blockbuster. Forte di tale credito, il regista di origini malesi porta a compimento, dopo alcuni anni passati saltando tra un franchise e l'altro, un progetto più personale, di cui firma anche soggetto e sceneggiatura: Malignant. Distribuito come quasi tutte le attuali produzioni di Warner Bros in contemporanea sia in sala che in streaming, il film non sta confermando gli abituali riscontri commerciali fin qui decantati, mentre buona parte della critica sembra apprezzarlo, seppur con qualche riserva sulla qualità della scrittura.

Dopo un flashback ambientato in un ospedale psichiatrico del 1993, la pellicola si concentra sulle vicende di Madison (Annabelle Wallis), alle prese con una nuova gravidanza e i fin troppo consueti scatti d'ira del marito. Dopo l'ennesimo litigio la donna perde anche questo figlio ma, nel corso della medesima notte, l'uomo viene ucciso da una figura sconosciuta. Nei giorni successivi la protagonista si trova sempre più coinvolta in una serie di terribili morti, tutte connesse al suo oscuro passato di bambina adottata e a quello che sembrerebbe essere stato il suo amico immaginario, Gabriel. Divenuta la sospettata numero uno dei crimini, l'unica a continuare a credere alla sua innocenza è la sorella Sydney (Maddie Hasson), la quale capisce che l'unico modo per scagionare Madison risiede nel fare luce su misterioso periodo della sua vita precedente l'adozione.

Dopo quasi due decenni sulla cresta dell'onda, principalmente nel genere horror, l'idea fortemente postmoderna del cinema di Wan è ormai ben nota, specie per quanto concerne il recupero di topoi estetici e narrativi di film divenuti classici per modellarli secondo le coordinate poetico-formali care al regista. Malignant non fa eccezione a tale modus operandi, aggiungendovi però una chiave di lettura altamente ironica, del tutto assente in lavori come The Conjuring (James Wan, 2013), che pare invece ereditata dalle esperienze acquisite con i più divertiti Fast and Furious 7 (Furious 7, James Wan 2015) e Aquaman (James Wan, 2018). Nel corso del lungometraggio, infatti, esplodono costanti ammiccamenti a due delle maggiori fonti di ispirazioni dell'autore australiano: il Giallo all'italiana e i lavori di Dario Argento e Mario Bava. A partire dal ricorso costante, spesso totalmente ingiustificato dagli avvenimenti diegetici, a colori antinaturalistici tipici dello stile dei succitati director, Wan infarcisce il film di elementi cardine di quel filone a cavallo tra horror e thriller salito alla ribalta nel Belpaese a partire dalla fine degli anni Sessanta. Un assassino del quale non viene mai inquadrato il volto, vestito di nero e caratteristici guanti; le indagini delle forze dell'ordine che si alternano a quelle di un "detective" non professionista; il twist nel finale che rivela l'identità del villain e un movente indissolubilmente legato a un trauma del passato. Impossibile negare le continue strizzate d'occhio al genere e, in particolare, al suo capostipite, Sei donne per l'assassino (Mario Bava, 1964), del quale il regista cita apertamente anche numerose soluzioni visive, dalle tonalità tendenti al viola fino al taglio identico di numerose inquadrature. A ciò si aggiungono la caratterizzazione psicologica del killer, le armi da taglio che utilizza per massacrare le proprie vittime e una mostruosità fisica che riportano alla mente Phenomena (1985) di Argento, dal quale il film prende in prestito anche l'uso leitmotivico di un particolare tema musicale.

Ci troviamo dunque dinanzi a un'opera prettamente citazionista e indirizzata solamente ai cinefili più accaniti? Non proprio. Certamente Malignant non disdegna il gioco del riconoscimento delle numerose strizzate d'occhio ma, da regista ormai esperto qual è, Wan rielabora i riferimenti al passato per adattarli ai suoi riconoscibili movimenti di macchina, sempre eleganti e funzionali al racconto, persino quando adottano l'ipertrofia cinetica vista nei piani sequenza di Aquaman. Anche da un punto di vista strettamente narrativo la pellicola vive a metà tra la dimensione onirica ereditata dal regista di Suspiria (Dario Argento, 1977) e uno straniamento umoristico che rendono del tutto incomprensibili le critiche verso la plausibilità dell'intreccio. Tralasciando il puro gusto soggettivo con cui può essere giudicata l'efficacia del plot twist circa l'identità del killer, è assolutamente oggettiva la volontà del regista di sovvertire completamente le più strette connessioni al realismo, giocando, come un demiurgo filmico, con tutte le armi messe a disposizione dai due generi a lui più cari, prendendo in prestito anche gli strumenti più trash a essi legati.
Probabilmente si potrebbe, dunque, considerare l'ultima fatica del regista di Insidious (2010) un divertissement, un omaggio al cinema della propria gioventù che non si preoccupa mai di prendersi sul serio ma, in fondo, è davvero un problema quando è girato con così tanta perizia?

lunedì 27 settembre 2021

UN ALTRO GIRO: TRIONFO DELLO SPIRITO DIONISIACO

Quando un appassionato di cinema sente parlare di Danimarca la mente corre immediatamente a Lars von Trier, salito alla ribalta internazionale con il celeberrimo manifesto programmatico Dogma 95. Eppure l'opera che maggiormente esprime idee, concetti e visione di tale sussulto rivoluzionario, conclusosi nel corso di una manciata di anni, resta Festen (1998), diretto non dall'autore di Antichrist (Lars von Trier, 2009), bensì da Thomas Vinterberg. Regista che, pagato un fallito approdo all'universo hollywoodiano, può vantare una serie di notevoli lavori girati in Europa e nel 2020 trova finalmente la definitiva consacrazione internazionale con Un altro giro (Durk in originale), capace di trionfare come miglior film straniero all'ultima edizione degli Academy Awards.

La pellicola racconta la crisi di mezz'età di un gruppo di quattro amici danesi, colleghi insegnanti nella stessa scuola. Tra di essi il più in difficoltà sembra essere Martin (Mads Mikkelsen), totalmente incapace di mantenere un legame con la moglie, i due figli e persino con i suoi alunni. Durante i festeggiamenti del quarantesimo compleanno di Nikolaj (Magnus Millang), gli uomini iniziano a discutere la teoria dello psichiatra Finn Skarderud secondo cui un costante tasso alcolico dello 0,05% aiuterebbe le persone a essere più attive socialmente e convinte dei propri mezzi. I quattro decidono a fine serata di seguire realmente questi dettami, riscontrando degli effettivi miglioramenti sia come docenti che nei legami familiari. La situazione prende, però, una brutta piega quando decidono di alzare sempre di più la percentuale di alcol.

Basato su una drammaturgia preesistente, scritta dallo stesso regista ma in gran parte stravolta in seguito alla morte della figlia Ida, Un altro giro si inserisce all'interno di un filone cinematografico piuttosto circoscritto, quello dell'escapismo di adulti che non accettano l'idea di invecchiare esplorato con grande acume da registi come Gabriele Salvatores, donandogli però una dimensione del tutto intima, resa possibile solamente dalla sensibilità di un autore schietto come Vinterberg e dalle tragiche circostanze della vita fuori dal profilmico. Il cineasta danese, prendendo spunto dalla ben nota tendenza al consumo di alcolici da parte degli adolescenti scandinavi, anziché dirigere un pamphlet a favore o di condanna verso il fenomeno mostra le possibili conseguenze di un sovvertimento dell'ordine costituito, in cui a tentare di abbassare i freni inibitori mantenendosi costantemente alticci sono dei quarantenni e non dei diciottenni. Un what if che conferisce un atmosfera agrodolce alla prima parte del racconto, con tocchi di commedia che seguono la trasformazione dei protagonisti da grigi uomini medi in spiriti liberi, in grado finalmente di suscitare entusiasmo negli studenti e di riaccendere la passione con le proprie consorti.

Proprio come ci insegna la tradizione secolare ereditata da Aristofane e Plauto è la trasgressione delle regole civili a suscitare il sano divertimento che qualunque pubblico si aspetta da una commedia e questa prima metà della narrazione sembra promettere un'arguta critica della rigidità morale di facciata del paese nordico, con un meritato riscatto per Martin e gli altri middle men appassiti a causa di quella stessa rispettabilità borghese appena citata. Il resto della pellicola, però, modifica radicalmente le carte in tavola, mostrando anche le possibili, nefaste conseguenze di uno stile di vita influenzato continuamente dalle alterazioni psicotrope derivate da alti tassi alcolemici, che passando da una nuova, seppur diversa, fase di isolamento e abbandono da parte delle persone amate finanche alla morte. Lo stesso spauracchio che si cela dietro la negazione dell'avvicendarsi degli anni, della fine della giovinezza e dell'adattamento a una fase diversa della vita. Morte che, in uno slancio vitalistico che non può non riconnettersi alla dolorosa vicenda personale vissuta dal regista, porta anche gli insegnanti a una fondamentale presa di coscienza, a comprendere che esiste una vita anche lontano dall'età dell'oro della gioventù e che vale la pena lottare e rendere grazie per ogni piccola gioia che essa può riservare. Ecco dunque che tale epifania trova la sua perfetta sineddoche nella danza finale di Martin, circondato proprio dalla spensieratezza dei suoi alunni e da fiumi di birra e champagne. Stavolta nei movimenti dell'uomo non c'è più la goffaggine di chi beve fino a stordirsi per sopportare i malanni dell'esistenza, bensì la pura gioia dionisiaca di chi ha scoperto la gratitudine per la vita che, nonostante tutto, continua, pronta a regalare ancora emozioni degne di essere esperite, amori degni di essere protetti e riconquistati, amicizie che superano qualsiasi pressioni sociale e stupido perbenismo borghese.

Del domani non vi sarà certezza ma vale la pena attendere nuove sorprese, senza dimenticare gli affetti che hanno preso altre strade.

sabato 25 settembre 2021

THE ENTITY: L'HORROR CHE SFIDA IL MACHISMO OCCIDENTALE

Escludendo gli appassionati più fedeli all'Uomo d'acciaio, pochi nel 2021 ricordano ancora Superman IV (Superman IV : The Quest for Peace, 1987), nonostante resti l'ultima interpretazione del compianto Christopher Reeve dell'iconico supereroe DC, a causa di una qualità tutt'altro che memorabile, specie per quanto concerne la sceneggiatura. Eppure l'autore di quel disastro, tale Sidney J. Fury, vanta un curriculum all'interno del cinema di genere di tutto rispetto, in cui spicca quello che resta l'apice della sua ondivaga carriera: Entity (The Entity, 1982). Non un clamoroso successo al botteghino ma una pellicola accolta con immediato calore dalla critica e persino da cineasti come Martin Scorsese, capace di assurgere negli anni allo status di cult, citato esplicitamente da molte produzioni mainstream, in primis Insidious (James Wan, 2010). Scopriamo da dove nasce la fascinazione per quest'opera, soprattutto in tempi recenti.

Il film, tratto da un romanzo a sua volta ispirato a un reale caso di presunto poltergeist, narra le sfortunate vicende della madre single Carla (Barbara Hershey), che, nel corso di una notte come tante altre, viene aggredita e abusata sessualmente da una presenza invisibile. Ancora sotto shock e consapevole di sentire ancora all'interno di casa la suddetta minaccia, porta via con sé i tre figli per il resto della nottata da un'amica. I giorni successivi vedono l'acuirsi delle visite del misterioso assalitore, il quale attacca persino il maggiore dei figli, Billy (David Labiosa). Naturalmente nessuno crede alla versione di Carla dell'accaduto e, di conseguenza, i medici che in ospedale la visitano la mettono in contatto con lo psichiatra Phil Sneiderman (Ron Silver), che, una volta conosciuta l'avventurosa storia amorosa della paziente, cerca di convincerla che quest'ultima stia sublimando traumi regressi. La protagonista, non trovando alcun conforto o soluzione al proprio problema nelle teorie psicanalitiche, si rivolge a un gruppo di ricercatori universitari di parapsicologia, gli unici a credere all'esistenza di una presenza malevola invisibile all'occhio umano. 

A distanza di quasi quarant'anni esatti dalla distribuzione di Entity sconcerta notare con quanta ferocia e immaginazione affronti argomenti arrivati al centro del dibattito pubblico più pop soltanto da una manciata di cicli solari, spesso peraltro affrontati con una povertà conoscitiva che tradisce solamente squallidi intenti opportunistici. A più riprese ho sottolineato quanto il cinema di genere sia in grado di esaminare e aprire gli occhi del pubblico sui lati più oscuri della società che lo produce, ricorrendo al potente strumento della metafora per analizzare anche topic che, se affrontati di petto all'interno della cosiddetta "cinematografia alta", scuoterebbero nervi ancora fin troppo scoperti.
La pellicola in questione rientra precisamente nella migliore accezione di ciò che l'horror può raccontare del panorama socio-culturale in cui ancora oggi viviamo, attraverso la creazione di un villain del tutto privo di forma, voce o altre tipiche caratteristiche umane ma che, al contempo, mostra esattamente i peggiori istinti dell'immagine del maschio alpha fornita da secoli di patriarcato. Le uniche azioni che l'invisibile presenza perpetra nell'arco del racconto sono variegati atti di sopraffazione nei confronti di una donna, colta nei momenti di maggiore vulnerabilità e intimità, a partire da un terribile e improvviso stupro. Furie, attraverso la scelta estetica e poetica di negare al pubblico la possibilità di vedere esplicitamente il volto e le azioni dell'entità, compie un'interessante operazione di disumanizzazione della stessa, che accentua da un lato il coinvolgimento empatico verso la vittima e, dall'altro, afferma con veemenza la bestialità che contraddistingue qualsivoglia tipologia di abuso. Carla, difatti, non solo viene costretta a più rapporti sessuali non consenzienti, bensì si trova, suo malgrado, in una costante spirale di paura provocata dalle continue e minacciose apparizioni dell'essere, che diventa in tal modo anche un'efficace rappresentazione simbolica del modus operandi di uno stalker, senza però permettere allo spettatore di provare alcun piacere nelle violenze, fisiche e psicologiche da lui causate, come invece può accadere con l'ambiguità morale di molti slasher.
L'invisibilità e il quasi totale diniego di spettacolarizzazione della violenza indirizzano l'emotività del fruitore direttamente verso una identificazione con la protagonista, il suo dolore e la forza con cui si batte per difendere la propria famiglia e la sua stessa individualità di donna indipendente dai continui soprusi maschili. Soprusi che non sempre vengono causati dal villain.
Il personaggio interpretato da Barbara Hershey viene circondata perlopiù da uomini e nessuno di essi riesce a credere alla tragedia che sta vivendo. Certamente la razionalità rende quanto mai facile diffidare di una persona che presume di essere perseguitata da un uomo invisibile, eppure è impossibile non cogliere la presunzione del tutto sessista con cui ogni segnale d'allarme della donna venga liquidato con le più banali e datate teorie psicanalitiche. Addirittura nel corso della sequenza in cui Sneiderman riunisce una sorta di consiglio generale di specialisti, la tesi avanzata per spiegare i presunti deliri della paziente somiglia inquietantemente alla credenza popolare dell'isterismo femminile, con la quale per secoli è stata giustificata qualunque forma di disagio psicologico sofferto dalla donna.
Un intero sistema opprime e minaccia Carla, facendo della presenza soprannaturale "solamente" una sineddoche di questa realtà completamente incapace di accettare il diritto femminile di autodeterminazione considerato insito solamente nella natura maschile. Condizione che si riflette nella straordinaria fotografia diretta da Stephen H. Burum, il cui uso di teleobiettivo e piano olandese creano un apparato visuale fortemente debitore dell'espressionismo tedesco. In particolare i maggiori riferimenti estetici sembrano essere Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari, Robert Wiene, 1920) e Marnie (Alfred Hitchcock, 1964), non per caso due esempi di quanto i generi possano mettere in scena con efficacia l'isolamento e gli abusi dei gruppi maggioritari nei confronti delle minoranze (da un punto di vista prettamente relativo ai diritti civili), siano essi il mondo femminile o quello di chi soffre di disturbi mentali. L'onnipresenza di inquadrature volutamente stilizzate e antinaturalistiche sottolinea gli effetti sulla psiche della protagonista delle costanti violazioni subite dai personaggi maschili, che arrivano persino a farle dubitare della propria sanità psichica e ad accusarla di giustificare tramite racconti fantasiosi le proprie pulsioni incestuose.

Entity rappresenta, in conclusione, un coraggioso atto di accusa verso una società che, per quanto tecnologicamente ed economicamente avanzata, continua a discriminare una parte fondamentale di sé. Un monito lanciato peraltro in un momento storico caratterizzato da una corrente culturale improntata a un estremo machismo come il reaganismo degli anni Ottanta, rendendolo ancor più potente persino per un presente in cui i diritti della donna sembrano albergare sulla bocca di tutti ma nella coscienza di pochi.

lunedì 20 settembre 2021

HANNIBAL: I RAFFINATISSIMI SIMULACRI UMANI DI BRYAN FULLER

Grazie al successo mondiale di romanzi e trasposizioni cinematografiche, Hannibal Lecter può essere considerato un'icona pop del mondo dell'orrore, alla pari di Dracula o di Freddy Krueger, specialmente nella sua incarnazione dal volto di Anthony Hopkins. Inaugurando un trend che perdura ancora oggi, il personaggio si è spostato, nel corso del 2013, dal grande al piccolo schermo, grazie a Hannibal (2013-2015), show ideato da Bryan Fuller per NBC. Sebbene la serie sia stata capace di attirare una consistente fetta di pubblico molto affezionato, non è mai riuscita a diventare un fenomeno di massa, fallendo nel tentativo di rendere remunerativo il notevole dispiego di mezzi produttivi, specie per gli standard televisivi. Dopo tre stagioni il serial ha chiuso i battenti ma con il sempreverde desiderio da parte del suo ideatore e dei fan di un possibile proseguimento. Che sia giustificata tale affezione verso quest'opera? Scopriamolo.

Reinterpretando liberamente i romanzi di Thomas Harris, lo show vede come protagonista Will Graham (Hugh Dancy), profiler dell'FBI dotato di un livello di empatia unico, che, unito a una fervida immaginazione, gli permette di entrare in sintonia con i criminali a cui dà la caccia, capire i meccanismi mentali dietro i loro delitti e in questo modo individuarli. Un tale dono rischia però di logorare irreversibilmente la stabilità emotiva e psichica dell'agente e, per evitarlo, inizia un percorso di analisi con il rispettabile dottor Hannibal Lecter (Mads Mikkelsen). Dopo un iniziale diffidenza si instaura tra i due un rapporto di stima reciproca e curiosità intellettuale verso l'altro, che diventerà sempre più complesso quando lo psichiatra si rivelerà uno spietato serial killer antropofago.

Come anticipato brevemente in precedenza, Hannibal sceglie per un percorso narrativo astuto, che, conscio della popolarità delle opere che lo hanno preceduto, gioca costantemente con le attese del pubblico, seguendo talvolta fedelmente i lavori letterari o i lungometraggi con Hopkins, per poi deviare verso un'interpretazione del tutto inedita e personale dei fatti. Gran parte dei personaggi sono già noti agli appassionati e mantengono anche le caratteristiche psicologiche pregresse ma Fuller, da profondo conoscitore dei principi del giallo, imbastisce una sfida intellettuale con i propri spettatori che richiama quella al gatto e al topo che ha luogo tra detective e criminale. Ciò potrebbe far credere che il racconto si attesti dunque sui topoi del thriller investigativo, seppur condito da evidenti elementi horror, alla base de Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991) o Manhunter - Frammenti di un omicidio (Manhunter, Michael Mann, 1986) ma si tratta solamente di bluff, depistaggi equiparabili a quelli che orchestra abilmente Lecter per manovrare ogni situazione a proprio vantaggio. Tramite la penna dello sceneggiatore dell'Idaho, le indagini originariamente partorite da Harris si trasformano in un campo di gioco tutto interiore tra lo stesso cannibale e Graham. Afflitti entrambi da uno stato di perpetua solitudine, accentuata da una diversità rispetto al resto del genere umano che li rende quasi imperscrutabili, i due si avvicinano costantemente, trovando un irresistibile attrazione per i rispettivi lati oscuri della coscienza, come ultimi superstiti di una specie ormai estinta. Senza rinunciare anche a un sottile divertissement nei confronti del fandom più attratto dalle possibili conseguenze carnali di questa velenosa amicizia, Fuller fa di Lecter una incarnazione inedita del mito secolare del vampiro e del suo proverbiale bisogno di cibarsi della vita altrui per sopravvivere. Abbandonato ogni residuo di umanità nel momento in cui, ancora ragazzino, perde l'amata sorella e, per ragioni intelligentemente lasciare oscure, se ne ciba. Hannibal si trasforma con il passare degli anni in un involucro, un simulacro che dell'umanità degna di tale definizione conserva solamente una sterminata cultura e l'egoistica tendenza di usare il prossimo per il proprio tornaconto. A differenza di Dracula o dei nosferatu al centro dei romanzi di Anne Rice, lo psichiatra rifugge ogni slancio vitalistico intrinsecamente umano, in primis la pulsione sessuale, totalmente asservita al semplice sfruttamento della seduzione come ulteriore strumento di raggiro. Persino le elaborate sculture in cui tramuta le proprie vittime sembrano più vicine a una sorta di atto di autocelebrazione metafisica che non al soddisfacimento di un desiderio erotico tipicamente associato all'agire di un serial killer.

L'unica eccezione al totale horror vacui dell'anima del personaggio interpretato dal magnetico Mikkelsen è rappresentata dal desiderio di legare a sé Graham, di coltivare quell'oscurità carpita nel suo io più nascosto per trasformarlo in un simulacro del male in tutto e per tutto uguale a sé. Il profiler, d'altro canto, vive sulla propria pelle il paradosso di un talento quasi innaturale che anziché permettergli di comprendere al meglio i sentimenti altrui e dunque convivere con maggior profitto con essi, lo porta ad assorbire tutto il male che alberga in un mestiere a stretto contatto con morte e violenza. Un vortice di emozioni che irrimediabilmente lo allontana a tal punto dal comune sentire che persino la razionalmente malsana compagnia di Lecter assume i tratti dell'unica possibile forma di amicizia concessagli dal destino.

Un concentrato di Thanatos in cui l'Eros viene principalmente rappresentato da un impianto formale costantemente all'insegna dell'esaltazione della bella immagine, della perfetta composizione delle inquadrature e ralenti in grado di tramutare la cinetica intrinseca dell'audiovisivo in quadri animati, perfettamente adeguati all'ideale estetizzante di Hannibal. L'apice del virtuosismo visivo, a prescindere dal regista del singolo episodio, viene puntualmente raggiunto nelle sequenze culinarie o nel ritrovamento di un cadavere, accentuando in tal modo la natura vampiresca dell'assassino, che accresce il potere della propria mente attraverso raffinatissimi piatti a base di carne umana. Una versione orrorifica della figura ottocentesca del dandy, espressa perfettamente dalla coabitazione visuale tra l'equilibrio classicheggiante delle inquadrature e una dose decisamente abbondante di sangue e violenza esplicita. Una perfetta sintesi tra forma e contenuto, suggestione sensoriale e cerebrale che rende Hannibal uno tra i migliori prodotti seriali per chiunque ami esplorare le tenebre dell'essere umano.

mercoledì 8 settembre 2021

THE SUICIDE SQUAD: EXPENDABLES ALL'ASSALTO DELL'UNIVERSO CINECOMIC

Dopo aver navigato per anni tra i bizzarri territori dei b-movie e delle produzioni di genere indipendenti, James Gunn ha incontrato il meritato riconoscimento di massa solamente attraverso Guardiani della Galassia (Guardians of the Galaxy, 2014), una delle pellicole più irriverenti e singolari all'interno dello standardizzato franchise Marvel. Ciononostante è evidente come in quest'opera e relativo seguito la fantasia e l'ironia politicamente scorretta del regista siano frenati dalle esigenze commerciali di questi blockbuster. Una condizione che non si ripresenta nella sua prima collaborazione con la casa rivale per eccellenza, DC Comics, per la cui divisione cinematografica l'autore di Slither (2006) realizza The Suicide Squad (2021). Al netto di un budget da quasi duecento milioni di dollari e degli ormai ben noti travagli produttivi in seno al DC Extended Universe, il film viene affidato completamente alle mani di Gunn, senza alcun vincolo creativo. Una scelta premiata quasi all'unanimità dalla critica ma non dal botteghino, certamente influenzato sia dalla preferenza popolare verso gli schemi narrativi del MCU che dalla contemporanea distribuzione dell'opera anche su HBO Max, piattaforma di streaming di proprietà Warner.

Il lungometraggio, ambientato in un indefinito periodo successivo all'impresa narrata nel primo Suicide Squad (David Ayer, 2016), vede la gelida Amanda Waller (Viola Davis) assemblare una nuova Task Force X con l'obiettivo di fermare delle presunte armi di origini aliene sviluppate sull'isola di Corto Maltese, alle prese con un colpo di stato avverso dagli Stati Uniti. A guidare le operazioni è il killer su commissione Bloodsport (Idris Elba), insieme ad alcuni membri già visti nel prequel, tra cui Harley Quinn (Margot Robbie) e Rick Flag (Joel Kinnaman), e nuove leve come Peacemaker (John Cena). Dopo uno sbarco in cui perde la vita metà del team, i superstiti si ritrovano invischiati in una serie di terribili intrighi di potere e crimini di guerra, fino a scoprire che la loro missione reale è tutt'altro che nobile come preventivato inizialmente.

L'ambiguità morale non può certo essere considerata una novità per un avventura della squadra suicida e già nel piuttosto edulcorato predecessore aveva una sua centralità, ma The Suicide Squad getta via ogni remora legata all'etica tradizionale americana e rivela il lato più selvaggiamente ironico del proprio autore. Il team assemblato da Gunn, seppur decimato dopo pochi minuti, mostra una galleria di outsider completamente fuori da ogni logica superomistica, tra squali antropomorfi e domatrici di topi, accomunati da due caratteri antitetici soltanto in apparenza: violenza e solitudine. Attraverso una rara capacità di modulare ironia volgare e scorretta con momenti di notevole introspezione, il regista di Saint Louis dona il necessario spazio a ogni personaggio affinché possa entrare in risonanza empatica con il pubblico, piazzando dietro ogni battuta intrisa di black humour una nota agrodolce di incapacità nel rapportarsi con il prossimo. King Shark (doppiato da Sylvester Stallone) spesso appare come macchietta comica a causa del contrasto tra la sua intelligenza da neonato e l'istinto da cannibale, eppure condivide con la giovane Ratcatcher (Daniela Melchior) alcuni momenti di insperata dolcezza. Con l'esclusione dello spietato Peacemaker, chiaro contraltare violento e fascista di Captain America, ogni singolo membro della Task Force porta con sé le cicatrici di un abbandono, di una persona cara morta troppo presto o di una difficile situazione familiare, rendendoli round character raramente riscontrabili nei cast corali di film ad alto budget. 

Tutto ciò non significa che la pellicola viva sulla medesima lunghezza d'onda a basse di gravitas e conflitti interiori delle trilogie DC firmate da Christopher Nolan o Zack Snyder, anzi l'ironia greve tipica di Gun stempera costantemente il clima di violenza che permea la stessa, con dei picchi di nonsense che strizzano l'occhio alla gavetta del regista in casa Troma. Una vera rarità all'interni del panorama dei blockbuster hollywoodiani, specialmente se si considera che, rispetto alle battute dissacranti tipiche di Deadpool (Tim Miller, 2016), l'autore di Super (2010) riesce a innestare anche una disincantata critica nei confronti della politica estera americana, ancora oggi fin troppo abituata a mantenere l'egemonia planetaria con metodi eticamente molto discutibili, nascosti dietro l'odiosa menzogna dell'esportazione della democrazia. Ovviamente anche da questo punto di vista il director non si prende mai troppo sul serio, consapevole di aver trasformato i tipici soldati tragicamente sacrificabili di una certa tipologia di war movie in antieroi costantemente oltre il limite dell'assurdo, restando così fedele alla propria visione di cinema. Una rarità per un genere in cui a latitare è quasi sempre la personalità.

mercoledì 25 agosto 2021

CAPONE: DECOSTRUIRE IL MITO CINEMATOGRAFICO CRIMINALE

Woody Allen ha dedicato uno dei suoi migliori lavori, Match Point (2005), all'importanza della sorte nella vita umana, a dispetto di qualunque talento o azione che possiamo perpetrare. Probabilmente oggi anche Josh Trank concorderebbe con gli assunti alleniani, barattando molto volentieri il suo innegabile talento per una bella botta di...fortuna. Dopo aver mostrato al mondo la possibilità di realizzare cinecomic senza budget miliardari con Chronicle (2012), il suo, apparentemente, radioso futuro lavorativo va a scontrarsi con l'ambiente dei grandi studios, che lo inghiottiscono per poi sputarlo via con le ossa rotte. Dopo aver disconosciuto pubblicamente il disastroso The Fantastic Four (2015) la sua carriera imbocca una parabola discendente, costellata unicamente da progetti naufragati ancor prima di iniziare. L'occasione del riscatto arriva nel 2020 con l'ambizioso Capone, del quale filma anche sceneggiatura e montaggio, con tanto di cast ricco di attori di notevole fama. Peccato che anche in questo caso il fato si dimostri poco amichevole con il regista: la pandemia di COVID impedisce al film di uscire in sala e la distribuzione on-demand, nonostante numeri discreti, ovviamente non riesce a rendere la produzione un successo economico, complice anche l'accoglienza piuttosto controversa riservatale dalla critica. Ma è davvero un disastro annunciato il suo ultimo lavoro?


La pellicola mostra l'ultimo anno di vita del leggendario boss Al Capone (Tom Hardy), contraddistinto dal rapido peggioramento della sua salute mentale a causa della sifilide. Incapace di ricordare dove avrebbe nascosto ben dieci milioni di dollari, pedinato dall'FBI e totalmente dipendente dalle cure della moglie (Linda Cardellini), l'uomo passa le sue giornate su una sedia a rotelle, fumando una carota che scambia per un sigaro e rivivendo nella propria mente alcuni dei misfatti commessi in gioventù.

Analizzare e giudicare Capone è un compito più arduo di quanto potrebbe sembrare. Una delle caratteristiche che in estetica viene ritenuta fondamentale da millenni per apprezzare un'opera d'arte è l'equilibrio, cuore pulsante di tutto il classicismo greco-romano e che influenza la nostra percezione ancora oggi. Il film in questione di equilibrio ne ha ben poco, sia a livello narrativo, specie per quanto concerne il ritmo, che formale, con i suoi picchi di violenza e realismo nel ritrarre il deterioramento fisico del protagonista. Eppure come si può pretendere moderazione, simmetria da una pellicola che racconta, per l'appunto, l'improvviso tracollo della salute di un uomo potente, astuto e ancora piuttosto giovane? Con coraggio e una certa cognizione di causa, Trank si spinge oltre i topoi del biopic, persino di quel sottogenere dello stesso legato a figure criminali o comunque moralmente esecrabili, a partire dal soggetto. Limitando la narrazione all'ultima fase di vita del gangster, quella contrassegnata quasi unicamente dalla malattia, il cineasta californiano decide di disfarsi dell'aura glamour che nei decenni ha investito la figura di Al Capone, divenuto l'essenza stessa dell'idea del fuorilegge spietato ma affascinante al tempo stesso. Senza di lui l'immaginario collettivo di numerose generazioni non avrebbe mai associato al mafioso il volto e le iconiche citazioni di Al Pacino in Scarface (Brian De Palma, 1983), a sua volta reinterpretazione dell'omonimo lungometraggio diretto da Howard Hawks nel 1932. Ebbene stavolta tutto ciò che lo spettatore immagina quando viene nominato il re del crimine di Chicago viene completamente scardinato, trovandosi ad assistere a scene di ordinaria malattia per tutte quelle persone che accudiscono parenti non autosufficienti, senza nascondere persino l'incapacità del protagonista di trattenere i propri bisogni fisiologici. Molti critici sembrano inorriditi dal vedere un uomo di quasi cinquant'anni bagnare la propria raffinatissima poltrona, senza neanche accorgersene, ma sono fin troppe le famiglie o gli operatori sanitari che riconoscono in tutto ciò stralci della loro quotidianità. Fonzo, come viene chiamato da parenti e amici, nelle mani dell'autore di Chronicle non è più il boss mitizzato dal cinema e neanche un semplice malato da compatire, come magari lo avrebbe dipinto un classico biopic revisionista, bensì un essere umano a trecentosessanta gradi, la cui cagionevole salute psichica ne accentua ancora di più i contrasti. Esemplare in tal senso è il rapporto con Mae, che, con forza di volontà e pazienza infinite, accudisce il marito dopo aver già sofferto per i suoi efferati crimini. Incapace di mantenere a lungo la lucidità, il protagonista passa nell'arco della stessa scena dal pronunciare parole estremamente amorevoli alla moglie per poi attaccarla con il più scurrile dei linguaggi, mostrando di non riconoscere neanche la propria interlocutrice.

La tragica condizione del gangster italoamericano viene sottolineata, cercando però di evitare il semplice patetismo, da una serie di sequenze ambientate nei suoi ricordi o in ciò che questi sono diventati in seguito all'insorgere della demenza. Frammenti del suo antico potere sulla società altolocata di Chicago si alternano a esplosioni di violenza che rammentano al pubblico che quell'ormai debole figura umana è stata davvero Al Capone, il terrore delle strade. Anche in questi casi Trank non distoglie lo sguardo della cinepresa neanche dinanzi a lunghe pile di cadaveri sui quali l'uomo si arrampica o quando uno dei suoi sgherri pugnala a ripetizione il collo di un presunto traditore, ma ben più potente a livello sia visuale che concettuale è l'espressione esterrefatta di Fonzo dinanzi alla sua immagine da giovane riflessa in uno specchio, di cui sembra non avere alcuna memoria certa. Non c'è momento di maggiore solitudine per una persona rispetto a quello in cui ci si specchia, figuriamoci quando l'immagine che ci restituisce la superficie riflettente non ci risulta neanche più familiare.

Il sopracitato ritmo cadenzato e una certa mancanza di approfondimento delle dinamiche interpersonali con il resto della famiglia impediscono a Capone di eccellere, nonostante ciò resta un film dotato di notevole fascino, grazie anche alle sue imperfezioni e all'interpretazione di un Tom Hardy ormai sempre più a suo agio con la recitazione coperta da maschere (in questo caso il pesante trucco impostogli dal ruolo). Nei soli occhi e nei movimenti appena accennati delle sue labbra è possibile vivere tutto il travaglio di un uomo che ha smesso finalmente di essere solo un personaggio di genere, premiando il coraggio di un autore che di sicuro non ha la sorte dalla propria parte.

sabato 21 agosto 2021

EVANGELION: 3.0+1.0 THRICE UPON A TIME: IL COMMIATO DEFINITIVO A UNA SAGA E A UNA FASE DELLA VITA

Chiunque abbia una minima dimestichezza con il mondo degli anime, in special misura se nato tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, ha visto o conosce Neon Genesis Evangelion (Hideaki Anno, 1995-1996), grazie anche alle trasmissioni televisive sulla defunta MTV. L'ambiziosa serie, solamente in apparenza legata al sottogenere mecha, anche a causa di un finale solamente abbozzato, ha dato vita a un franchise multimediale, culminato nel film The End of Evangelion (Hideaki Anno, Kazuya Tsurumaki, 1997), opera grandiosa che chiude il cerchio in maniera più esplicita rispetto agli ultimi due episodi dell'anime. Nonostante questo epilogo, peraltro trionfale da ogni punto di vista, lo stesso creatore originale dell'intero intreccio ha deciso di dare vita a una sorta di reboot cinematografico dello stesso; una tetralogia racchiusa sotto il nome di Rebuild of Evangelion e iniziata nel 2007. A distanza di ben quattordici anni gli appassionati di tutto il mondo possono godere finalmente dell'ultimo capitolo di questa ambiziosa riproposizione della saga, intitolato Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time (Hideaki Anno, Kazuya Tsurumaki, Katsuichi Nakayama, 2021). Distribuita in sala solamente in Giappone, la pellicola risulta essere comunque il miglior incasso di sempre per l'intero franchise, con recensioni lusinghiere in tutto il mondo.

Raccontare troppo della trama del film sarebbe un delitto, specie per i numerosi colpi di scena sparsi lungo i suoi 155 minuti di durata, dunque mi limito a riferire come questa riprenda esattamente il filo del discorso lasciato in sospeso con il precedente Evangelion: 3.0 You Can (Not) Redo (Hideaki Anno, Mahiro Maeda, Kazuya Tsurumaki, Masayuki, 2012), mostrando le conseguenze su Shinji e gli altri protagonisti del quasi compiuto Fourth Impact e della morte di Kaworu. Per il giovane pilota di Eva lo shock è difficile da superare ma, attraverso un insperato processo di maturazione e accettazione del dolore, unisce ancora una volta le forze con Asuka, Mari, Misato e gli altri della Wunder per la battaglia finale contro la Nerv, ormai relegata solamente all'imperscrutabile progetto di Kozo Fuyutsuki e Gendo Ikari.

Evitare spoiler e approfondire la tantissima carne a fuoco compressa all'interno di Evangelion 3.0+1.0 è arduo quasi quanto districarsi attraverso i continui rimandi religiosi ed esoterici che pervadono fin dal primo episodio dell'anime la saga in questione ma cercherò di mantenere questa impostazione. Ovviamente per godere appieno della visione è necessario aver visionato almeno la tetralogia cinematografica ma altrettanto importante risulta la visione di The End of Evangelion, poiché molti dei temi centrali di allora tornano in questo nuovo epilogo, come in una sorta di aggiornamento di quanto narrato nel 1997. Certamente i cambiamenti narrativi occorsi già nelle precedenti pellicole rendono molto diverso lo svolgimento dell'intreccio ma guardare a pochi giorni di distanza le due pellicole rende evidente la loro parentela. Un rapporto scandito dall'avvicendarsi degli anni, delle tecnologie, dei mezzi espressivi del medium ma soprattutto del rinnovato stato d'animo del suo autore, a conferma di quanto questo franchise rappresenti, in realtà, un vero e proprio processo di esteriorizzazione del percorso interiore di quest'ultimo. Attraverso i canoni dell'arte che meglio conosce e apprezza, l'animazione a base di robottoni e battaglie per il destino dell'umanità, Anno ha raccontato per anni la propria, personalissima, storia di uomo alle prese con la più machiavellica delle malattie, la depressione, e la tendenza all'isolamento che colpisce chi ne è affetto. Shinji Ikari, ancora una volta alle prese con la sua cronica incapacità di rapportarsi con il mondo esterno, con le altre persone e con la sofferenza che, inevitabilmente, vivere davvero può comportare, incarna ancora una volta le fatiche del suo creatore, stavolta con un cortocircuito metanarrativo ancor più esasperato rispetto a quello già molto potente del lungometraggio summenzionato. In questo caso, infatti, i creatori in questione sono due: oltre al regista è impossibile non fare riferimento anche a Gendo, mai come in questo caso sviscerato in ogni recesso del suo io tormentato e sconvolto dal trauma della perdita dell'amata consorte, l'unico essere umano che avesse scalfito la sua impenetrabile solitudine. Attraverso una lunga sequenza ambientata in una dimensione onirica, che trascende persino la quarta parete, padre e figlio riescono finalmente a dialogare a cuore aperto, rivelando la comune propensione all'isolamento e, di conseguenza, a un'esistenza così egoisticamente autoreferenziale da non poterla neanche definire vita a tutti gli effetti. Con una presa di coscienza ancor più esplicita rispetto a quella vista in passato, è proprio l'adolescente a rompere il guscio in cui entrambi vivono, scegliendo la strada più tortuosa dell'apertura verso l'esterno, il perdono verso gli errori propri e del genitore, accettando quella verità finora negata, ossia che persino una vita costellata di momenti dolorosi vale la pena di essere vissuta, così da godere anche delle gioie che si alternano a questi. 

Una svolta tanto ottimistica rispetto al costante nichilismo che avvolgeva la saga, quanto ben orchestrata nel corso della tetralogia e del suo ultimo capitolo, rendendola razionalmente coerente con l'iter narratologico ma, soprattutto, emotivamente appagante come raramente accade dinanzi a uno schermo, probabilmente anche per merito dell'aura di sincerità resa possibile solamente dall'autobiografismo impressogli dall'autore.

A cotanta potenza narrativa, capace di resistere anche agli acciacchi dovuti allo strabordare di nuove informazioni che infarcisce alcuni segmenti della pellicola, si abbina una forma raffinatissima, capace di mescolare ogni possibile tecnica figurativa per esaltare l'azione sfrenata dei combattimenti tra robot, l'idillio momentaneo durante la permanenza a Villaggio-3, l'incontro-scontro emotivo e psicologico tra gli Ikari e il preziosissimo finale, in cui animazione analogica, cgi, riprese live action e bozzetti disegnati a mano si mescolano senza soluzione di continuità. Un pastiche postmoderno che riesce a non eccedere mai nel semplice, seppur apprezzabile, esibizionismo estetico, a dimostrazione dell'avvenuta maturazione di Anno non solo in quanto uomo, bensì come regista e narratore per immagini.

Shinji/Hideaki è diventato un adulto autoconsapevole a tutti gli effetti, in grado di apprezzare le soddisfazioni che il mondo può regalargli e di resistere agli altrettanti colpi che gli infligge, proprio come quel pubblico che nell'arco di più di venti anni ha capito, attraverso questo straordinario racconto transmediale, che chiudersi in se stessi è il peggior torto che un essere umano possa fare a se stesso. Aprirsi al mondo è ciò che può salvarci davvero, persino se questo significa mettere da parte un universo che abbiamo amato tanto come quello di Evangelion.

venerdì 13 agosto 2021

HIGH LIFE: ALLA SCOPERTA DELL'ESSENZA UMANA TRA LE STELLE

Spesso il grande cinema di genere dietro gli schemi fissi ben riconoscibili dal pubblico di riferimento, situazioni archetipiche e personaggi con ruoli definiti fin dal principio nasconde analisi della realtà e dell'essere umano sottili e coraggiose, libere da ogni freno inibitore proprio perché celate tra le maglie di elementi confortanti dinanzi agli occhi dello spettatore. Tali ambizioni sociologiche o filosofiche spesso risultano maggiormente esposte nel caso della fantascienza, grazie anche all'esempio di maestri del passato come Godard o Tarkovskij. Alla sempre più numerosa pletora della cosiddetta sci-fi sociologica può essere accostato anche High Life (2018), prima incursione in questo particolare genere da parte della cineasta francese Claire Denis. Distribuito in Italia soltanto nel 2020, il film è accolto dal plauso quasi unanime della critica, al punto da finire in varie classifiche dei migliori lavori dell'anno, ma con maggiore scetticismo dal pubblico, a conferma di un trend non molto positivo per questo tipo di pellicole da una decina di anni.

La pellicola, attraverso continui salti temporali, segue la stentata sopravvivenza su una navicella spaziale da parte di Monte (Robert Pattinson), ergastolano che si è sottoposto come volontario a una spedizione interstellare alla ricerca di fonti energetiche nei pressi di un buco nero. Durante l'avvicinamento alla meta il gruppo di ex detenuti, formato da quattro uomini e altrettante donne, viene sottoposto a un esperimento per la nascita di un bambino capace di sopravvivere alle radiazioni spaziali dalla dottoressa Dibs (Juliette Binoche). Soltanto dal seme di Monte nasce una bambina con tali caratteristiche, che finirà per rappresentare l'unica compagna di viaggio del protagonista alla morte del resto dell'equipaggio.

Nonostante il pedigree prettamente "art house" che ne contraddistingue la filmografia, Claire Denis filma un'opera che non nasconde assolutamente i numerosi punti di riferimento provenienti dal genere di riferimento. High Life, sia nella forma che nello sviluppo del racconto, evidenzia molti punti in comune con i più celebri esponenti della fantascienza sociologica ma anche con lungometraggi maggiormente pop: la struttura narrativa, il montaggio spesso vicino quello delle attrazioni e la cura per le inquadrature non possono che ricordare Solaris (Andrej Tarkovskij, 1972) ma, al contempo, l'idea di un gruppo di ergastolani costretti a convivere nello spazio da una singolare alternativa alla detenzione carceraria è molto vicina all'Alien 3 (1992) disconosciuto da David Fincher. A ben vedere con quest'ultimo i punti in comune aumentano ancora se si pensa all'importanza, in entrambi i film, rappresentata dalle implicazioni morali della sessualità. Nel terzo capitolo della saga inaugurata da Ridley Scott l'arrivo tra i detenuti, tutti maschi, di Ellen Ripley rompe un equilibrio decennale in maniera non così dissimile rispetto all'intervento mortale dello xenomorfo, innescando un evidente paragone tra la ferocia irrazionale dell'alieno e la bestialità in cui precipitano i prigionieri non appena i loro pruriti più essenziali vengono stimolati. Un mix di Eros e Thanatos innescato dalla convinzione che, venute a mancare le rigide sbarre della società civile, l'uomo sia naturalmente portato a buttare via qualsiasi convinzione morale pur di soddisfare i propri appetiti.

Esattamente la medesima situazione in cui incappano i soggetti dell'esperimento indetto da Dibs, la cui ossessione per la dialettica piacere/morte viene esemplificata, senza alcuna parola, dalla sequenza della sex box. Stimolati anche da una diffusa dipendenza da farmaci, incoraggiata dalla stessa dottoressa, ben presto l'iniziale stabilità viene infranta dal crescente desiderio dei detenuti di sopraffare l'altro, usando il sesso come arma. In un modo o nell'altro ogni cosmonauta viene ucciso da questo irrazionale desiderio, confermando una visione della pulsione sessuale difficilmente separabile dalla volontà di imporre il proprio potere sul prossimo. A fare eccezione, non a caso, e a sopravvivere è unicamente Monte, che rifiuta di masturbarsi per l'esperimento di fecondazione e la cui astinenza viene interrotta solamente dallo stupro subito proprio dalla scienziata. 

Nonostante sia dunque nata da una violenza, Willow (Scarlett Lindsey) diventa l'unico interlocutore umano per il protagonista e anche il motivo per non gettare anche la propria vita. Attraverso sequenze legate tra loro soprattutto per intuizioni emozionali, come quella in cui l'uomo insegna alla piccola a camminare, Denis inizia a far emergere anche una pars costruens del proprio discorso filosofico sulla natura più profonda della condizione umana. Attraverso riflessioni singolarmente vicine alla saga di anime fantascientifica per eccellenza, Gundam (Yoshiyuki Tomino, Hajime Yatate, 1979-), l'autrice sembra suggerire che, al netto degli istinti bestiali dimostrati dalla maggioranza degli umani liberi dalle leggi della società, forse tra le stelle, lontani dalle imposizioni dell'esistenza frenata dalla gravità, gli uomini possono scoprire lati di sé imprevisti e tornare a sperare in un futuro più radioso e conciliante. L'atto di fede finale, con i suoi richiami a Interstellar (Christopher Nolan, 2014) sembra proprio confermare che, privato del peso della vita terrestre, persino un assassino può scoprire l'amore per una figlia mai desiderata e affidare la propria vita alle sue irrazionali sensazioni.

mercoledì 11 agosto 2021

ONCE: RINASCERE ATTRAVERSO LA MUSICA

Parlare dello strettissimo rapporto tra cinema e musica ci porterebbe fino all'alba della sua nascita, a quelle prime immagini in movimento, prive di suono ma accompagnate sempre da qualche tipo di commento musicale, che fosse eseguito dal vivo o registrato. Prima ancora che la narrazione diventasse un elemento fondamentale del medium le melodie erano già presenti, dando vita a un connubio oggi vivo più che mai. Quante volte abbiamo visto anche registi dedicarsi alla musica o, viceversa, musicisti passare davanti o dietro la cinepresa? Quest'ultimo è il caso di John Carney, ex bassista che trova la propria vocazione più autentica nella settima arte, senza dimenticare mai il proprio passato. Non a caso il film che lo consacra alla ribalta internazionale vede la musica come suo cuore pulsante: Once, diretto nel 2006. Girato a bassissimo costo, con un gran numero di attori non professionisti, il lungometraggio si rivela un successo di pubblico e di critica, arrivando a competere persino ai Golden Globe e agli Academy Awards, dove si aggiudica la statuetta per la miglior canzone originale.

La pellicola, ambientata tra le strade di una Dublino ancora lontana dal suo recente boom economico, mette in scena l'incontro, del tutto fortuito, tra uno squattrinato musicista di strada (Glen Hansard), che per vivere ripara aspirapolveri con il padre, e una ragazza madre ceca (Markéta Irglova). Parlando della comune passione per la musica e iniziando anche a comporre delle canzoni insieme i due si avvicinano sempre più, fino a registrare, insieme ad altri musicisti ambulanti, un demo con i pezzi composti insieme.

Il chiaro punto di partenza per la narrazione di Once è la commedia romantica ma, come sanno i registi più fini, la forza dei generi si situa negli ampi spazi di manovra che i loro tratti più riconoscibili lasciano al singolo autore. Poche coordinate ben definite e una miriade di possibili declinazioni di tutto il resto. Carney, in questo caso, libera il canovaccio della romcom dall'alone glamour tipico delle sue versioni più hollywoodiane, focalizzandosi sui ceti più popolari di una città tutt'altro che modaiola e scegliendo due protagonisti assolutamente comuni, al punto da non dargli neanche un nome. Dei veri e propri avatar in cui milioni di spettatori possano trasferire il proprio vissuto, i propri sentimenti e la propria condizione di individui qualunque, né ricchi, né belli quanto lo star del cinema americano mainstream. Persino gli interpreti non sono realmente professionisti, bensì perlopiù cantanti o musicisti, sottolineando in tal senso le linee-guida dell'opera: musica e realismo. Ad accentuare quest'ultimo è, senza alcun dubbio, un registro formale costantemente votato alla sottrazione. Sfruttando quasi unicamente l'illuminazione naturale, ambienti non ricostruiti in studio e macchina a mano, la pellicola assume i contorni di un lavoro documentaristico, come conferma anche la tendenza della cinepresa a seguire i protagonisti alla stregua di quanto farebbe un reporter sul fronte per un documentario bellico. Tutto ciò inevitabilmente incrementa il coinvolgimento emotivo del pubblico nei confronti del crescente feeling tra i personaggi principali, quasi come se stesse spiando attraverso il buco della serratura i primi vagiti di una storia d'amore.

Una storia d'amore che non avrebbe alcun principio e che non risulterebbe tanto coinvolgente per il fruitore se non fosse per l'altro elemento cardine: la musica. Non solo i due si conoscono e iniziano a interagire per merito di questa comune passione ma entrambi scoprono di portare delle ferite, che sembrano poter essere lenite soltanto dalle sette note. Le delusioni, i cuori spezzati e gli stenti economici divengono semplice e impercettibile sottofondo quando la chitarra di lui e il piano di lei si incontrano e danno vita a una danza magica, capace di trasformare tutto il dolore in bellissime composizioni, sincere nella propria emotività almeno quanto le interpretazioni dei due non-attori e i sentimenti che i personaggi cominciano a provare l'uno per l'altro. Pur evitando deleteri spoiler per chi non avesse visto il lungometraggio, è fondamentale sottolineare, da questo punto di vista, quanto per Carney conti proprio la forza guaritrice dell'arte, l'incredibile sortilegio con cui convince due esistenze ormai rassegnate al grigiore a credere nuovamente nei rispettivi sogni, in ciò che li rendeva vivi prima dell'ennesimo schiaffo ricevuto dalla vita.

Come ribadito anche nel successivo Tutto può cambiare (Begin Again, 2013) qualche volta l'amore dura soltanto una manciata di istanti ma quello per la musica, per l'arte in genere, può cambiare completamente le prospettive di una vita intera, salvandoci dall'abisso in cui spesso i colpi del destino sembrano averci seppelliti.