sabato 31 dicembre 2016

TOKYO FIST: DOLORE FISICO E VIOLENZA PER TORNARE A VIVERE

Dopo aver brevemente proposto alla vostra attenzione Nightmare Detective con un viaggio a ritroso nel tempo all'interno della cinematografia di Shinya Tsukamoto mi occupo di uno dei film maggiormente noti, quel Tokyo Fist arrivato nelle sale nel 1995 e che ha rappresentato la vera e propria conferma del talento del proprio autore anche al di là della saga, allora composta dai primi due capitoli, su Tetsuo (Testuo, 1989; Testuo II: Body Hammer, 1992). Come per la maggior parte delle proprie opere anche qui il cineasta giapponese ne risulta autore a trecentosessanta gradi dal momento che ne cura regia, soggetto, sceneggiatura, produzione, montaggio, scenografia, fotografia e recita il ruolo del personaggio principale.

La trama ruota attorno al triangolo amoroso che viene a crearsi tra Tsuda (Tsukamoto), un tipico colletto bianco di Tokyo stremato da una vita fatta solo lavoro e routine, la sua compagna Hizuru (Kahori Fujii), donna tutta dedita alla casa come da tradizione della società patriarcale, e l'ex amico dei tempi del liceo di Tsuda Kojima (interpretato non a caso da Koji Tsukamoto, fratello del director), un pugile estremamente violento ma anche molto fragile emotivamente e mentalmente. Il ritorno nella vita del protagonista del suo vecchio compagno di scuola e le sue avances alla fidanzata portano il rapporto d'amore a fare finalmente i conti con il suo stato di stallo e in pratica a disintegrarsi, tanto che la donna decide di andare a vivere con l'amante, mentre Tsuda, dopo aver subito un potente pugno dal rivale, si iscrive allo stesso club di pugilato dove si allena l'uomo che odia pur di diventare abbastanza forte da affrontarlo e ammazzarlo. Nel frattempo Hizuru cambia completamente personalità, come dimostra la sua mania per tatuaggi e altre body modification sempre più estreme.

Per quanto alcuni elementi in comune siano innegabili, così come alcune ispirazioni reciproche, è bene chiarire subito che Tokyo Fist non è Fight Club (David Fincher, 1999) in salsa Cronenberg (influenza mai negata dal cineasta nipponico ma niente più) e a sua volta la pellicola tratta dall'omonimo romanzo scritto da Chuck Palahniuk non può essere definita una scopiazzatura o una versione americana del film in analisi, piuttosto si può notare come tre artisti dalla grandissima sensibilità verso le trasformazione che l'essere umano ha subito nella società contemporanea abbiano espresso risposte simili e tutt'altro che banali a temi antropologico/filosofici di non facile soluzione. Proprio come Tyler Durden anche il personaggio interpretato da Tsukamoto vive una vita fatta solo di un lavoro che in realtà lo sfinisce e basta, non fa che vagare senza neanche rendersene conto per le strade asfissianti di una grande metropoli e non sembra provare alcuna emozione. Persino il rapporto con la bellissima compagna si riduce a tristi serate sul divano davanti alla tv a lamentarsi di presunti dolori fisici che, guarda caso, svaniranno non appena l'uomo cambierà stile di vita. Ancora come il disturbato impiegato del lungometraggio americano la riscoperta di cosa voglia dire vivere davvero, con intensità ed emozioni reali avviene solamente tramite la lotta, la violenza: in Fight Club l'iniziazione avviene con la scazzottata immaginaria, in Tokyo Fist attraverso il terribile gancio inferto da Kojima.

Esaurita la doverosa parentesi sulle chiacchierate somiglianze risulta fondamentale soffermarsi sul versante estetico dell'opera dell'autore di Tetsuo, del quale contiene praticamente tutti i caratteri che ne evidenziano l'originalità del proprio percorso formale, come l'uso di filtri colorati nella fotografia legati a precise scelte poetiche (in questo caso la dialettica tra bene e male), il montaggio rapidissimo unito a movimenti della mdp frenetici al limite del caotico, gli effetti grandguignoleschi estremi o la colonna musica industrial. Fondamentale risulta anche l'ambientazione, ossia una Tokyo mostrata nel suo intreccio indistricabile di cemento e metallo attraverso riprese claustrofobiche che, combinate con il filtro blu simboleggiante il male, rafforzano in maniera evidente il tema della disumanizzazione dell'uomo all'interno delle megalopoli odierne, le quali sono diventate ormai veri e propri gironi infernali popolati da fantasmi a cui è stata risucchiata la forza vitale. Come sfuggire a questo processo distruttivo? Qual è la pars construens in questo attacco sferrato dal regista? Ricollegandosi al proprio esordio ancora una volta per Tsukamoto soltanto il dolore fisico e la violenza, subiti o inferti che siano, riescono riportare alla propria condizione epistemologica l'uomo, come se soltanto nel momento della sofferenza inflitta alla carne si risvegliasse dal torpore provocato dalla società contemporanea. Ancora una volta il veicolo attraverso cui avviene la scoperta del potere salvifico del dolore sembra essere il metallo, come dimostrano le body modification a cui si sottopone il personaggio interpretato da Kahori Fujii che, come una novella Tetsuo, evolve considerevolmente nel corso del lungometraggio attraverso la commistione di organico e sintetico fino a diventare la vera protagonista della vicenda, il sole attorno al quale ruotano due figure maschili forti soltanto all'apparenza e che invece non fanno che cedere alle proprie fragilità al cospetto della nuova fiamma che nella donna desiderata. Chiaramente la presenza di temi industral non fanno che sottolineare l'importanza della dialettica organico/sintetico all'interno della pellicola.

In conclusione Tokyo Fist rappresenta un film di non facile digeribilità, sia intellettuale che grafica ma di grande impatto, un'esperienza che difficilmente si dimentica, cosa che dovrebbe rientrare negli obiettivi di qualsiasi opera d'arte. Fatemi sapere la vostra opinione.

venerdì 30 dicembre 2016

NIGHTMARE DETECTIVE: QUANDO L'INCUBO DIVENTA LA REALTÀ

Reduce dai numerosi consensi ricevuti per i precedenti A Snake of June (2002) e Vital (2004) il visionario cineasta Shinya Tsukamoto presenta in concorso all'edizione del 2006 della Festa del cinema di Roma Nightmare Detective, per il quale si occupa anche del soggetto, della sceneggiatura, del montaggio, della fotografia e persino della scenografia oltra a interpretare il ruolo di quello che potremmo definire il villain del film. In questo caso il condizionale resta d'obbligo a causa della difficile catalogazione del lungometraggio come semplice horror o thriller in quanto, sia a livello stilistico che narrativo, sotto la corazza da prodotto di genere presenta moltissimi temi e motivi cari al regista nipponico.

Protagonisti di Nightmare Detective sono la giovane e bella ispettrice Keiko (interpretata non a caso dalla popstar Hitomi) e Kagenuma, un giovane dal passato estremamente tormentato ma anche capace di entrare nei sogni altrui e di leggere nella mente. I due, malgrado le resistenze del ragazzo, sono costretti a collaborare per fermare un misterioso individuo noto come 0 (Tsukamoto stesso) in grado di portare al suicidio chiunque lo contatti telefonicamente attraverso degli incubi.

Non accenno ad altro sui risvolti narrativi vista la precedentemente accennata corazza da thriller della pellicola che quindi non mi consente spoiler, inoltre non credo sia così interessante la risoluzione della trama investigativa, a differenza del lato visuale e dei suoi risvolti etico-sociali. Come da abitudine per l'autore di Tetsuo (1989) la macchina da presa si muove frenetica fino a divenire quasi schizofrenica nella concitata sequenza tra incubo e realtà in cui avviene lo scontro finale tra i protagonisti e 0, mentre la fotografia è contraddistinta da una tinta blu per il mondo empirico e una tendente al bianco e nero per le sequenze oniriche, soprattutto quando a sognare è qualcuno tendente al suicidio. Suicidio che è anche il motivo che maggiormente ricorre per tutta la durata della pellicola, una scelta che diegeticamente appare più imposta da una volontà aliena ma che poeticamente sembra essere l'unica, estrema ancora di salvezza per l'essere umano a un'esistenza ingabbiata, priva di alcun significato come quella a cui la società post-capitalista costringe l'individuo. Ecco che, esattamente come nel precedente Tokyo Fist (1995) che analizzerò a breve, la capitale del sol levante diviene emblema di tale prigione con la sua urbanizzazione opprimente, resa ancor più soffocante dalle inquadratura dal basso verso l'alto e dall'uso quasi fisso del blu per rappresentarla, ma questa volta per Tsukamoto neanche la violenza o il dolore bastano a riappropriare dei caratteri propri l'umana esistenza, soltanto la morte può, specie in un mondo che l'ha resa un taboo da esorcizzare in qualsiasi maniera.

Sebbene Nightmare Detective non possa dirsi l'opera più riuscita del suo estroso autore resta un'esperienza visivamente di grande impatto e anche filosoficamente estremamente potente nell'affermare, anche sottilmente, la poetica del cineasta giapponese.

giovedì 29 dicembre 2016

INFRAMAN L'ALTRA DIMENSIONE: IL PRIMO SUPEREROE MADE IN CHINA

Scusate ancora se vi propino prodotti non esattamente all'ultimo grido o i solito noti considerati autoriali dagli studi tradizionali sul cinema ma ritengo che sia molto più importante e interessante tentare di suscitare curiosità su pellicole che ancora non hanno ricevuto molta fortuna accademica o di pubblico, per questo se anche una sola persona dopo aver letto questo post si precipitasse a recuperare il titolo analizzato il mio lavoro potrebbe dirsi soddisfacente.

Messa da parte la piccola iosa sui motivi delle mie ultime scelte il film che vi propongo oggi debutta nelle sale nell'ormai lontano 1975 e si intitola, almeno nella traduzione italiana, Inframan l'altra dimensione, diretto da Hua Shan e prodotto dai ben più noti fratelli Shaw. Nonostante i valori produttivi bassissimi e la scelta di ispirarsi senza alcun remora ai "tokusatsu" (si pensi a quell'Ultraman creato nel 1966 da Eiji Tsuburaya) e non ai personaggi Marvel o Dc la pellicola si rivela non solo la prima di stampo supereroistico girata in Cina ma anche un cult in occidente, soprattutto negli USA dove viene acclamata persino dall'eminente Roger Ebert.
Descrivere la trama di Inframan l'altra dimensione mi sembra piuttosto superfluo dato che ricalca in tutto e per tutto, o quasi, un qualsiasi episodio dei serial televisivi da cui trae ispirazione, ovvero uno schema archetipico in cui una minaccia insormontabile per qualsiasi essere umano sta per avere la meglio sull'intero pianeta fino a quando non interviene il supereroe protagonista con i suoi poteri.

Come ormai sto ripetendo nelle mie ultime analisi ciò che davvero contraddistingue pellicole fortemente di genere come questa sono le scelte stilistiche, gli aspetti visuali. Nonostante i già citati costi di produzione ridotti all'osso la pellicola diretta da Hua Shan cattura immediatamente l'occhio grazie alle coloratissime scenografie, tanto posticce quanto affascinanti dal punto di vista pittorico, così come gli effetti speciali utilizzati per ricreare gli attacchi a base di energia solare del protagonista (chiunque sia appassionato di animazione giapponese avrà immediatamente ricordato le avventura di Haran Banjo e il suo Daitarn 3 create da Yushiyuki Tomino nel 1978 e conclusesi l'anno seguente) per quanto siano risibili da un punto di vista tecnico trovano una loro identità nel mondo pop e sgargiante messo in scena. La ciliegina sulla torta del cult made in Shaw Studios non sarebbe potuta che essere l'implementazione nel genere adottato del fiore all'occhiello della casa, ossia le arti marziali: coreografie e gesti acrobatici contribuiscono sia ad aumentare il carattere fantastico più che fantascientifico del lungometraggio, nonostante la presenza di teorie pseudoscientifiche e dell'immancabile professore geniale, ma anche a distinguere il prodotto dai propri epigoni.

Tirando le somme di questa breve analisi consiglio a tutte le menti maggiormente elastiche di ripescare Inframan, anche solo per rivivere per un'ora e mezza quel periodo dell'infanzia in cui bastavano le gesta di improbabili supereroi dotati di armature colorate e nemici palesemente posticci a far sognare.

mercoledì 28 dicembre 2016

DIABOLIK: IL CINECOMIC SECONDO MARIO BAVA

Nel momento di massima esplosione del fenomeno James Bond la scoppiettante produzione italiana della seconda metà degli anni '60 reagisce attraverso due via: la prima è rappresentata dai film di spionaggio palesemente influenzati dalle avventure di 007 (si veda la mia precedente analisi di Operazione Goldman) mentre l'altra porta numerosi cineasti a cimentarsi con la trasposizione di fumetti di successo dell'epoca a loro volta influenzati dalle piccole appena citate. Si inserisce a pieno titolo in quest'ultimo filone Diabolik, lungometraggio diretto nel 1968 dal genio degli effetti speciali e della fotografia Mario Bava tratto dall'omonimo fumetto ideato dalle sorelle Giussani. Prodotto da Dino De Lauentiis con il budget più consistente nella carriera dell'autore di Terrore nello spazio (1965) il film si rivela un successo modesto al botteghino e soltanto la critica francese si dimostra attenta alle sue qualità che oggi vengono riconosciute in tutto il mondo, soprattutto grazie all'opera di riscoperta accademica avvenuta negli ultimi anni della produzione baviana.

La trama di Diabolik riprende con una certa fedeltà tre albi del fumetto originale unendoli in modo non del tutto riuscito: dopo essere riuscito a beffare per l'ennesima volta l'ispettore Ginko, interpretato dal grande Michel Piccoli, il re del terrore è costretto ad affrontare anche il gangster Valmont per salvare la sua amata Eva per poi scontrarsi nuovamente con il suo storico avversario nel momento in cui il celebre ladro mette in ginocchio l'economia della nazione intera.
Se a livello narrativo la pellicola in analisi scricchiola e mostra il fianco alle numerose critiche ricevute all'uscita nelle sale è importante ricordare quanto questo aspetto sia estremamente subordinato al lato visuale, anche perché molti elementi del film lo avvicinano alla fantascienza, il genere per eccellenza in cui lo stile affossa la narrazione. Lo sprofondamento nel fantascientifico è proprio uno degli ammiccamenti a 007 che il regista lancia al pubblico coevo, che era letteralmente impazzito per le avventure dell'agente segreto tanto da portare De Laurentiis a limitare la verve visiva dell'autore di La maschera del demonio (1960), il quale avrebbe voluto inserire sequenze maggiormente sanguinolente ed erotiche. Il potente produttore italiano stoppò ogni tentativo in questa direzione, sicuramente per motivi di censura ma anche per rendere la figura del ladro in calzamaglia più vicina a quella del gentiluomo Bond, cosa che irritò non poco il regista, il quale avrebbe voluto un protagonista maggiormente rispettoso della propria controparte cartacea.

Nonostante le diatribe durante la produzione il risultato finale ottenuto è un film in tutto e per tutto made in Bava grazie al suo inimitabile lavoro sull'uso del colore intensificato, degli effetti speciali a basso costo ma qualitativamente di altissimo livello e la costruzione di ambienti estremamente evocativi, come ad esempio la base segreta del re del terrore che appare simile a un'astronave. Altro fiore all'occhiello della pellicola sono le musiche composte da Ennio Morricone, ricche di influenze rock proprio come il tema di Bond realizzato da Monty Norman e John Barry, così come l'interpretazione di Michel Piccoli nei panni dell'ispettore Ginko. Per quanto siano stati costantemente oggetto di scherno al momento dell'arrivo nelle sale del lungometraggio anche gli attori protagonisti John Phillip Law e Marisa Mell sono divenuti negli anni delle icone pop, tanto da essere diventati i volti comunemente associati ai personaggi di Diabolik ed Eva Kant. Pop come l'intera estetica dell'opera (sterminate le somiglianze visive con la pop art, il fumetto stesso e il design) ma anche come il riconoscimento mondiale che oggi ha ottenuto grazie alla cinefilia prima e agli studi retrospettivi poi.

In conclusione Diabolik risulta a mio parere imprescindibile per ogni appassionato di cinema di genere, moderno e persino contemporaneo, sia per le qualità intrinseche del prodotto filmico che per il contesto attuale in cui viviamo, caratterizzato dalla continua commistione di media diversi in cui a farla da padrone sono proprio cinema e fumetto, ormai divenuti simbionti da miliardi di dollari di incassi.

martedì 27 dicembre 2016

OPERAZIONE GOLDMAN: NON CHIAMATELO SPAGHETTI BOND

Oggi ho deciso di addentrarmi in un campo minato per la critica cinematografica odierna ma che, secondo me, rappresenta una vera e propria frontiera che aspetta solo di essere esplorata e apprezzata dai cowboy della ricerca nella settima arte: il cinema di genere italiano nei decenni d'oro della produzione nostrana, ovvero tra anni '50 e '70. Nonostante alcune figure facenti parte di tale ambito siano già state riscoperte e rivalutate, soprattutto all'estero in realtà, come dimostrano gli studi su Mario Bava e Dario Argento o quelli su tutto il filone dei cosiddetti "spaghetti western" esiste ancora un intero mondo di prodotti rimasti sepolti dalla miopia di quella critica bloccata sempre e solo sulle ormai arcinote figure autoriali.

Nel mio piccolo cercherò di creare qualche bagliore di luce su un universo purtroppo così buio e la prima fioca fiammella che intendo accendere rischiarerà per voi Operazione Goldman, noto all'estero anche come Lightning Bolt, opera diretta nel 1966 da Antonio Margheriti con lo pseudonimo anglofono Anthony M. Dawson (il solo fatto che i registi di cinema popolare all'epoca dovessero utilizzare stratagemmi simili per aumentare l'appetibilità del proprio lavoro dovrebbe creare interrogativi non da poco sulla mentalità nostrana). Il lungometraggio in questione rappresenta la seconda incursione dell'autore del ciclo Gamma Uno nel genere dello spionaggio visto che nello stesso anno aveva diretto A 077, sfida ai killers e nonostante un certo successo ai botteghini, specie nel mercato internazionale, è stato subito etichettato come una delle tante imitazioni europee dei film di James Bond, cosa che ne ha decretato un oblio presso la stragrande maggioranza del pubblico e non solo.
Protagonista delle vicende narrate è l'agente segreto sempre pronto a sedurre le donne più affascinanti, compresa il proprio capo, della sezione S Harry Sennet il quale si trova coinvolto in una missione per salvare il mondo dai piani del folle Rether, un eccentrico in possesso di una potentissima arma laser con cui intende minacciare tutti i paesi della terra.

Persino una sinossi così concisa rende chiaro come nel cinema di genere italiano la narrazione risulti quasi un pretesto, in questo caso quasi una serie di strizzate d'occhio al pubblico dell'epoca affamato di avventure ai limiti dell'incredibile da parte di una spia divisa tra l'amore per il gentil sesso e quello per il proprio paese. Attenzione, questo non vuol dire, come praticamente tutta la critica dell'epoca e non solo ha prontamente dichiarato, che Operazione Goldman sia semplicemente un calco delle pellicole sull'agente segreto interpretato da Sean Connery mal riuscito a causa di un budget ben più esiguo e attori meno ispirati. Pregiudizi di questo tipo risultano anacronistici quasi quanto l'indifferenza nei confronti di un maestro come Hitchcock prima che la sua figura fosse rivalutata dalla critica di Truffaut e rappresentano uno dei motivi principali che hanno portato a nascondere in un enorme cassetto tanto cinema di qualità che negli ultimi anni comincia a rivendicare il proprio posto nel mondo.
Essendo un'opera con chiari intenti commerciali il film girato da Margheriti offre agli spettatori una superficie fatta di elementi familiari e di assoluto richiamo, come ad esempio la figura dell'agente segreto donnaiolo o l'antagonista che resta senza un volto per gran parte del film, per poi lavorare in maniera personalissima sullo stile, il lato di maggior interesse artistico di tutto il cinema popolare di qualità. Nonostante i limiti economici il cineasta romano esibisce molti dei tratti caratteristici della propria filmografia, a cominciare dagli elementi fantascientifici come l'arma laser di distruzione di massa o la base segreta sul fondo dell'oceano, e dall'attenzione per il colore in cui spicca un uso ripetuto del rosso, reso ancora più evidente dal Technicolor e dal Techniscope. Proprio le ultime sequenze della pellicola, quelle ambientate nel covo sottomarino, risultano ancora oggi estremamente affascinanti da un punto di vista visivo e persino le numerose esplosioni o la colata lavica finale nonostante appaiano evidentemente ottenute attraverso dei modellini, in tipico stile Mario Bava, mostrano l'inventiva di un autore che ha ispirato persino Star Wars di George Lucas (1977).

Il ricorso al found footage per la partenza del missile o il riutilizzo di inquadrature nella spettacolare sequenza in auto sono altre prerogative della fantascienza dell'epoca che contribuiscono a rendere il lungometraggio molto diverso dal presunto capostipite 007 e anzi forse hanno ispirato alcune delle più visionarie missioni della spia a servizio di sua maestà come Moonraker (Lewis Gilbert, 1979). Non mancano neanche elementi tipici dell'horror gotico come gli scheletri delle persone prima ibernate e poi uccise da Rether.
Certamente la prova attoriale del protagonista Antony Elsley non fa gridare al miracolo mentre degne di nota sono il fascino e l'indipendenza nei confronti della controparte maschile di Dyana Lorys e il ritratto dell'antagonista à la Dr. No creato da Folco Lulli.
Tirando le somme non voglio e non pretendo di spacciare Operazione Goldman per un capolavoro che cambia la storia del cinema ma resta un prodotto ricco di spunti interessanti che merita di essere riscoperto, insomma dategli una possibilità e difficilmente ve ne pentirete.

venerdì 25 novembre 2016

ANT-MAN: L'IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI

In seguito a una gestazione iniziata addirittura prima che nascesse l'ormai miliardario Marvel Cinematic Universe (MCU) nel 2015 è giunto finalmente nelle sale Ant-Man, diretto dal mestierante Peyton Reed (Yes Man, 2008). Le cause del lunghissimo lasso temporale impiegato per dare alla luce la pellicola sono numerosi e in fondo non credo che siano poi così interessanti come molti credono; certamente aver perso per strada un regista di talento, oltre che ideatore dell'intera operazione, come Edgar Wright (Shaun of the Dead, 2004; Hot Fuzz, 2007) che sembrava nato per dirigere questa pellicola è stato un colpo non facile da incassare per la riuscita di Ant-Man, così come l'obbligo di adattarlo alle direttive artistiche e narrative dell'universo gestito da Kevin Feige non può non aver fatto perdere alla sceneggiatura parte della sua originalità ma ciò che lo spettatore si trova a poter vedere oggi è un film nonostante tutte queste impervie assolutamente interessante e dalla spiccata personalità.

La pellicola in analisi si rivela essere una origin story il cui protagonista, interpretato con una verve irresistibile da Paul Rudd, è tutt'altro che un eroe convenzionale; Scott Lang è infatti un ladro appena uscito dal carcere e che, nonostante il tanto decantato master in ingegneria, incapace di trovare un lavoro con cui pagare gli alimenti alla ex moglie e alla amata figlia. L'occasione per potersi finalmente riscattare e diventare il padre ideale per la sua bambina gli viene data dalla tuta in grado di miniaturizzarsi inventata dall'ex scienziato dello S.H.I.E.L.D. Hank Pym (Michael Douglas), il quale affida all'ex galeotto la sua preziosa creazione per poter impedire a Darren Cross (Corey Stoll), una volta suo allievo, di vendere agli spietati uomini dell'HYDRA (un piccolo ripasso delle puntate precedenti dell'MCU è richiesto anche in questo caso) la tecnologia alla base della tuta stessa. 
A una lettura superficiale potrebbe sembrare folle la decisione della mente (definire Feige un semplice produttore è molto riduttivo) dietro tutti lungometraggi Marvel di affidare alle avventure di uno dei meno noti tra i supereroi a disposizione la chiusura della "fase due", soprattutto in seguito alle critiche ricevute per lo più proprio dai fan nei confronti del film più costoso e importante della suddetta fase, il secondo me ingiustamente bistrattato Avengers: Age of Ultron (Joss Whedon, 2015). Persino nei piani iniziali della produzione stessa Ant-Man doveva essere parte della "terza fase", ma con l'abilità dimostrata finora dal deus ex machina dell'MCU questi ha compiuto una drastica virata proprio per fronteggiare le critiche piovute sulla "fase due" (escludendo il capolavoro Captain America: The Winter Soldier diretto da Anthony e Joe Russo nel 2014) chiudendola con un prodotto agli antipodi del gigante d'argilla che si è rivelato essere il secondo capitolo dedicato agli Avengers, come a voler ammettere che era stata calcata troppo la mano e che una ventata di aria nuova era fin troppo necessaria per non perdere la fedeltà del pubblico.

A questo punto la domanda che sorge spontanea è se Ant-Man rappresenti davvero e con una certa qualità la redenzione per i cinecomics Marvel. Proprio nella parola redenzione si cela al risposta a tale quesito poiché uno dei temi principali dell'opera di Reed è proprio il riscatto, quell'occasione che capita raramente nella vita a chi da sempre è stato un perdente, un eterno secondo e proprio per questo quasi mai viene buttata nel cestino dei rifiuti. Sommerso da tanti altri film più grandi, più spettacolari e con protagonisti ben più famosi il lungometraggio che oggi vi propongo non avrebbe mai potuto spiccare il volo se non in questa congiunzione astrale così particolare, proprio come il protagonista Scott Lang non avrebbe mai avuto modo di risvegliare il buono dentro di sé e ritrovare la propria famiglia senza un evento tanto impossibile come ricevere una tuta in grado di rimpicciolirlo per salvare il mondo e così neanche Hank avrebbe mai potuto fare pace con sua figlia e superare il senso di colpa per la morte di sua moglie senza Scott. Alla base di questo gioco a metà tra realtà e diegesi basato sulla redenzione si trova ciò che ho citato nel titolo del post in corso, ovvero l'importanza dell'essere piccoli: per troppo tempo il gigantismo, la volontà di creare qualcosa di sempre più grande, più costoso, più serio, insomma la ricerca del macro a tutti costi nel mondo del cinema basato sui fumetti ha continuato a dettare legge fino ad esasperarne i toni, divenuti esagerati nella propria ostentazione. Il film con Paul Rudd rappresenta invece la rivincita del mini, la rivalsa dei budget più contenuti, dei toni smorzati, dell'autoironia che ormai era andata persa. Sequenze come la lotta tra l'uomo formica protagonista e Falcon (Anthony Mackie) e soprattutto la battaglia finale tra l'eroe e Cross in dimensioni minuscole in mezzo ai giocattoli della figlia di Scott rappresentano delle esilaranti ma al tempo stesso inequivocabili accuse parodie degli epici scontri tra supereroi più blasonati che avevano ormai raggiunto toni che sono più congeniali a Dragon Ball Z (Akira Toriyama, 1989-1996) che non ai cinecomic.

Nel mettere in ridicolo le altre pellicole tratte da fumetti americani e nell'affrontare il tema della redenzione delle seconde scelte la pellicola diretta dall'autore di Yes Man si concede alcune sequenze visivamente straordinarie (si pensi al combattimenti finale appena citato) e inquadrature molto originali, come ad esempio le soggettive del protagonista in miniatura o quelle delle sue compagne formiche, al netto però di una sceneggiatura ricca di alti e bassi, rappresentati soprattutto da un ottimo humour e alcuni personaggi ben scritti oscurati da sequenze emotive piatte e uno svolgimento dell'intreccio piuttosto modesto. La colonna musica non spicca mai purtroppo, nonostante si basi proprio su una canzone riprodotta per caso una delle sequenze visivamente meglio riuscite (mi riferisco a quella che coinvolge i The Cure), mentre il cast spesso sopperisce alle mancanze di inventiva registica, come dimostra l'estro con cui interpreta un ladruncolo tutt'altro che sveglio Michael Pena.
In conclusione Ant-Man probabilmente non si è rivelato il film geniale che sarebbe potuto essere nelle mani di Edgar Wright ma allo stato attuale rappresenta un ottimo prodotto di intrattenimento che ben si rapporta con i propri tempi, mica male al giorno d'oggi. Fatemi sapere cosa ne pensate.


giovedì 17 novembre 2016

OPERAZIONE U.N.C.L.E. : LA RIVOLUZIONE VINTAGE DELLA SPY STORY

Al 2015 risale l'ultima (per ora) fatica del celebre cineasta britannico Guy Ritchie (Snatch, 2000; Sherlock Holmes, 2009), una sorta di origin story o prequel dell'omonimo serial televisivo (Sam Rolfe, Norman Felton, 1964-68): The Man from U.N.C.L.E, ribattezzato in Italia Operazione U.N.C.L.E. Scritto, diretto e prodotto dal regista simbolo del pulp inglese anni 90 la pellicola arriva nelle sale a pochi mesi dal successo strepitoso di un'altra spy story ricca di humour e diretta, tra l'altro, da un autore dalla cifra stilistica sopra le righe proprio come lui; mi riferisco a Kingsmen: The Secret Service (Matthew Vaughn), il cui riscontro estremamente positivo ha creato una dose di indifferenza nei confronti di Operazione U.N.C.L.E. decretandone così una solamente discreta accoglienza critica ma soprattutto una perdita notevole di appeal per il pubblico, fattore che molto probabilmente impedirà la realizzazione di un sequel auspicato invece dall'epilogo della pellicola stessa.

La trama del film in analisi si rivela un topos del cinema spionistico, ovvero l'ennesimo tentativo da parte di agenti segreti disposti a superare qualsiasi limite legale e persino umano di sventare un piano che mette a rischio l'intero pianeta. A distinguere l'opera di Guy Ritchie già da un punto di vista puramente narrativo è la scelta di ambientare il tutto nei primi anni 60, nel pieno della guerra fredda e per di più le spie protagoniste sono le più improbabili che potessero collaborare per la salvezza dell'umanità: un ex (neanche tanto) ladro di opere d'arte con la mania per gli oggetti raffinati e le donne e ora agente della CIA (soltanto per evitare il carcere) interpretato da un carismatico Henry Cavill; un agente del KGB fisicamente sovrumano ma fin troppo preda delle proprie emozioni (Armie Hammer) e una meccanica di Berlino Est che segretamente lavora per il governo britannico portata sullo schermo da una Alicia Vikander che riesce quasi a rubare del tutto la scena persino ai suoi due compagni d'avventura. Se a questo si aggiunge un villain mai visto come la diabolica imprenditrice italiana Victoria Vinciguerra (Elizabeth Debicki), l'ambientazione spostata per gran parte dei 116 minuti in alcuni dei luoghi più splendidi del nostro paese e personaggi minori ma che
restano impressi come il torturatore nazista e il capo del servizio segreto britannico impersonato con perfetto charme da Hugh Grant capirete di trovarvi di fronte a una variazione sui canoni del genere non indifferente.

Messe in tavola le carte che riguardano le vicende narrate appare evidente la volontà di Guy Ritchie di imprimere il suo riconoscibilissimo marchio all'ennesimo sottogenere del cinema d'azione con cui si cimenta; Operazione U.N.C.L.E. infatti riprende molti dei più noti topoi del filone a cui appartiene ma rileggendoli attraverso molteplici chiavi di lettura, tutte tipiche dello stile del suo autore. Il filtro dell'autoironia è chiaramente quello che traspare per primo grazie alla sequenza d'apertura: l'agente Napoleon Solo (Henry Cavill) ha certamente i tratti del superuomo in stile James Bond ma già nell'inseguimento a Berlino est dimostra di essere tutt'altro che infallibile e si ritrova quasi sempre in situazioni pericolosa a causa dei propri "vizietti" e dell'estrema fiducia nelle sue capacità. Allo stesso modo il burbero russo di Armie Hammer non solo parodia molte delle caratteristiche attribuite ai sovietici da tanto cinema mainstream (si pensi all'Ivan Drago presente nel Rocky IV diretto da Sylvester Stallone nel 1985) ma quando si trova a dover fare squadra con il collega statunitense innesca degli sketch comici tanto esilaranti quanto taglienti verso la rivalità USA/URSS.

Insomma la pellicola è in realtà un buddy movie che fa il verso alla serietà del cinema d'azione passato come molti prodotti postmoderni degli ultimi anni? Assolutamente no, c'è molto di più in gioco. Come ho accennato precedentemente un'altra lente attraverso cui il regista di Snatch rilegge il genere spionistico è il preziosismo dell'ambientazione, in questo caso una Europa anni 60 divisa tra due poli opposti:da una parte lo squallore e l'angoscia che regna nella Berlino scissa mentre dall'altra si trova il benessere e il glamour dell'Italia del boom economico, della "dolce vita". Proprio "glamour" sembra essere la parola chiave alla base della ricostruzione dell'epoca da parte del cineasta inglese, il quale non si limita a renderla facilmente riconoscibile (l'inserimento nella colonna musica di brani come Il mio regno di Tenco ad esempio è non solo una finezza storica ma risveglia la nostalgia per quel decennio in qualsiasi spettatore) ma la rilegge appunto attraverso un'ottica "vintage" che avvicina l'estetica del lungometraggio a quella di uno spot di profumi o di alcolici raffinati che mescolata al montaggio estremamente personale tipico di Ritchie crea un cocktail ricco dei più disparati sapori: cinema, serial, pubblicità e persino fumetto. Interessantissime risultano per l'appunto le scelte operate in fase di montaggio, che invece di percorrere la ormai battutissima strada dello stile da videoclip opera per ellissi e continui balzi temporali; tutti i momenti di transizione vengono tagliati di netto e persino sequenze che dovrebbero costituire il cuore del genere, come l'invasione della base segreta dei Vinciguerra, vengono ridotte all'osso o addirittura raccontate in poche rapide inquadrature soltanto dopo averne già mostrato le conseguenze.

In conclusione Operazione U.N.C.L.E. risulta una rilettura pienamente autoriale di un genere che ha saputo trovare numerose conversioni con il cinema contemporaneo ma che mai come in questa opera, a mio avviso, aveva omaggiato un glorioso passato con una visione artistica pienamente attuale.

giovedì 10 novembre 2016

CHE VUOI CHE SIA: L'ITALIA DELLA CRISI ECONOMICA E MORALE

A un anno dal grande successo di Noi e la Giulia (2015) Edoardo Leo torna a dirigere e interpretare un nuovo lungometraggio e anche stavolta non delude con Che vuoi che sia, arrivato nelle sale ieri. Fedele alla propria direzione artistica da director l'interprete di Smetto quando voglio (Sydney Sibilla, 2014) propone ancora una volta una commedia venata di riflessioni molto amare su vizi e brutture dell'Italia odierna ma in questo caso dando ancor più spazio alla venatura critica rispetto al lato maggiormente guascone, nonostante questo aspetto rimanga e diverta molto.

Protagonisti della pellicola in analisi sono Claudio (lo stesso Edoardo Leo) e Anna (Anna Foglietta), una coppia alle prese con gli effetti della crisi economica nonostante la voglia di lavorare e far valere i propri studi. Lui è un ingegnere informatico che si arrangia con qualche lavoretto saltuario ma che ha in mente la progettazione di una app virtualmente di grande appeal commerciale mentre lei lavora come docente a tempo determinato. Claudio espone il proprio progetto a un finanziatore (un ragazzino viziato proprietario di una non chiara società informatica che non può non essere una parodia del creatore di un certo social network...) il quale a sorpresa gli "consiglia" di esporre ila sua app in un sito di crowdfunding in modo da arrivare a raccogliere almeno da ventimila euro, la cifra minima per far decidere al giovane di investire direttamente. A conferma del periodo nero vissuto dalla coppia di precari la app non ha successo sul sito di raccolta fondi e così una notte, in seguito a una sbronza, girano e postano sulla stessa pagina web un video in cui prendono in giro gli italiani rei di usare internet solo per la pornografia e, per scherzo, affermano che qualora raggiungessero la cifra inizialmente pattuita i due girerebbero e posterebbero un video porno. Una bravata quando finisce in pasto alla rete non resta mai tale e quindi finisce per rivoluzionare la vita di entrambi.

Fin da questa breve sinossi appare chiaro il target a cui mira il feroce attacco di Edoardo Leo: l'ossessione per i social network come nuova frontiera del conformismo tutto italico che trasforma i singoli individui pensanti in una massa indistinta che segue la stessa moda, di qualsiasi tipo essa sia e per quanto meschina possa essere. Ciò che le vicende tragicomiche (e fin troppo reali se si pensa alla vicenda di Tiziana Cantone) vissute da Claudio e Anna dimostrano è quanto la crisi economica, da cui il nostro paese non riesce proprio a riemergere, sia diventata ben più grave dal punto di vista morale piuttosto che economico; in fondo vengono mostrati numerosi personaggi che sperperano il denaro per le ragioni più assurde (emblematico quanto esilarante il dialogo tra l'ingegnere interpretato dal regista e un suo cliente a cui ripara continuamente il pc a causa della sua fissazione per i siti hard più spinti e persino a pagamento), quasi a dimostrare un ipotetica proporzione inversa tra serietà/preparazione professionale e benessere economico. La crisi a quanto pare non colpisce indiscriminatamente, bensì attacca e affonda coloro che credono ancora nei sentimenti e nella dignità personale, mentre non scalfisce chi svende il proprio corpo e la propria mente per entrare a far parte della massa informe schiava dei social network. 
A mio avviso il video pornografico diventa per il cineasta romano un espediente, un pretesto rumoroso per mostrare questa ossessione che è in realtà ben più grave di quella per per gli stessi materiali hard e provarlo è la bellissima sequenza, una delle migliori dal punto di vista estetico, in cui lo zio di Anna (uno straordinario Rocco Papaleo) fa una passeggiata mentre i protagonisti stanno girando il famoso video in streaming e nota, con vero e proprio terrore, che tutte le persone che incontra, di qualsiasi età, sesso o estrazione sociale sono immobili a guardare su qualsivoglia schermo il suddetto evento virale. Solitamente la pornografia online è fruita soprattutto dal sesso maschile e certamente non in luoghi pubblici (il senso del pudore scaturito dalle influenze cattoliche nella nostra cultura spesso neanche fa ammettere alle persone di praticare la masturbazione) eppure basta che un del materiale sessualmente esplicito diventi una moda del web perché persino la più castigata delle signore o delle ragazzine si metta a guardarlo senza vergogna in una piazza. Pazzesco ma fin troppo vero.

Come se non bastasse l'attualità delle riflessioni appena esposte Che vuoi che sia si avvale di una regia minimalista ma capace anche di alcuni momenti estremamente raffinati, come ad esempio il piano sequenza a inizio film che mostra la routine mattutina dei protagonisti o alla sequenza in discoteca, oltre che di attori in grande forma, soprattutto Rocco Papaleo che, parafrasando un leitmotiv di Claudio, negli Stati Uniti avrebbe ricevuto apprezzamenti infinitamente maggiori, magari anche una candidatura all'Oscar (perdonatemi la piccola provocazione).
Tirando le somme dell'analisi dell'ultimo lungometraggio partorito dal director di Buongiorno papà ciò che veramente lo rende interessante ed estremamente consigliato è la capacità di unire tutte le caratteristiche appena descritte all'interno di una struttura da commedia popolare che permette di riflettere a spettatori di qualsiasi caratura intellettuale e per di più di farlo con un divertimento mai banale. 

mercoledì 9 novembre 2016

RANGO: UN CAMALEONTE ALLA RICERCA DELLA PROPRIA STORIA

Per la prima volta in questo spazio virtuale ho deciso di occuparmi di un film di animazione (sfera della quale in realtà mi interesso assiduamente) ma nel farlo ho optato per un caso estremamente singolare: Rango, pellicola del 2011 diretta, a conferma dell'eccezionalità dell'operazione, dall'esordiente nel mondo animato Gore Verbinski (The Ring, 2002; Pirates of the Carribean: The curse of the Black Pearl, 2003). La pellicola, nonostante un modesto successo al botteghino se paragonato agli enormi costi di produzione, ha raccolto il plauso della critica aggiudicandosi persino l'Academy Award per il miglior film d'animazione, un risultato enorme considerando che di solito tale categoria vede trionfare sempre o quasi pellicole Disney o Pixar.

Protagonista del lungometraggio è un camaleonte senza nome dalle grandi ambizioni attoriali (non a caso viene doppiato dal trasformista per eccellenza a Hollywood Johnny Depp) nonostante viva praticamente segregato in un minuscolo terrario insieme a pochi oggetti con i quali immagina di mettere in scena grandi avventure. Durante un viaggio in auto il terrario cade dalla stessa rompendosi e così l'animaletto si ritrova da solo in una sperduta autostrada che attraversa il deserto del Mojave, dove incontra un armadillo (con la voce di Alfred Molina) che, come un vero e proprio guru, lo invita a seguire la difficile via che lo porterà a compiere il proprio fato. Tale strada porta il rettile nella piccola cittadina, ovviamente popolata da soli animali antropomorfi, di Dirt, che presenta tutte le caratteristiche della città di un western, cosa che costringe il protagonista a calarsi nel ruolo di pistolero coraggioso (dandosi finalmente un nome: Rango) e infallibile riuscendo addirittura a diventare sceriffo e dando inizio al momento cruciale per la sua crescita interiore.

Non è assolutamente facile inquadrare un prodotto come Rango all'interno degli schemi del genere che normalmente si applicano a produzioni americane di tale portata economica; persino nel più ovvio degli insiemi nei quali può essere inserito, quello dell'animazione digitale, risulta atipico in quanto realizzato da una compagnia, la Industrial Light & Magic, la quale di solito si occupa di effetti speciali nel cinema in carne e ossa e che anche per questo ha reso le animazioni molto più naturalistiche rispetto allo stile Disney. A conferma di tale posizione ai limiti da questo punto di vista ci sono addirittura le parole di Verbinski, il quale ha affermato di aver pensato solo in un secondo momento di utilizzare l'animazione mentre dall'inizio del progetto aveva sempre avuto in mente l'idea di girare un western.  Ecco la vera identità della pellicola o almeno quella che decide di crearsi perché, proprio come il suo protagonista, spesso cambia pelle (si pensi all'incipit pirandelliano) spiazzando lo spettatore ma alla fine trova la sua strada in questo sterminato repertorio che ha accompagnato tutto lo sviluppo della settima arte statunitense.

Eppure anche all'interno di tale genere Rango risulta una singolarità in quanto, come ho appena affermato, il suo omonimo protagonista rappresenta un attore-sceneggiatore che, in una sorta di ibrido tra Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello e una riflessione metacinematografica vicina ai lavori di Charlie Kaufman, proprio quando sembrava essersi rassegnato alla vacuità della propria esistenza senza una storia da interpretare che sentisse propria intraprende un viaggio alla ricerca di essa. Nella sequenza iniziale il camaleonte dalla camicia hawaiana (chiaro riferimento al ruolo interpretato da Depp in Fear and Loathing in Las Vegas diretto da Terry Gilliam nel 1998) cerca di mettere in scena una trama cavalleresca ma si rende conto di non essere soddisfatto di essa e non solo perché gli altri personaggi sono interpretati da oggetti inanimati, quindi una volta ritrovatosi solo nel deserto cerca di sopravvivere nel solo modo che conosce, ovvero imitando gli altri e soltanto una volta calatosi nel ruolo del pistolero eroe della propria cittadina capisce di aver trovato finalmente la sua storia. Non a caso il momento di svolta nella ricerca del simpatico animaletto è rappresentato dall'onirica sequenza dell'apparizione dello "spirito del west" (Timothy Olyphant), una figura estremamente somigliante al Clint Eastwood protagonista della Trilogia del dollaro (1964,1965,1966) diretta da Sergio Leone che il regista di The Ring cita continuamente (si pensi al tema nel primo duello che cita esplicitamente il tema di Qualche dollaro in più realizzato da Ennio Morricone ma anche a finezze registiche come alcune inquadrature tipiche dello stile del cineasta italiano) innalzandola a maggiore fonte di ispirazione per il suo lavoro, nonostante non manchino anche citazioni di tutta la storia del genere western (dal periodo classico di John Ford e Howard Hawks fino ai cupi lungometraggi diretti dallo stesso Eastwood) o di altri capolavori hollywoodiani come Chinatown (Roman Polanski, 1974) e Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979).

In conclusione Rango rappresenta un interessante unicum all'interno del cinema d'animazione (e non solo) americano che riflette attraverso l'amore del proprio autore verso uno dei generi fondamentali sulla figura dell'attore ma anche, in una interpretazione che merita spazi ben maggiori, sullo smarrimento dell'essere umano ai giorni nostri tanto caro al cinema contemporaneo.

giovedì 3 novembre 2016

OUIJA - L'ORIGINE DEL MALE: COME GIRARE UN OTTIMO SEQUEL/PREQUEL DI UN PESSIMO FILM


Arrivato nel periodo dell'odierno Halloween nelle sale con ben poche aspettative Ouija - L'origine del male (Ouija: Origin of Evil) si è rivelato una sorpresa graditissima, soprattutto per la critica internazionale. Diretto da una delle maggiori promesse del cinema horror americano, quel Mike Flanagan autore di perle quali Oculus (2013) e Hush (2016), la pellicola si pone come prequel dell'anonimo Ouija (opera prima di Stiles White) uscito nel 2014 trovandosi quindi nella scomoda posizione di dover portare avanti un eventuale franchise voluto dai potenti produttori Jason Blum e Michael Bay ma sul quale, viste le scarse qualità del primo lungometraggio, nessuno avrebbe scommesso neanche un centesimo.
La trama di questo prequel si svolge nel 1967 e narra le vicende della famiglia in pieno lutto a causa della morte dell'unica figura maschile formata da Alice Zander, una presunta medium, e le due figlie Lina e Doris. Le tre cercano di sopravvivere ai problemi emotivi ed economici con delle finte sedute spiritiche a pagamento che però non bastano a ripagare gli ingenti debiti che le assillano. La situazione cambia radicalmente quando, quasi per disperazione, Alice compra una tavoletta ouija scoprendo che grazie a essa la più piccola delle figlie riesce realmente a comunicare con gli spiriti e forse persino con il padre defunto. Ovviamente le entità che entrano in contatto con Doris si rivelano tutt'altro che benevole.

Chiunque abbia visto il primo episodio della saga potrebbe apprezzare l'opera di Flanagan anche solo per come abbia chiarito e dato un minimo di senso all'unico spunto interessante che vi si poteva rintracciare. Il cineasta in questione è però tutt'altro che un mero mestierante e anzi rivela persino in una causa quasi persa in partenza tutto il suo bagaglio tecnico e di esperienza nel genere nel quale si è sempre mosso con disinvoltura. La prima azzeccatissima scelta registica in cui si imbatte lo spettatore è la contestualizzazione accuratissima che si fa notare già dai titoli di testa: la pellicola è permeata delle atmosfere, la tecnologia (anche cinematografica), i colori e soprattutto le tensioni morali degli anni 60, come rivelano i pregiudizi di cui è vittima Alice in quanto donna che deve provvedere da sola a mantenere la famiglia o il naufragare dell'evidente attrazione sessuale tra lei e il prete Thomas. Nonostante gli appassionati di pellicole dell'orrore abbiano già assistito a scelte del genere nei due The Conjuring (James Wan; 2013, 2016) o in Insidious: Chapter 2 (James Wan; 2013) anche solo questo elemento crea una differenza qualitativa abissale tra i due esponenti del franchise basato sul famoso gioco da tavola della Hasbro. Alla ricostruzione molto credibile dell'ambientazione il giovane autore statunitense abbina un'ottima descrizione delle dinamiche emotive causate dalla morte dell'elemento cardine del nucleo familiare e in generale un'attenzione non usuale nel genere per la psicologia dei personaggi; a tal proposito ho trovato molto dolce e sottile la storia d'amore adolescenziale tra Lina e Mack, così innocente nell'oggettivarsi ma al tempo stesso coinvolgente, in pratica l'opposto di ogni rapporto amoroso tra giovani in un horror. Questa attenzione verso i personaggi porta lo spettatore a provare una vera empatia verso essi, a differenza degli insopportabili protagonisti del lungometraggio di Stiles White, e quindi ne amplifica anche le sensazione di angoscia e paura che per tutta la durata del film si basano sulla tensione ottenuta attraverso la sapiente regia dell'autore (ogni inquadratura risulta sempre impeccabile e alcune, come il primo piano su Doris che guarda in macchina mentre uno dei bambini che la maltrattavano si suicida a causa sua, sono da manuale)  e l'interpretazione terrificante (in senso positivo) della piccola Lulu Wilson, perfetta nel rendere sullo schermo la progressiva sconfitta dell'innocenza da parte del male attraverso la mimica e le contorsioni corporee.

In conclusione potreste chiedervi se sia bastato veramente un solo uomo a modificare radicalmente le sorti di un franchise da un stremo all'altro: ebbene la risposta è assolutamente positiva quando si affida una pellicola horror a un talento come quello di Mike Flanagan capace di dare una propria impronta come regista, sceneggiatore e montatore. In fondo molte tematiche di Ouija - L'origine del male sono tipiche del suo cinema, così come la costruzione dell'orrore ottenuta attraverso un sapiente lavoro sull'inquadratura richiama alla mente soprattutto Oculus. Insomma l'autore nel 2016 fa ancora la differenza, soprattutto quando si tratta di produzioni a basso budget in cui non ci sono estrosi divi o mirabolanti effetti speciali a poter salvare un prodotto scadente.
fatemi sapere la vostra opinione a riguardo.

giovedì 20 ottobre 2016

BED TIME: LA CRUDELTÀ COME MEDICINA PER LA SOLITUDINE

All'apice della propria notorietà Jaume Balaguerò (Fragile del 2005; REC del 2007) dirige nel 2011 il suo film più ambizioso e slegato alla sua vocazione per l'horror: Bed Time o meglio Mientras duermes. Accolta con grande entusiasmo dalla critica la pellicola non ha purtroppo avuto lo stesso successo commerciale dei due REC e non ha neanche assunto lo status di cult riservato dagli appassionati di cinema di genere ai mockumentary girati dall'autore spagnolo.

Protagonista delle vicende narrate in Sleep Tight (titolo statunitense) è il portiere César (magistralmente interpretato da Luis Tosar) il quale, dietro le sembianze di un solitario ma gentile e ordinario uomo di mezza età, nasconde una natura profondamente oscura: ogni notte si nasconde sotto il letto di Clara, una delle inquiline del condominio in cui lavora, la narcotizza e mette in pratica piani sempre più sinistri per renderle la vita un inferno. Il culmine delle crudeltà verso la donna viene raggiunto nel momento in cui subentra il fidanzato, il quale sospetta da subito delle vere intenzioni del protagonista.
Per chiunque sia avvezzo al cinema di Balaguerò risalta subito lo stile registico adottato in questa sua ottava fatica volutamente asciutto, privo delle sperimentazioni formali piuttosto ardite viste nei suoi lavori precedenti delle quali riprende solamente la predilezione per le ombre e le ambientazioni chiuse, più claustrofobiche possibile. Tornano alcuni suoi topoi come la radio e il condominio eppure uno spettatore accorto sente di trovarsi quasi di fronte a un regista del tutto nuovo.

L'essenzialità dello stile cela al suo interno una ricchezza narrativa ed emotiva estremamente notevole, come se volesse adattarsi alla figura di César, semplice all'apparenza ma carico di riflessioni al suo interno. La sequenza iniziale del lungometraggio risulta una vera e propria anticipazione di tutto quello che seguirà: una situazione di assoluta quotidianità ribaltata nel modo più inatteso dalle azioni del portiere, il tutto quasi sempre durante la notte, mentre il resto del mondo dorme e l'uomo vive al massimo la propria solitudine. Questa risulta essere la chiave di volta della narrativa, il tema prevalente, in quanto le azioni disumane svolte dall'uomo sono dettate dall'infelicità perenne causatagli proprio dalla solitudine e l'unico rimedio che riesce a trovare per non gettarsi nel vuoto per concludere una vita senza senso è quello di infliggere agli altri la stessa tristezza che prova, soprattutto a chi sembra essere capace di sorridere a qualunque avversità come Clara. Eccola, la medicina citata nel titolo dell'analisi in questione trova la sua forma più completa e come raramente capita nel cinema viene narrata dal punto di vista dello stalker, una delle figure più controverse e presenti nella giungla impazzita dell'occidente odierno, in primo luogo nelle vicende di cronaca nera decantate come un rito quotidiano dai media. La giovane donna diventa per il personaggio interpretato da Tosar più che un'ossessione, finisce per essere il suo unico amore e per questo inviarle inquietanti lettere anonime o sms non basta più innescando un vortice di abusi e violenze che trova il proprio abisso nella nascita di un bambino: il massimo dell'innocenza così come il simbolo di una vita che non potrà mai più essere la stessa per Clara.

Per quanto spietato e ingiustificabile sia il comportamento del portiere stalker la scelta del cineasta iberico di utilizzare il suo punto di vista per le vicende rappresentate fa in modo che lo spettatore si senta in qualche modo vicino all'uomo, quasi si identifichi con lui nonostante disprezzi la sua assenza di moralità. Una scelta già adottata nella saga dedicata al personaggio di Hannibal Lecter quindi non così innovativa certo ma che viene adottata per ben altri motivi: mentre il medico cannibale può essere considerato come una miscela delle più note figure di villain da film horror all'insegna della raffinatezza intellettuale César rappresenta l'estremo prodotto della solitudine causata dalle condizioni di vita nel mondo globalizzato, la stessa sensazione che colpisce in misure diverse tutti noi. In fondo tutti i personaggi messi in scena da Balaguerò sono soli (esemplare la sequenza in cui il protagonista sbatte in faccia a un'anziana inquilina la propria infelicità e le false attenzioni che riceve dagli altri) e provano risentimento verso gli altri, cosa che rende il perfido portiere una versione hitchcockiana e contemporanea del Travis Bickle di Taxi Driver (Martin Scorsese; 1976), una vittima prima che mostro.
Fatemi sapere se siete d'accordo con la mia analisi e magari anche con il forte paragone da me azzardato.

giovedì 13 ottobre 2016

THE BOX: QUANDO STILE E POETICA SONO UNITI DAL CAOS


Al 2009 risale The Box, il terzo e finora ultimo lungometraggio di uno dei cineasti che potrebbe esemplificare al massimo il lato oscuro di Hollywood: l'ormai dimenticato autore di Donnie Darko (2001) Richard Kelly. Riassumendo in pochissime righe una vicenda che meriterebbe un approfondimento differente, l'autore in questione esordisce proprio con la pellicola oggi cult appena citata inizialmente però passando in sordina, anche a causa di tempistiche poco fortunate (il film esce nelle sale in una America ancora profondamente ferita dall'11 settembre). Soltanto con l'uscita in home video e la versione director's cut la pellicola avente per protagonista Jake Gyllenhaal ottiene il riconoscimento che merita, anzi probabilmente ne ottiene anche oltre i suoi meriti artistici effettivi portando a idolatrare il proprio autore quale nuovo enfant prodige del cinema statunitense. Come il passato insegna aspettative troppo alte e improvvise portano quasi sempre a una rovinosa caduta nel mondo della settima arte e Kelly purtroppo non fa eccezione; la sua seconda fatica, Southland Tales del 2006, fallisce nella corsa a Cannes e diventa un clamoroso flop di critica e pubblico.
Spese poche ma doverose parole sulla situazione che anticipa l'arrivo nelle sale di The Box appare evidente quanto esso rappresenti l'ultima possibilità da un punto di vista hollywoodiano per il cineasta di Newport News e, come da scontatissimo copione degno di una pessima soap opera, il lungometraggio viene aspramente criticato incassando anche pochissimo.
Lungi da me voler propagandare la mia opinione a chi leggerà questa breve analisi ma ho trovato fosse necessario informare sul contesto intriso di negatività che permea l'opera in oggetto. La trama trae ispirazione dal racconto Button, Button del noto autore di fantascienza Richard Matheson e dal suo adattamento televisivo per l'episodio omonimo appartenente alla seconda serie del famosissimo Ai confini della realtà (The Twilight Zone; 1985-1989). Protagonisti sono i due coniugi Norma (Cameron Diaz) e Arthur Lewis (James Mardsen), i quali, in un momento segnato da vari problemi economici, ricevono una strana scatola contenente un pulsante. L'uomo che gliela consegna (un conturbante Frank Langella) riferisce alla donna che in caso lei e suo marito decidano di premere il pulsante in questione riceveranno un milione di dollari, causando però la morte di una persona sconosciuta. Arthur, che lavora come ingegnere alla NASA, analizza il congegno e non riuscendo a capire come possa rendere possibile circostanze tanto tragiche ne sottovaluta le reali capacità, un atteggiamento che unito alle ansie della consorte portano quest'ultima a premere di getto il tasto. Questa scelta, già preceduta da alcuni eventi inquietanti, porterà a conseguenze ancora più nefaste e ai limiti della ragione.

Forse anche a causa di trailer fuorvianti o per la scelta di riprendere, almeno in parte, materiale già molto noto al pubblico molti hanno commesso l'errore di aspettarsi un thriller piuttosto convenzionale almeno dal punto di vista narrativo, basando tutta la narrazione sulla scelta di premere o meno il pulsante. In effetti Kelly avrebbe potuto scrivere e dirigere una pellicola claustrofobica e tesa di questo tipo mantenendosi oltretutto molto fedele al materiale di partenza ma il regista di Donnie Darko ha deciso di restare coerente con la propria poetica e con le sue ambizioni, cosa che lo ha portato a superare l'operato di Matheson per creare un prodotto personalissimo. The Box è un film di Richard Kelly in tutto e per tutto, una caratteristica non da poco a mio avviso, ed eccone i motivi. Da un punto di vista formale ritornano per l'intera durata della pellicola le immagini oniriche, bizzarre tipiche dello stile del cineasta che traggono ispirazione dalle fonti più disparate (dalla fantascienza anni 50 al misticismo sia occidentale che orientale). Il montaggio rifiuta la frenesia tipica del contemporaneo e persino gli effetti speciali spesso richiamano un immaginario di altri tempi, anche in omaggio a The Twilight Zone. Narrativamente, ma anche visivamente, il lungometraggio mescola numerosi generi, tra i quali spiccano thriller, fantascienza, spionaggio, horror paranoico in stile L'invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers; Don Siegel; 1956) e racconto morale. Esattamente tutto ciò che ha sbalordito il mondo di Donnie Darko e che forse è risultato eccessivo in Southland Tales e per di più rafforzato da ottime performance di Cameron Diaz e Frank Langella. Una riflessione che porta a considerare il vero punto focale del cinema dell'autore di Newport News il caos, sia nel linguaggio che nella poetica, in quanto unico comune denominatore dell'esistenza umana e dell'universo in generale. Persino la più insignificante scelta può portare alle più imponenti conseguenze, così come i più immani sforzi dell'uomo possono fallire miseramente di fronte a forze più grandi, come dimostra il finale di The Box.

In conclusione voglio ribadire come non sia mia intenzione difendere un film, un regista o inculcare ai lettori le mie personali opinioni ma ho trovato interessante e coraggioso il tentativo di Richard Kelly di imporre a tutti i costi la propria visione della settima arte e della vita persino nell'opera che ne può decidere la carriera e per questo ho condiviso con coi un'analisi più lontana possibile dal contesto emotivo che ha condizionato i giudizi sul film alla sua uscita. Fatemi sapere cosa ne pensate.

martedì 11 ottobre 2016

THE CELL: L'IMMAGINIFICO VIAGGIO NEL SUBCONSCIO

Nell'ormai lontano anno 2000 trova un non indifferente spazio nella programmazione delle sale mondiali il debutto alla regia nel mondo del cinema di Tarsem Singh (The Fall, 2006; Immortals, 2011), precedentemente noto per aver diretto l'acclamato videoclip di Losing My Religion dei R.E.M. Il lungometraggio che lo introduce alla settima arte si intitola The Cell, in apparenza un thriller facente parte di quel filone inaugurato da Seven (David Fincher; 1995) ma che in realtà si presenta come una commistione di più generi al servizio dell'impressionante gusto visuale di Tarsem. La pellicola ottiene un riscontro di pubblico notevole ma divide la critica, la quale, soprattutto negli Stati Uniti, resta affascinata dalla regia e dallo stile visivo generale dell'opera ma ne lamenta al contempo la banalità per quanto concerne la sceneggiatura.

La tanto bistrattata trama di The Cell ruota attorno a due poli narrativi che verso la metà della sua durata si incontrano: da un lato viene presentata la macchina sperimentale che permette all'assistente sociale Catherine (Jennifer Lopez) di entrare nel subconscio di un bambino ridotto in uno stato catatonico a causa di una forma rarissima di schizofrenia, dall'altra parte invece la caccia al serial killer Carl Stargher (un Vincent D'Onofrio particolarmente ispirato) operata dagli agenti federali Peter Novak (il Vince Vaughn che più spesso ogni cinefilo vorrebbe ritrovare) e Ramsey (Jake Weber). Queste due linee narrative apparentemente agli antipodi anche dal punto di vista visivo (le esplorazioni di Jennifer Lopez nella mente altrui vengono rese su schermo attraverso fantastici scenari ricchi di colori, mentre il thriller con protagonista Vince Vaughn risulta molto più legato ai capisaldi del genere con i suoi ambienti bui e sporchi) si intrecciano nel momento in cui il killer viene finalmente acciuffato ma risulta trovarsi in uno stato di incoscienza simile a quello del bambino affidato a Catherine così, essendo l'uomo l'unico a sapere dove si trova l'ultima ragazza da lui rapita, gli uomini dell'FBI si affidano proprio alla tecnologia da lei usata per poter carpire l'informazione.

Persino da questa breve sinossi appare chiaro quanto sia superficiale ridurre la pellicola diretta dal cineasta indiano a una copia sbiadita del già citato Seven o Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs; Jonathan Demme; 1991). La ricerca di un serial killer sulla base del suo profilo psicologico risulta soltanto una minuscola componente del film, quasi uno specchietto per le allodole in modo da poter aumentare il bacino di utenza da un punto di vista economico e un pretesto per poter arrivare al cuore reale dell'opera: il viaggio nei meandri della psiche di uno psicopatico. La seconda metà della pellicola si svolge per la maggior parte del tempo nel subconscio di Stargher permettendo al director indiano di dare libero sfogo al suo sconfinato gusto per l'estetica. Ogni passo dell'assistente sociale interpretata dalla Lopez nella mente altrui la trasporta in mondi diversi che si adattano al carattere del "proprietario", cosa che porta l'esplorazione dell'inconscio del serial killer a diventare un vero e proprio tour dell'orrore ricco di riferimenti religiosi e artistici intervallati dai ricordi dell'infanzia tormentata dell'uomo. La ricostruzione dei traumi subiti dal personaggio portato sullo schermo da Vincent D'Onofrio appare tutt'altro che banalmente stereotipata grazie alla ricchezza di dettagli che richiamano l'immaginario ebraico-cristiano così come l'apparato immaginifico del mostro che infesta la sua mente si può dire degno dei peggiori incubi (anche qui i riferimenti all'arte figurativa così come al cinema horror sono finissimi).

In conclusione ciò che rende una visione realmente valida The Cell è l'unione di un patrimonio visuale tanto raffinato quanto conturbante a una attenzione per i meandri più nascosti della mente umana, senza pregiudizi morali o stereotipi psicologici da cinema classico. Con le sue sperimentazioni visive e sulle codifiche dei generi la pellicola di Tarsem Singh può essere considerata un'esponente assolutamente interessante dell'utilizzo del noir da parte del cinema contemporaneo come linguaggio per analizzare la complessità del vissuto attuale.

mercoledì 28 settembre 2016

CRIMSON PEAK: IL PESO DEL PASSATO

Nel 2015 il celebre cineasta Guillermo del Toro, accantonando per il momento le sue produzioni più marcatamente hollywoodiane come i due Hellboy (2004; 2008) e Pacific Rim (2013), dirige e co-scrive Crimson Peak, un ritorno al suo lato maggiormente "autoriale" (a mio parere le barriere tra cinema autoriale e commerciale oggi sono labili come non mai, basti pensare ai lavori dal grande successo economico di autori in tutto e per tutto come Christopher Nolan, James Cameron o lo stesso del Toro)  mostrato con Il labirinto del fauno (El labirinto del fauno) e La spina del diavolo (El espinazo del diablo; 2001). In realtà l'ultima fatica del regista messicano presenta punti in comune con entrambi i rami della sua filmografia ma al contempo se ne distacca per intraprendere un percorso altro.

Durante le quasi due ore di durata della pellicola lo spettatore segue le vicende, ambientate nei decenni finali del diciannovesimo secolo, di Edith Cushing (un cognome denso di significati), una giovane aspirante scrittrice e figlia di un ricco uomo d'affari (interpretata da Mia Wasikowska) con il dono di poter vedere i fantasmi. Un giorno incontra il misterioso quanto affascinante baronetto Sir Thomas Sharpe (un Tom Hiddleston perfettamente calato nel ruolo), il quale prima fallisce nel convincere il padre della ragazza a finanziare un suo progetto ma in seguito riesce a rubare il cuore della stessa. Contrario alla relazione il genitore della protagonista scopre, grazie a un investigatore, dei torbidi segreti che riguardano il passato del nobile e della sua inseparabile sorella (la sempre impeccabile Jessica Chastain) e quindi decide di pagarli per farli tornare in Inghilterra dopo aver spezzato il cuore di Edith. Thomas accetta controvoglia ma in seguito all'uccisione del suo detrattore si nega la partenza e racconta tutto alla giovane, la quale lo perdona e lo sposa. In seguito al matrimonio i novelli sposi vanno a vivere nelle proprietà inglesi del baronetto, che nascondono però segreti agghiaccianti.
Fin dalle prime inquadrature risulta palese la volontà dell'autore di Blade 2 (2002) di abbandonare sia il linguaggio del kolossal contemporaneo, sia quello dei film horror a basso budget che tanto successo stanno incontrando negli ultimi anni (si pensi alle decine di mockumentary che ogni anno arrivano in sala o in dvd) in favore di un ritorno al genere dell'orrore gotico, il cui attore feticcio fu Peter Cushing (ecco la citazione a cui mi riferivo in precedenza) e che venne portato all'apice dai lavori di Mario Bava (La maschera del demonio del 1960; I tre volti della paura del 1963) e Roger Corman (House of Usher del 1960; Tales of Terror del 1962). Oltre a questo momento storico del cinema di genere del Toro riprende i colori forti e la violenza grafica di Dario Argento (a sua volta in parte debitore di Bava) ma a anche tanti spunti lovecraftiani (un topos nella filmografia del regista messicano).

Le numerosi citazioni presenti in Crimson Peak non vogliono creare nessun gioco cinefilo con lo spettatore, o almeno solo in minima parte, come nelle pellicole post-moderne tarantiniane ma hanno uno scopo poetico bene preciso: ricordare l'importanza del passato nella vita umana, così grande da diventare a un certo punto persino una zavorra, un fantasma da cui non si riesce a scappare. Ecco la parola chiave del film, fantasma. La prima cosa che lo spettatore apprende su Edith è la sua capacità di vedere gli spettri, il periodo messo in scena è lo stesso in cui raggiunsero l'apice il romanzo gotico, lo spiritismo e l'occultismo, persino uno dei personaggi più importanti e moralmente positivi del lungometraggio (il dottore interpretato da Charlie Hunnam) si scopre essere appassionato di fotografia spiritica. A questi riferimenti espliciti si aggiunge una scenografia incredibilmente adatta e soprattutto un castello, quello di proprietà dei fratelli Sharpe, che si rivela essere esso stesso un fantasma vero e proprio.

La protagonista, nel momento in cui parla del proprio romanzo, offre una sua personale chiave di lettura sulla natura degli spettri, li definisce metafore ed è questo che sono nel film, un simbolo di tutto ciò che appartiene al passato, come conferma nel finale con il suo monologo fuori campo. Solo una volta compresa questa verità la pellicola rivela tutta la coerenza immaginifica che molti critici non hanno individuato, poiché la scelta di Guillermo del Toro di citare epoche ormai spente sia dal punto di vista narrativo che stilistico servono unicamente a rafforzare la poetica dell'opera, il cui tema primario risulta essere la potenza del passato, che però l'uomo deve essere in grado di arginare per non farsi incatenare dal passato stesso, altrimenti perderebbe la propria natura umana per diventare un mostro, come la Lucille impersonata da Jessica Chastain.
Spero che questa breve analisi possa accendere in voi interessanti riflessioni e magari riaccendere qualche riflettore su un film a mio avviso molto sottovalutato.