venerdì 13 agosto 2021

HIGH LIFE: ALLA SCOPERTA DELL'ESSENZA UMANA TRA LE STELLE

Spesso il grande cinema di genere dietro gli schemi fissi ben riconoscibili dal pubblico di riferimento, situazioni archetipiche e personaggi con ruoli definiti fin dal principio nasconde analisi della realtà e dell'essere umano sottili e coraggiose, libere da ogni freno inibitore proprio perché celate tra le maglie di elementi confortanti dinanzi agli occhi dello spettatore. Tali ambizioni sociologiche o filosofiche spesso risultano maggiormente esposte nel caso della fantascienza, grazie anche all'esempio di maestri del passato come Godard o Tarkovskij. Alla sempre più numerosa pletora della cosiddetta sci-fi sociologica può essere accostato anche High Life (2018), prima incursione in questo particolare genere da parte della cineasta francese Claire Denis. Distribuito in Italia soltanto nel 2020, il film è accolto dal plauso quasi unanime della critica, al punto da finire in varie classifiche dei migliori lavori dell'anno, ma con maggiore scetticismo dal pubblico, a conferma di un trend non molto positivo per questo tipo di pellicole da una decina di anni.

La pellicola, attraverso continui salti temporali, segue la stentata sopravvivenza su una navicella spaziale da parte di Monte (Robert Pattinson), ergastolano che si è sottoposto come volontario a una spedizione interstellare alla ricerca di fonti energetiche nei pressi di un buco nero. Durante l'avvicinamento alla meta il gruppo di ex detenuti, formato da quattro uomini e altrettante donne, viene sottoposto a un esperimento per la nascita di un bambino capace di sopravvivere alle radiazioni spaziali dalla dottoressa Dibs (Juliette Binoche). Soltanto dal seme di Monte nasce una bambina con tali caratteristiche, che finirà per rappresentare l'unica compagna di viaggio del protagonista alla morte del resto dell'equipaggio.

Nonostante il pedigree prettamente "art house" che ne contraddistingue la filmografia, Claire Denis filma un'opera che non nasconde assolutamente i numerosi punti di riferimento provenienti dal genere di riferimento. High Life, sia nella forma che nello sviluppo del racconto, evidenzia molti punti in comune con i più celebri esponenti della fantascienza sociologica ma anche con lungometraggi maggiormente pop: la struttura narrativa, il montaggio spesso vicino quello delle attrazioni e la cura per le inquadrature non possono che ricordare Solaris (Andrej Tarkovskij, 1972) ma, al contempo, l'idea di un gruppo di ergastolani costretti a convivere nello spazio da una singolare alternativa alla detenzione carceraria è molto vicina all'Alien 3 (1992) disconosciuto da David Fincher. A ben vedere con quest'ultimo i punti in comune aumentano ancora se si pensa all'importanza, in entrambi i film, rappresentata dalle implicazioni morali della sessualità. Nel terzo capitolo della saga inaugurata da Ridley Scott l'arrivo tra i detenuti, tutti maschi, di Ellen Ripley rompe un equilibrio decennale in maniera non così dissimile rispetto all'intervento mortale dello xenomorfo, innescando un evidente paragone tra la ferocia irrazionale dell'alieno e la bestialità in cui precipitano i prigionieri non appena i loro pruriti più essenziali vengono stimolati. Un mix di Eros e Thanatos innescato dalla convinzione che, venute a mancare le rigide sbarre della società civile, l'uomo sia naturalmente portato a buttare via qualsiasi convinzione morale pur di soddisfare i propri appetiti.

Esattamente la medesima situazione in cui incappano i soggetti dell'esperimento indetto da Dibs, la cui ossessione per la dialettica piacere/morte viene esemplificata, senza alcuna parola, dalla sequenza della sex box. Stimolati anche da una diffusa dipendenza da farmaci, incoraggiata dalla stessa dottoressa, ben presto l'iniziale stabilità viene infranta dal crescente desiderio dei detenuti di sopraffare l'altro, usando il sesso come arma. In un modo o nell'altro ogni cosmonauta viene ucciso da questo irrazionale desiderio, confermando una visione della pulsione sessuale difficilmente separabile dalla volontà di imporre il proprio potere sul prossimo. A fare eccezione, non a caso, e a sopravvivere è unicamente Monte, che rifiuta di masturbarsi per l'esperimento di fecondazione e la cui astinenza viene interrotta solamente dallo stupro subito proprio dalla scienziata. 

Nonostante sia dunque nata da una violenza, Willow (Scarlett Lindsey) diventa l'unico interlocutore umano per il protagonista e anche il motivo per non gettare anche la propria vita. Attraverso sequenze legate tra loro soprattutto per intuizioni emozionali, come quella in cui l'uomo insegna alla piccola a camminare, Denis inizia a far emergere anche una pars costruens del proprio discorso filosofico sulla natura più profonda della condizione umana. Attraverso riflessioni singolarmente vicine alla saga di anime fantascientifica per eccellenza, Gundam (Yoshiyuki Tomino, Hajime Yatate, 1979-), l'autrice sembra suggerire che, al netto degli istinti bestiali dimostrati dalla maggioranza degli umani liberi dalle leggi della società, forse tra le stelle, lontani dalle imposizioni dell'esistenza frenata dalla gravità, gli uomini possono scoprire lati di sé imprevisti e tornare a sperare in un futuro più radioso e conciliante. L'atto di fede finale, con i suoi richiami a Interstellar (Christopher Nolan, 2014) sembra proprio confermare che, privato del peso della vita terrestre, persino un assassino può scoprire l'amore per una figlia mai desiderata e affidare la propria vita alle sue irrazionali sensazioni.

Nessun commento:

Posta un commento