sabato 31 dicembre 2016

TOKYO FIST: DOLORE FISICO E VIOLENZA PER TORNARE A VIVERE

Dopo aver brevemente proposto alla vostra attenzione Nightmare Detective con un viaggio a ritroso nel tempo all'interno della cinematografia di Shinya Tsukamoto mi occupo di uno dei film maggiormente noti, quel Tokyo Fist arrivato nelle sale nel 1995 e che ha rappresentato la vera e propria conferma del talento del proprio autore anche al di là della saga, allora composta dai primi due capitoli, su Tetsuo (Testuo, 1989; Testuo II: Body Hammer, 1992). Come per la maggior parte delle proprie opere anche qui il cineasta giapponese ne risulta autore a trecentosessanta gradi dal momento che ne cura regia, soggetto, sceneggiatura, produzione, montaggio, scenografia, fotografia e recita il ruolo del personaggio principale.

La trama ruota attorno al triangolo amoroso che viene a crearsi tra Tsuda (Tsukamoto), un tipico colletto bianco di Tokyo stremato da una vita fatta solo lavoro e routine, la sua compagna Hizuru (Kahori Fujii), donna tutta dedita alla casa come da tradizione della società patriarcale, e l'ex amico dei tempi del liceo di Tsuda Kojima (interpretato non a caso da Koji Tsukamoto, fratello del director), un pugile estremamente violento ma anche molto fragile emotivamente e mentalmente. Il ritorno nella vita del protagonista del suo vecchio compagno di scuola e le sue avances alla fidanzata portano il rapporto d'amore a fare finalmente i conti con il suo stato di stallo e in pratica a disintegrarsi, tanto che la donna decide di andare a vivere con l'amante, mentre Tsuda, dopo aver subito un potente pugno dal rivale, si iscrive allo stesso club di pugilato dove si allena l'uomo che odia pur di diventare abbastanza forte da affrontarlo e ammazzarlo. Nel frattempo Hizuru cambia completamente personalità, come dimostra la sua mania per tatuaggi e altre body modification sempre più estreme.

Per quanto alcuni elementi in comune siano innegabili, così come alcune ispirazioni reciproche, è bene chiarire subito che Tokyo Fist non è Fight Club (David Fincher, 1999) in salsa Cronenberg (influenza mai negata dal cineasta nipponico ma niente più) e a sua volta la pellicola tratta dall'omonimo romanzo scritto da Chuck Palahniuk non può essere definita una scopiazzatura o una versione americana del film in analisi, piuttosto si può notare come tre artisti dalla grandissima sensibilità verso le trasformazione che l'essere umano ha subito nella società contemporanea abbiano espresso risposte simili e tutt'altro che banali a temi antropologico/filosofici di non facile soluzione. Proprio come Tyler Durden anche il personaggio interpretato da Tsukamoto vive una vita fatta solo di un lavoro che in realtà lo sfinisce e basta, non fa che vagare senza neanche rendersene conto per le strade asfissianti di una grande metropoli e non sembra provare alcuna emozione. Persino il rapporto con la bellissima compagna si riduce a tristi serate sul divano davanti alla tv a lamentarsi di presunti dolori fisici che, guarda caso, svaniranno non appena l'uomo cambierà stile di vita. Ancora come il disturbato impiegato del lungometraggio americano la riscoperta di cosa voglia dire vivere davvero, con intensità ed emozioni reali avviene solamente tramite la lotta, la violenza: in Fight Club l'iniziazione avviene con la scazzottata immaginaria, in Tokyo Fist attraverso il terribile gancio inferto da Kojima.

Esaurita la doverosa parentesi sulle chiacchierate somiglianze risulta fondamentale soffermarsi sul versante estetico dell'opera dell'autore di Tetsuo, del quale contiene praticamente tutti i caratteri che ne evidenziano l'originalità del proprio percorso formale, come l'uso di filtri colorati nella fotografia legati a precise scelte poetiche (in questo caso la dialettica tra bene e male), il montaggio rapidissimo unito a movimenti della mdp frenetici al limite del caotico, gli effetti grandguignoleschi estremi o la colonna musica industrial. Fondamentale risulta anche l'ambientazione, ossia una Tokyo mostrata nel suo intreccio indistricabile di cemento e metallo attraverso riprese claustrofobiche che, combinate con il filtro blu simboleggiante il male, rafforzano in maniera evidente il tema della disumanizzazione dell'uomo all'interno delle megalopoli odierne, le quali sono diventate ormai veri e propri gironi infernali popolati da fantasmi a cui è stata risucchiata la forza vitale. Come sfuggire a questo processo distruttivo? Qual è la pars construens in questo attacco sferrato dal regista? Ricollegandosi al proprio esordio ancora una volta per Tsukamoto soltanto il dolore fisico e la violenza, subiti o inferti che siano, riescono riportare alla propria condizione epistemologica l'uomo, come se soltanto nel momento della sofferenza inflitta alla carne si risvegliasse dal torpore provocato dalla società contemporanea. Ancora una volta il veicolo attraverso cui avviene la scoperta del potere salvifico del dolore sembra essere il metallo, come dimostrano le body modification a cui si sottopone il personaggio interpretato da Kahori Fujii che, come una novella Tetsuo, evolve considerevolmente nel corso del lungometraggio attraverso la commistione di organico e sintetico fino a diventare la vera protagonista della vicenda, il sole attorno al quale ruotano due figure maschili forti soltanto all'apparenza e che invece non fanno che cedere alle proprie fragilità al cospetto della nuova fiamma che nella donna desiderata. Chiaramente la presenza di temi industral non fanno che sottolineare l'importanza della dialettica organico/sintetico all'interno della pellicola.

In conclusione Tokyo Fist rappresenta un film di non facile digeribilità, sia intellettuale che grafica ma di grande impatto, un'esperienza che difficilmente si dimentica, cosa che dovrebbe rientrare negli obiettivi di qualsiasi opera d'arte. Fatemi sapere la vostra opinione.

Nessun commento:

Posta un commento