domenica 20 luglio 2025

I PECCATORI: THE PRICE OF FREEDOM

A conferma delle innumerevoli idiosincrasie che animano il nostro paese, mi sorge spontanea una domanda: esattamente perché Ryan Coogler, in mezzo a una pochezza disarmante nel panorama americano mainstream, piace in tutto il mondo con la sola eccezione dell'Italia? Me lo chiedo già da quando ho visto per la prima volta Creed - Nato per combattere (Creed, 2015), ma il quesito mi sembra ancor più complesso alla luce della visione de I peccatori (Sinners in originale), arrivato nelle sale nello scorso aprile con il plauso unanime in tutto il mondo, incassi molto elevati considerando l'attuale crisi dell'esperienza cinematografica e, puntualmente, non poche ricezioni negative dove? Ovviamente nel nostro amato stivale. Qualche idea sull'argomento è maturata nella mia testa in questi anni, fino a toccare questioni culturali piuttosto annose e meritevoli di una disamina articolata, per cui mi limito a focalizzarmi in questo momento sull'ultima fatica del cineasta statunitense.


Ambientato in una sola, lunga giornata del Mississippi del 1932, il film mette in scena il tentativo da parte dei gemelli Stack e Smoke Moore (entrambi interpretati da Michael B. Jordan) di aprire un juke joint nella propria città natale, abbandonata per anni in cerca di fortuna a Chicago. Per garantire il successo del locale chiedono aiuto al giovane cugino Sammie (Miles Caton), asso della chitarra, al navigato musicista Delta Slim (Delroy Lindo) e all'ex moglie, nonché esperta di magia e cuoca, di Smoke Annie (Wunmi Mosaku). Nonostante qualche difficoltà, soprattutto legata agli introiti economici, l'inaugurazione sembra andare alla grande, almeno fino alla comparsa di un trio di misteriosi bianchi, guidati dall'irlandese Remmick (Jack O'Connell), che chiede di poter partecipare alla festa.


Uno dei primi pensieri che balena nella mente dello spettatore durante e dopo aver concluso I peccatori si concentra su quante cose, quanti film ne film lo compongano. Dalla ricostruzione della vita negli stati del sud nel pieno della crisi del Ventinove al gangster movie, dall'horror soprannaturale al western, il pastiche organizzato da Coogler non nasconde la propria essenza postmoderna e metacineamtografica, che però non si limita a flirtare con la conoscenza pregressa del pubblico, bensì lavora come strumento indispensabile per la poetica del regista. Dichiaratamente militante in ogni sua opera, l'autore di Black Panther (2018) dopo aver messo a nudo le contraddizioni e iniquità cui va incontro la comunità afroamericana dal momento stesso della sua nascita tenta un'azione ben più sovversiva, ovvero filmare il suo riscatto nei confronti degli oppressori tramite l'appropriazione di quegli spazi che gli sono sempre stati negati. Protagonisti di tale operazioni sono i fratelli Moore, che, dopo aver conosciuto le condizioni tipiche della vita degli uomini di colore nel profondo sud, tentano una scalata sociale attraverso i sentieri più oscuri dell'American Dream, in quella malavita di Chicago che, pur trovandosi evidentemente al di là dei confini della legge, resta comunque a esclusivo appannaggio dei bianchi. Allo stesso modo denaro e potere, il connubio che muove le fila del mondo, come spiegato in una scena anche da Smoke, è sempre stato esclusivo dei colonizzatori, persino nelle sue implicazioni più superficiali e apparentemente innocue (divertimento, abbigliamento, automobili ecc.). Per quanto moralmente esecrabili, i due gangster rappresentano uno dei tanti modi in cui la classe dominata può ribaltare i rapporti di forza, mettendo in crisi quelle convenzioni che tengono ai margini dei centri di potere, perfino culturali, il gruppo di outsider, esattamente come accadeva ad altri personaggi di Coogler, dal supereroe africano T'Challa al pugile di colore che rivive il mito di Rocky Adonis. I generi popolari e gli eroi che li popolano non devono più essere WASP, bensì un territorio franco per permettere anche ai giovani di colore di aspirare alle vette del proprio immaginario e, quando questo non accade, ecco allora che qualcuno si rifugia nel lato oscuro della luna, quello degli antieroi, dei fuorilegge che dominano un periodo storico in cui è ancora il più forte a determinare il destino della collettività, in contiguità con il Far West.


Sinners potrebbe "accontentarsi" di trasmigrare il mito dei vari Dillinger, Butch Cassidy e Sundance Kid verso la popolazione nera e invece punta più in alto. La svolta horror nella seconda metà della pellicola, ad esempio, a prima vista crea una versione alternativa della dicotomia bianchi buoni/indiani cattivi del western classico, dove i vampiri sono ovviamente di origini anglosassoni e collusi con il Klan, eppure nel corso dello snervante assedio questi ultimi mostrano una complessità interpretativa ben lontana dalla manichea divisione tra buoni e cattivi. Nelle parole e nelle azioni di Remmick e di coloro che vengono morsi emerge una idea comunitaria allettante nella sua distanza da qualunque discriminazione etnica, per non parlare della prospettiva dell'immortalità, che però, al contempo, nella sua intrinseca violenza e limitazione in molti di quegli aspetti che rendono così speciale l'esperienza umana (si pensi alla possibilità di ammirare il sole) non può non far pensare ai vacui propositi di uguaglianza di cui si frega la contemporaneità, teoricamente priva di discriminazioni per legge scritta e morale, ma di fatto fondata proprio su una élite che detiene il potere e una massa sempre più uniforme che si limita a sopravvivere alla sua ombra. Ecco perché persino il tanto vitale e ottimista Stack, in una delle sequenze conclusive, rimpiange amaramente la prima parte della giornata inaugurale del juke joint. Umanità e libertà non potranno mai essere slegate, per cui l'unico potere in grado di donare un assaggio reale di entrambe per un popolo sottomesso da secoli è quello dell'arte, in particolare della musica, che, al di là delle notevoli evoluzioni subite con gli innumerevoli ricambi generazionali, simboleggia nel migliore dei modi la ricchezza di tale popolo, il suo lancinante grido di autoaffermazione e le possibilità espressive di qualunque forma artistica. Se siete tra i detrattori de I peccatori provate a dare un'altra occhiata al piano sequenza del ballo extradimensionale, uno di quei momenti che ci ricorda perché amiamo il cinema e ne abbiamo così disperatamente bisogno.



sabato 12 luglio 2025

SUPERMAN: LA PERVERSIONE DELLA LEGGEREZZA

Siamo nel 2025, i fumetti non sono esattamente un medium in voga da almeno un paio di generazioni, neanche il cinema se la passa tanto meglio eppure Superman a quasi cento anni dalla sua nascita continua a vivere nella memoria collettiva e, dunque, risulta ridondante dover spiegare chi sia. La stessa idea è passata per la testa (giustamente) anche di James Gunn, tra i pochi nomi dell'attuale panorama hollywoodiano a sbagliare davvero di rado un colpo, ad attirare gli spettatori come o persino più di un divo davanti alla macchina da presa. Dopo essere salito alla ribalta all'interno del Marvel Cinematic Universe il cineasta statunitense è divenuto CEO di DC Studios, per il quale però non si limita a coordinare il più ampio progetto artistico crossmediale, al punto da scegliere di mettere sulle proprie spalle un onore e onere da far tremare i polsi, quello di scrivere e dirigere il reboot del primo supereroe. Ereditando il timone lasciato suo malgrado dall'amico di lunga data Zack Snyder, l'autore di Guardiani della Galassia (Guardians of the Galaxy, James Gunn, 2014) proprio in questi giorni porta nelle sale di tutto il mondo il suo Superman, che nel momento in cui vi scrivo sta riscontrando consensi quasi unanimi da parte della critica, mentre più divisiva appare la ricezione da parte del pubblico, com'è anche ormai prassi per una proprietà intellettuale così famosa e con un fandom tanto vasto, nel bene e purtroppo nel male.


Evitando di ripercorrere le origini del protagonista per l'ennesima volta, il film mostra Superman (David Corenswet) nel suo terzo anno di attività da eroe, alle prese però con le prime grandi difficoltà all'interno di essa, in particolare dopo una deludente sconfitta subita da Ultraman, un potente e misterioso metaumano comandato da Lex Luthor (Nicholas Hoult), intelligentissimo magnate della tecnologia che odia a morte il kryptoniano. Oltre alla suddetta disfatta fisica contro lo sgherro del villain, l'Uomo d'acciaio è costretto ad affrontare ulteriori difficoltà, in primis di tipo emotivo-psicologico, come i litigi a causa di diverse vedute con la compagna Lois Lane (Rachel Brosnahan), le accuse pubbliche di aver agito arbitrariamente in politica estera difendendo il paese del Jarhanpur dall'invasione della vicina Boravia, fino alla scoperta, ovviamente causata da una delle machiavelliche trame di Luthor, di una parte sconosciuta del messaggio lasciatogli dai suoi genitori biologici che lo esorta a conquistare la Terra.


Quando un creativo si approccia a un personaggio dall'evidente caratura mitologica come Superman le possibilità, così come le insidie sono infinite: molto è stato già detto, vista anche la moltitudine di media che hanno adattato il fumetto originale, ma al tempo stesso l'eroe permette a qualunque autore di poterlo maneggiare e plasmare a seconda della propria sensibilità, senza perdere l'essenza di ciò che lo rende riconoscibile. In virtù di questo Gunn opta per una lettura che non rinnega assolutamente il passato più o meno vicino dell'eroe, non soltanto per le citazioni dirette, come ad esempio il riarrangiamento dell'iconico tema musicale composto da John Williams nel 1978, ma anche per i tanti spunti tematici passati che continuano a risuonare nel mondo contemporaneo. Si pensi, tra le tante, alle implicazioni politiche delle azioni del protagonista, già affrontate decenni fa da Frank Miller su carta ma ancor di più da Snyder in Batman v Superman: Dawn of Justice (2016), dove, in maniera analoga, Superman viene accusato di non rispettare la legislazione nazionale e internazionale, tanto da venire posto dinanzi alla pubblica accusa alla stregua di un terrorista. Ciò non significa che la pellicola viva nel mash-up di un passato glorioso, anzi, in pieno rispetto dell'idea di cinema professata a più riprese da Gunn, la conoscenza di ciò che è stato diventa strumento per donare maggiore forza all'esplorazione di ciò che più appassiona l'autore, ossia l'umanità del kryptoniano. Spesso i detrattori del personaggio gli rinfacciano una monodimensionalità di caratterizzazione all'insegna di una bontà eccessiva (il famoso paragone con i boyscout), che lo rende poco credibile e affascinante. Il regista a tal proposito decide di partire proprio da questa bontà d'animo e mostrare al pubblico quanto il mondo attuale non solo necessiti di questo spirito in tutti noi, ma che in una società in cui tutti non aspettano altro che mostrare rancore e il proprio lato più meschino nei confronti del prossimo, specie sui social, l'altruismo esasperato, la fiducia incondizionata verso l'umanità, anche nei casi più estremi, rappresentano un atto di ribellione molto, molto punk (citando direttamente la sceneggiatura) a scapito della deriva cui ci sta portando questo modo di agire.


Il Superman di Gunn, dopo essere stato attratto per tutto l'incipit dalla sua parte aliena a discapito di quella umana, una volta tradito dai genitori biologici che aveva mitizzato abbraccia al 300% il versante terrestre della sua essenza, come evidenziato dal ritorno alle origini a Smallville o dalla sequenza conclusiva e, conseguentemente, anche l'enorme fragilità e le tante sconfitte subite da un personaggio teoricamente invincibile rientrano nell'idea di mettere in scena un eroe del popolo, un primo tra pari, riprendendo il concetto di princeps latino. In questo concetto però, a mio parere risiede una delle delusioni legate al lungometraggio. Per quanto la semplicità sia di per sé un valore nobile e degno di essere ostentato e difeso a oltranza, spesso nell'arte schematizzare sottrae il fascino dell'incertezza, della domanda sulla facile risposta, della riflessione a discapito della cieca accettazione. La scelta pienamente autoriale di privare l'eroe di Metropolis di quella dicotomia tra uomo e divino, alieno e americano annienta quella dimensione epica intrinseca di un profugo che viaggia attraverso le stelle per unire il meglio di due civiltà, di un messia venuto dallo spazio che sacrifica tutto di sé per il bene di coloro che lo hanno adottato, nonostante le differenze. Certamente anche l'abbandono dell'epica sembra rientrare scientemente nell'ideale di Gunn, rispettabile e anzi degna di ammirazione proprio in quanto lettura propria di un singolo autore del mito, ciononostante sarebbe miope negare quanto faccia male alla fruizione della pellicola il costante diniego del pathos in favore di siparietti comici discutibili e di un'estetica che molto spesso sembra voler confermare i peggiori pregiudizi all'insegna dell'infantilismo con cui i cultori delle distinzioni tra arte alta e arte bassa collocano il fumetto tra la spazzatura culturale. Tra i tanti sprazzi di ricercatezza formale, come nello splendido momento da videoclip che esalta le capacità di Mr. Terrific (Edi Gathegi) o nei campi lunghissimi dedicati al protagonista, spicca purtroppo anche una lacuna di personalità, per cui diventa difficile distinguere l'opera del cineasta nato a St. Louis rispetto a quello di molti altri colleghi attivi nel calderone dei blockbuster contemporanei. Un saliscendi suffragato da tantissimi altri elementi, dalla magica sequenza del bacio tra Clark e Lois a pessimo costume indossato dal supereroe, da un Lex Luthor che riecheggia perfettamente certi leader mondiali e come stiano ingurgitando le risorse di tutti per lisciare il proprio ego passando però attraverso reiterate battute che potrebbero essere utilizzate per spiegare alla perfezione alla generazione Boomer il significato del termine cringe.

Superman, in conclusione, rappresenta un'incoraggiante inizio per il nuovo corso DC, oltre a una visione tanto divertente quanto intelligente anche singolarmente, eppure resta l'amaro in bocca per uno studente che spesso si perde in un bicchiere d'acqua o in quella che Sorrentino definiva perversione della leggerezza in Youth (2015), perché onestamente non se ne può più nel 2025 di un'idea innocua e ridicola del cinecomic, quando Nolan, Reeves, Phillips, Snyder e Gunn stesso in altre occasioni ci hanno dimostrato la vasta gamma di possibilità espressive offerte dal filone. Se un bambino dinanzi ai fucili degli oppressori del proprio paese mostra una bandiera con la S è perché l'Uomo d'acciaio rappresenta degli ideali, delle speranze e un immaginario emotivo che va ben oltre delle sciocche mutande rosse su una tuta da forzuto del circo di inizio Novecento, per cui James smettiamo di dare ragione ai conservatori della critica cinematografica e non solo. Grazie.