Dopo un prologo ambientato in un piccolo borgo olandese soggetto a una rappresaglia nazista, il racconto si sposta nel cuore del Kenya, nel 1947, dove Merrin (Stellan Skarsgard), che ha abbandonato il sacerdozio, svolge degli scavi archeologici per riportare in superficie una chiesa risalente all'epoca bizantina. Una volta reso accessibile l'edificio, che appare fin troppo ben conservato e sinistro per essere un luogo sacro del V secolo, la zona viene sconvolta da numerosi episodi violenti, che culminano in una crescente tensione tra i soldati britannici locali e la popolazione autoctona. Secondo il prete locale, Padre Francis (Gabriel Mann), la causa di tutto risiede nel giovane Cheche (Billy Crawford), posseduto dal diavolo in persona.
Nell'analizzare Dominion è quanto mai fondamentale sottolineare le traversie produttive sopramenzionate in quanto risultano evidenti alcune mancanze a esse dovute, come una certa schizofrenia nel rapporto tra fotografia e commento musicale, per non parlare della pessima computer grafica utilizzata per le iene che infestano i dintorni degli scavi archeologici. Nonostante ciò e persino a discapito di una sceneggiatura altrui, la poetica del regista de Il collezionista di carte (The Card Counter, Paul Schrader, 2021) emerge con incontestabile evidenza anche in un contesto di limitata indipendenza creativa, facendo di Merrin un personaggio estremamente vicino a Travis Bickle e William Tell. Come questi ultimi vive ai margini di quello che una volta era il suo mondo a causa di un'esperienza traumatica che non riesce a superare e dopo un incontro inaspettato con l'innocenza perduta tenta di percorrere una strada di redenzione, di chiara matrice cristiana. Proprio a tale proposito ecco che l'espiazione del peccato viene ulteriormente espansa rispetto agli esempi precedenti, dato che in questo caso il protagonista è letteralmente alle prese con colui che incarna l'esatto opposto dell'amore divino, che non a caso ha scelto come involucro fisico il corpo di un reietto come Lankester. Lontano però dai consueti schemi dell'horror (e dalle aspettative di Morgan Creek Productions) Schrader pone Lucifero al centro dell'intreccio solamente nella parte finale del lungometraggio, dove appare come una figura glabra e asessuata che, alla stregua di quanto visto in L'ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ, Martin Scorsese, 1988), agisce indirettamente, con fare seducente, per portare alla luce quel lato oscuro che è insito nella natura umana, persino senza la sua intromissione fattuale. Ancora prima dell'apparizione demoniaca la pellicola è costantemente intarsiata dalla presenza del Male, a cominciare dalla brutalità dei gendarmi tedeschi che costringono Merrin a sacrificare dieci suoi concittadini, facendo vacillare in maniera decisiva la sua fede in Dio e nella bontà nel mondo. Esattamente l'obiettivo attribuito dalla teologia al Diavolo, raggiunto però non dall'ex angelo più bello del Paradiso, bensì dalle stesse creature nate a immagine e somiglianza del Signore.
Grazie anche alla meravigliosa fotografia di Vittorio Storaro, quasi completamente votata all'uso di illuminazione naturale, che ricorda molto il lavoro svolto su un altro film incentrato sul lato oscuro dell'animo umano (Apocalypse Now, Francis Ford Coppola, 1979), l'autore di First Reformed (Paul Schrader, 2017) rinuncia alla facile spettacolarizzazione hollywoodiana del soprannaturale per affrontare il più ancestrale dei paradossi cristiani ed etici in generale, ovvero l'esistenza del Male nel cuore di ogni essere umano, mettendo in parallelo l'orrore della Storia (il nazismo) con quello individuale dell'uomo che qualche decennio dopo avrebbe sacrificato persino la propria vita nel tentativo di salvare una ragazza innocente, rea solamente di aver attirato le attenzioni delle ombre che proiettano le luci più splendenti.