lunedì 27 settembre 2021

UN ALTRO GIRO: TRIONFO DELLO SPIRITO DIONISIACO

Quando un appassionato di cinema sente parlare di Danimarca la mente corre immediatamente a Lars von Trier, salito alla ribalta internazionale con il celeberrimo manifesto programmatico Dogma 95. Eppure l'opera che maggiormente esprime idee, concetti e visione di tale sussulto rivoluzionario, conclusosi nel corso di una manciata di anni, resta Festen (1998), diretto non dall'autore di Antichrist (Lars von Trier, 2009), bensì da Thomas Vinterberg. Regista che, pagato un fallito approdo all'universo hollywoodiano, può vantare una serie di notevoli lavori girati in Europa e nel 2020 trova finalmente la definitiva consacrazione internazionale con Un altro giro (Durk in originale), capace di trionfare come miglior film straniero all'ultima edizione degli Academy Awards.

La pellicola racconta la crisi di mezz'età di un gruppo di quattro amici danesi, colleghi insegnanti nella stessa scuola. Tra di essi il più in difficoltà sembra essere Martin (Mads Mikkelsen), totalmente incapace di mantenere un legame con la moglie, i due figli e persino con i suoi alunni. Durante i festeggiamenti del quarantesimo compleanno di Nikolaj (Magnus Millang), gli uomini iniziano a discutere la teoria dello psichiatra Finn Skarderud secondo cui un costante tasso alcolico dello 0,05% aiuterebbe le persone a essere più attive socialmente e convinte dei propri mezzi. I quattro decidono a fine serata di seguire realmente questi dettami, riscontrando degli effettivi miglioramenti sia come docenti che nei legami familiari. La situazione prende, però, una brutta piega quando decidono di alzare sempre di più la percentuale di alcol.

Basato su una drammaturgia preesistente, scritta dallo stesso regista ma in gran parte stravolta in seguito alla morte della figlia Ida, Un altro giro si inserisce all'interno di un filone cinematografico piuttosto circoscritto, quello dell'escapismo di adulti che non accettano l'idea di invecchiare esplorato con grande acume da registi come Gabriele Salvatores, donandogli però una dimensione del tutto intima, resa possibile solamente dalla sensibilità di un autore schietto come Vinterberg e dalle tragiche circostanze della vita fuori dal profilmico. Il cineasta danese, prendendo spunto dalla ben nota tendenza al consumo di alcolici da parte degli adolescenti scandinavi, anziché dirigere un pamphlet a favore o di condanna verso il fenomeno mostra le possibili conseguenze di un sovvertimento dell'ordine costituito, in cui a tentare di abbassare i freni inibitori mantenendosi costantemente alticci sono dei quarantenni e non dei diciottenni. Un what if che conferisce un atmosfera agrodolce alla prima parte del racconto, con tocchi di commedia che seguono la trasformazione dei protagonisti da grigi uomini medi in spiriti liberi, in grado finalmente di suscitare entusiasmo negli studenti e di riaccendere la passione con le proprie consorti.

Proprio come ci insegna la tradizione secolare ereditata da Aristofane e Plauto è la trasgressione delle regole civili a suscitare il sano divertimento che qualunque pubblico si aspetta da una commedia e questa prima metà della narrazione sembra promettere un'arguta critica della rigidità morale di facciata del paese nordico, con un meritato riscatto per Martin e gli altri middle men appassiti a causa di quella stessa rispettabilità borghese appena citata. Il resto della pellicola, però, modifica radicalmente le carte in tavola, mostrando anche le possibili, nefaste conseguenze di uno stile di vita influenzato continuamente dalle alterazioni psicotrope derivate da alti tassi alcolemici, che passando da una nuova, seppur diversa, fase di isolamento e abbandono da parte delle persone amate finanche alla morte. Lo stesso spauracchio che si cela dietro la negazione dell'avvicendarsi degli anni, della fine della giovinezza e dell'adattamento a una fase diversa della vita. Morte che, in uno slancio vitalistico che non può non riconnettersi alla dolorosa vicenda personale vissuta dal regista, porta anche gli insegnanti a una fondamentale presa di coscienza, a comprendere che esiste una vita anche lontano dall'età dell'oro della gioventù e che vale la pena lottare e rendere grazie per ogni piccola gioia che essa può riservare. Ecco dunque che tale epifania trova la sua perfetta sineddoche nella danza finale di Martin, circondato proprio dalla spensieratezza dei suoi alunni e da fiumi di birra e champagne. Stavolta nei movimenti dell'uomo non c'è più la goffaggine di chi beve fino a stordirsi per sopportare i malanni dell'esistenza, bensì la pura gioia dionisiaca di chi ha scoperto la gratitudine per la vita che, nonostante tutto, continua, pronta a regalare ancora emozioni degne di essere esperite, amori degni di essere protetti e riconquistati, amicizie che superano qualsiasi pressioni sociale e stupido perbenismo borghese.

Del domani non vi sarà certezza ma vale la pena attendere nuove sorprese, senza dimenticare gli affetti che hanno preso altre strade.

sabato 25 settembre 2021

THE ENTITY: L'HORROR CHE SFIDA IL MACHISMO OCCIDENTALE

Escludendo gli appassionati più fedeli all'Uomo d'acciaio, pochi nel 2021 ricordano ancora Superman IV (Superman IV : The Quest for Peace, 1987), nonostante resti l'ultima interpretazione del compianto Christopher Reeve dell'iconico supereroe DC, a causa di una qualità tutt'altro che memorabile, specie per quanto concerne la sceneggiatura. Eppure l'autore di quel disastro, tale Sidney J. Fury, vanta un curriculum all'interno del cinema di genere di tutto rispetto, in cui spicca quello che resta l'apice della sua ondivaga carriera: Entity (The Entity, 1982). Non un clamoroso successo al botteghino ma una pellicola accolta con immediato calore dalla critica e persino da cineasti come Martin Scorsese, capace di assurgere negli anni allo status di cult, citato esplicitamente da molte produzioni mainstream, in primis Insidious (James Wan, 2010). Scopriamo da dove nasce la fascinazione per quest'opera, soprattutto in tempi recenti.

Il film, tratto da un romanzo a sua volta ispirato a un reale caso di presunto poltergeist, narra le sfortunate vicende della madre single Carla (Barbara Hershey), che, nel corso di una notte come tante altre, viene aggredita e abusata sessualmente da una presenza invisibile. Ancora sotto shock e consapevole di sentire ancora all'interno di casa la suddetta minaccia, porta via con sé i tre figli per il resto della nottata da un'amica. I giorni successivi vedono l'acuirsi delle visite del misterioso assalitore, il quale attacca persino il maggiore dei figli, Billy (David Labiosa). Naturalmente nessuno crede alla versione di Carla dell'accaduto e, di conseguenza, i medici che in ospedale la visitano la mettono in contatto con lo psichiatra Phil Sneiderman (Ron Silver), che, una volta conosciuta l'avventurosa storia amorosa della paziente, cerca di convincerla che quest'ultima stia sublimando traumi regressi. La protagonista, non trovando alcun conforto o soluzione al proprio problema nelle teorie psicanalitiche, si rivolge a un gruppo di ricercatori universitari di parapsicologia, gli unici a credere all'esistenza di una presenza malevola invisibile all'occhio umano. 

A distanza di quasi quarant'anni esatti dalla distribuzione di Entity sconcerta notare con quanta ferocia e immaginazione affronti argomenti arrivati al centro del dibattito pubblico più pop soltanto da una manciata di cicli solari, spesso peraltro affrontati con una povertà conoscitiva che tradisce solamente squallidi intenti opportunistici. A più riprese ho sottolineato quanto il cinema di genere sia in grado di esaminare e aprire gli occhi del pubblico sui lati più oscuri della società che lo produce, ricorrendo al potente strumento della metafora per analizzare anche topic che, se affrontati di petto all'interno della cosiddetta "cinematografia alta", scuoterebbero nervi ancora fin troppo scoperti.
La pellicola in questione rientra precisamente nella migliore accezione di ciò che l'horror può raccontare del panorama socio-culturale in cui ancora oggi viviamo, attraverso la creazione di un villain del tutto privo di forma, voce o altre tipiche caratteristiche umane ma che, al contempo, mostra esattamente i peggiori istinti dell'immagine del maschio alpha fornita da secoli di patriarcato. Le uniche azioni che l'invisibile presenza perpetra nell'arco del racconto sono variegati atti di sopraffazione nei confronti di una donna, colta nei momenti di maggiore vulnerabilità e intimità, a partire da un terribile e improvviso stupro. Furie, attraverso la scelta estetica e poetica di negare al pubblico la possibilità di vedere esplicitamente il volto e le azioni dell'entità, compie un'interessante operazione di disumanizzazione della stessa, che accentua da un lato il coinvolgimento empatico verso la vittima e, dall'altro, afferma con veemenza la bestialità che contraddistingue qualsivoglia tipologia di abuso. Carla, difatti, non solo viene costretta a più rapporti sessuali non consenzienti, bensì si trova, suo malgrado, in una costante spirale di paura provocata dalle continue e minacciose apparizioni dell'essere, che diventa in tal modo anche un'efficace rappresentazione simbolica del modus operandi di uno stalker, senza però permettere allo spettatore di provare alcun piacere nelle violenze, fisiche e psicologiche da lui causate, come invece può accadere con l'ambiguità morale di molti slasher.
L'invisibilità e il quasi totale diniego di spettacolarizzazione della violenza indirizzano l'emotività del fruitore direttamente verso una identificazione con la protagonista, il suo dolore e la forza con cui si batte per difendere la propria famiglia e la sua stessa individualità di donna indipendente dai continui soprusi maschili. Soprusi che non sempre vengono causati dal villain.
Il personaggio interpretato da Barbara Hershey viene circondata perlopiù da uomini e nessuno di essi riesce a credere alla tragedia che sta vivendo. Certamente la razionalità rende quanto mai facile diffidare di una persona che presume di essere perseguitata da un uomo invisibile, eppure è impossibile non cogliere la presunzione del tutto sessista con cui ogni segnale d'allarme della donna venga liquidato con le più banali e datate teorie psicanalitiche. Addirittura nel corso della sequenza in cui Sneiderman riunisce una sorta di consiglio generale di specialisti, la tesi avanzata per spiegare i presunti deliri della paziente somiglia inquietantemente alla credenza popolare dell'isterismo femminile, con la quale per secoli è stata giustificata qualunque forma di disagio psicologico sofferto dalla donna.
Un intero sistema opprime e minaccia Carla, facendo della presenza soprannaturale "solamente" una sineddoche di questa realtà completamente incapace di accettare il diritto femminile di autodeterminazione considerato insito solamente nella natura maschile. Condizione che si riflette nella straordinaria fotografia diretta da Stephen H. Burum, il cui uso di teleobiettivo e piano olandese creano un apparato visuale fortemente debitore dell'espressionismo tedesco. In particolare i maggiori riferimenti estetici sembrano essere Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari, Robert Wiene, 1920) e Marnie (Alfred Hitchcock, 1964), non per caso due esempi di quanto i generi possano mettere in scena con efficacia l'isolamento e gli abusi dei gruppi maggioritari nei confronti delle minoranze (da un punto di vista prettamente relativo ai diritti civili), siano essi il mondo femminile o quello di chi soffre di disturbi mentali. L'onnipresenza di inquadrature volutamente stilizzate e antinaturalistiche sottolinea gli effetti sulla psiche della protagonista delle costanti violazioni subite dai personaggi maschili, che arrivano persino a farle dubitare della propria sanità psichica e ad accusarla di giustificare tramite racconti fantasiosi le proprie pulsioni incestuose.

Entity rappresenta, in conclusione, un coraggioso atto di accusa verso una società che, per quanto tecnologicamente ed economicamente avanzata, continua a discriminare una parte fondamentale di sé. Un monito lanciato peraltro in un momento storico caratterizzato da una corrente culturale improntata a un estremo machismo come il reaganismo degli anni Ottanta, rendendolo ancor più potente persino per un presente in cui i diritti della donna sembrano albergare sulla bocca di tutti ma nella coscienza di pochi.

lunedì 20 settembre 2021

HANNIBAL: I RAFFINATISSIMI SIMULACRI UMANI DI BRYAN FULLER

Grazie al successo mondiale di romanzi e trasposizioni cinematografiche, Hannibal Lecter può essere considerato un'icona pop del mondo dell'orrore, alla pari di Dracula o di Freddy Krueger, specialmente nella sua incarnazione dal volto di Anthony Hopkins. Inaugurando un trend che perdura ancora oggi, il personaggio si è spostato, nel corso del 2013, dal grande al piccolo schermo, grazie a Hannibal (2013-2015), show ideato da Bryan Fuller per NBC. Sebbene la serie sia stata capace di attirare una consistente fetta di pubblico molto affezionato, non è mai riuscita a diventare un fenomeno di massa, fallendo nel tentativo di rendere remunerativo il notevole dispiego di mezzi produttivi, specie per gli standard televisivi. Dopo tre stagioni il serial ha chiuso i battenti ma con il sempreverde desiderio da parte del suo ideatore e dei fan di un possibile proseguimento. Che sia giustificata tale affezione verso quest'opera? Scopriamolo.

Reinterpretando liberamente i romanzi di Thomas Harris, lo show vede come protagonista Will Graham (Hugh Dancy), profiler dell'FBI dotato di un livello di empatia unico, che, unito a una fervida immaginazione, gli permette di entrare in sintonia con i criminali a cui dà la caccia, capire i meccanismi mentali dietro i loro delitti e in questo modo individuarli. Un tale dono rischia però di logorare irreversibilmente la stabilità emotiva e psichica dell'agente e, per evitarlo, inizia un percorso di analisi con il rispettabile dottor Hannibal Lecter (Mads Mikkelsen). Dopo un iniziale diffidenza si instaura tra i due un rapporto di stima reciproca e curiosità intellettuale verso l'altro, che diventerà sempre più complesso quando lo psichiatra si rivelerà uno spietato serial killer antropofago.

Come anticipato brevemente in precedenza, Hannibal sceglie per un percorso narrativo astuto, che, conscio della popolarità delle opere che lo hanno preceduto, gioca costantemente con le attese del pubblico, seguendo talvolta fedelmente i lavori letterari o i lungometraggi con Hopkins, per poi deviare verso un'interpretazione del tutto inedita e personale dei fatti. Gran parte dei personaggi sono già noti agli appassionati e mantengono anche le caratteristiche psicologiche pregresse ma Fuller, da profondo conoscitore dei principi del giallo, imbastisce una sfida intellettuale con i propri spettatori che richiama quella al gatto e al topo che ha luogo tra detective e criminale. Ciò potrebbe far credere che il racconto si attesti dunque sui topoi del thriller investigativo, seppur condito da evidenti elementi horror, alla base de Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991) o Manhunter - Frammenti di un omicidio (Manhunter, Michael Mann, 1986) ma si tratta solamente di bluff, depistaggi equiparabili a quelli che orchestra abilmente Lecter per manovrare ogni situazione a proprio vantaggio. Tramite la penna dello sceneggiatore dell'Idaho, le indagini originariamente partorite da Harris si trasformano in un campo di gioco tutto interiore tra lo stesso cannibale e Graham. Afflitti entrambi da uno stato di perpetua solitudine, accentuata da una diversità rispetto al resto del genere umano che li rende quasi imperscrutabili, i due si avvicinano costantemente, trovando un irresistibile attrazione per i rispettivi lati oscuri della coscienza, come ultimi superstiti di una specie ormai estinta. Senza rinunciare anche a un sottile divertissement nei confronti del fandom più attratto dalle possibili conseguenze carnali di questa velenosa amicizia, Fuller fa di Lecter una incarnazione inedita del mito secolare del vampiro e del suo proverbiale bisogno di cibarsi della vita altrui per sopravvivere. Abbandonato ogni residuo di umanità nel momento in cui, ancora ragazzino, perde l'amata sorella e, per ragioni intelligentemente lasciare oscure, se ne ciba. Hannibal si trasforma con il passare degli anni in un involucro, un simulacro che dell'umanità degna di tale definizione conserva solamente una sterminata cultura e l'egoistica tendenza di usare il prossimo per il proprio tornaconto. A differenza di Dracula o dei nosferatu al centro dei romanzi di Anne Rice, lo psichiatra rifugge ogni slancio vitalistico intrinsecamente umano, in primis la pulsione sessuale, totalmente asservita al semplice sfruttamento della seduzione come ulteriore strumento di raggiro. Persino le elaborate sculture in cui tramuta le proprie vittime sembrano più vicine a una sorta di atto di autocelebrazione metafisica che non al soddisfacimento di un desiderio erotico tipicamente associato all'agire di un serial killer.

L'unica eccezione al totale horror vacui dell'anima del personaggio interpretato dal magnetico Mikkelsen è rappresentata dal desiderio di legare a sé Graham, di coltivare quell'oscurità carpita nel suo io più nascosto per trasformarlo in un simulacro del male in tutto e per tutto uguale a sé. Il profiler, d'altro canto, vive sulla propria pelle il paradosso di un talento quasi innaturale che anziché permettergli di comprendere al meglio i sentimenti altrui e dunque convivere con maggior profitto con essi, lo porta ad assorbire tutto il male che alberga in un mestiere a stretto contatto con morte e violenza. Un vortice di emozioni che irrimediabilmente lo allontana a tal punto dal comune sentire che persino la razionalmente malsana compagnia di Lecter assume i tratti dell'unica possibile forma di amicizia concessagli dal destino.

Un concentrato di Thanatos in cui l'Eros viene principalmente rappresentato da un impianto formale costantemente all'insegna dell'esaltazione della bella immagine, della perfetta composizione delle inquadrature e ralenti in grado di tramutare la cinetica intrinseca dell'audiovisivo in quadri animati, perfettamente adeguati all'ideale estetizzante di Hannibal. L'apice del virtuosismo visivo, a prescindere dal regista del singolo episodio, viene puntualmente raggiunto nelle sequenze culinarie o nel ritrovamento di un cadavere, accentuando in tal modo la natura vampiresca dell'assassino, che accresce il potere della propria mente attraverso raffinatissimi piatti a base di carne umana. Una versione orrorifica della figura ottocentesca del dandy, espressa perfettamente dalla coabitazione visuale tra l'equilibrio classicheggiante delle inquadrature e una dose decisamente abbondante di sangue e violenza esplicita. Una perfetta sintesi tra forma e contenuto, suggestione sensoriale e cerebrale che rende Hannibal uno tra i migliori prodotti seriali per chiunque ami esplorare le tenebre dell'essere umano.

mercoledì 8 settembre 2021

THE SUICIDE SQUAD: EXPENDABLES ALL'ASSALTO DELL'UNIVERSO CINECOMIC

Dopo aver navigato per anni tra i bizzarri territori dei b-movie e delle produzioni di genere indipendenti, James Gunn ha incontrato il meritato riconoscimento di massa solamente attraverso Guardiani della Galassia (Guardians of the Galaxy, 2014), una delle pellicole più irriverenti e singolari all'interno dello standardizzato franchise Marvel. Ciononostante è evidente come in quest'opera e relativo seguito la fantasia e l'ironia politicamente scorretta del regista siano frenati dalle esigenze commerciali di questi blockbuster. Una condizione che non si ripresenta nella sua prima collaborazione con la casa rivale per eccellenza, DC Comics, per la cui divisione cinematografica l'autore di Slither (2006) realizza The Suicide Squad (2021). Al netto di un budget da quasi duecento milioni di dollari e degli ormai ben noti travagli produttivi in seno al DC Extended Universe, il film viene affidato completamente alle mani di Gunn, senza alcun vincolo creativo. Una scelta premiata quasi all'unanimità dalla critica ma non dal botteghino, certamente influenzato sia dalla preferenza popolare verso gli schemi narrativi del MCU che dalla contemporanea distribuzione dell'opera anche su HBO Max, piattaforma di streaming di proprietà Warner.

Il lungometraggio, ambientato in un indefinito periodo successivo all'impresa narrata nel primo Suicide Squad (David Ayer, 2016), vede la gelida Amanda Waller (Viola Davis) assemblare una nuova Task Force X con l'obiettivo di fermare delle presunte armi di origini aliene sviluppate sull'isola di Corto Maltese, alle prese con un colpo di stato avverso dagli Stati Uniti. A guidare le operazioni è il killer su commissione Bloodsport (Idris Elba), insieme ad alcuni membri già visti nel prequel, tra cui Harley Quinn (Margot Robbie) e Rick Flag (Joel Kinnaman), e nuove leve come Peacemaker (John Cena). Dopo uno sbarco in cui perde la vita metà del team, i superstiti si ritrovano invischiati in una serie di terribili intrighi di potere e crimini di guerra, fino a scoprire che la loro missione reale è tutt'altro che nobile come preventivato inizialmente.

L'ambiguità morale non può certo essere considerata una novità per un avventura della squadra suicida e già nel piuttosto edulcorato predecessore aveva una sua centralità, ma The Suicide Squad getta via ogni remora legata all'etica tradizionale americana e rivela il lato più selvaggiamente ironico del proprio autore. Il team assemblato da Gunn, seppur decimato dopo pochi minuti, mostra una galleria di outsider completamente fuori da ogni logica superomistica, tra squali antropomorfi e domatrici di topi, accomunati da due caratteri antitetici soltanto in apparenza: violenza e solitudine. Attraverso una rara capacità di modulare ironia volgare e scorretta con momenti di notevole introspezione, il regista di Saint Louis dona il necessario spazio a ogni personaggio affinché possa entrare in risonanza empatica con il pubblico, piazzando dietro ogni battuta intrisa di black humour una nota agrodolce di incapacità nel rapportarsi con il prossimo. King Shark (doppiato da Sylvester Stallone) spesso appare come macchietta comica a causa del contrasto tra la sua intelligenza da neonato e l'istinto da cannibale, eppure condivide con la giovane Ratcatcher (Daniela Melchior) alcuni momenti di insperata dolcezza. Con l'esclusione dello spietato Peacemaker, chiaro contraltare violento e fascista di Captain America, ogni singolo membro della Task Force porta con sé le cicatrici di un abbandono, di una persona cara morta troppo presto o di una difficile situazione familiare, rendendoli round character raramente riscontrabili nei cast corali di film ad alto budget. 

Tutto ciò non significa che la pellicola viva sulla medesima lunghezza d'onda a basse di gravitas e conflitti interiori delle trilogie DC firmate da Christopher Nolan o Zack Snyder, anzi l'ironia greve tipica di Gun stempera costantemente il clima di violenza che permea la stessa, con dei picchi di nonsense che strizzano l'occhio alla gavetta del regista in casa Troma. Una vera rarità all'interni del panorama dei blockbuster hollywoodiani, specialmente se si considera che, rispetto alle battute dissacranti tipiche di Deadpool (Tim Miller, 2016), l'autore di Super (2010) riesce a innestare anche una disincantata critica nei confronti della politica estera americana, ancora oggi fin troppo abituata a mantenere l'egemonia planetaria con metodi eticamente molto discutibili, nascosti dietro l'odiosa menzogna dell'esportazione della democrazia. Ovviamente anche da questo punto di vista il director non si prende mai troppo sul serio, consapevole di aver trasformato i tipici soldati tragicamente sacrificabili di una certa tipologia di war movie in antieroi costantemente oltre il limite dell'assurdo, restando così fedele alla propria visione di cinema. Una rarità per un genere in cui a latitare è quasi sempre la personalità.