Tra i film attualmente candidati agli Academy Awards spicca, forte di ben otto candidature, un'opera prima, peraltro un remake, avente come protagonista una pop star al suo primo rilevante ruolo cinematografico (i piccoli ruoli in Sin City: A Dame to Kill For, diretto da Robert Rodriguez e Frank Miller nel 2014 e Machete Kills, sempre firmato Rodriguez l'anno precedente, si fermavano a poco più che divertissement): A Star Is Born (2018). Insomma non si può negare che l'esordio dietro la macchina da presa di Bradley Cooper, con al centro il personaggio interpretato da Lady Gaga, avesse tutte le carte per rivelarsi un disastro e invece è uno dei film con le migliori recensioni dell'anno e anche un enorme successo commerciale, tanto da aver sfiorato il mezzo miliardo di dollari al botteghino. Un fenomeno che merita di essere approfondito.
Rifacendosi ai tre precedenti È nata una stella o A Star Is Born in originale (tra i quali spicca il musical diretto nel 1954 da George Cukor) ma con ampie libertà creative in fase di sceneggiatura, la pellicola mostra l'incontro fortuito tra l'affermata rockstar Jackson Maine (Bradley Cooper) e la cameriera aspirante cantautrice Ally Campana (Lady Gaga). Lui, in preda a un alcolismo che lo attanaglia da anni, incontra lei dopo un concerto, all'interno di un bar dove la giovane si esibisce come unica artista femminile all'interno di serate dedicate alle drag queen, grazie soprattutto alle sue eccezionali doti canore. Jackson resta ammaliato dalla performance, dalla personalità unica e dal talento di Ally e così passa l'intera notte con lei a parlare. Il giorno successivo riesce a convincerla a seguire un suo concerto dal backstage quando improvvisamente le chiede di cantare con lui un pezzo scritto dalla stessa e che aveva canticchiato all'uomo durante la nottata trascorsa insieme. Superando l'imbarazzo per una esibizione davanti a migliaia di persone la ragazza canta e incanta il mondo intero nel duetto, aprendosi le porte per una insperata carriera da popstar ma anche una travagliata storia d'amore con il turbolento rocker.
La prima cosa che mi preme sottolineare, così da eliminare l'equivoco in cui molti, anche critici, sono caduti dinanzi alla visione e al commento di A Star Is Born è che non ci troviamo dinanzi a un musical. Come ogni genere hollywoodiano il musical, appunto, possiede regole e canoni ben codificati, probabilmente i più rigidi all'interno dell'universo dei generi stessi e dunque scevro dai costanti mutamenti che invece hanno coinvolto l'horror e la fantascienza, dalla comparsa della New Hollywood fino agli sconvolgimenti postmoderni e contemporanei, rendendo ben più semplice delineare ciò che rientra all'interno di determinati paletti e il film in questione reca una minima traccia di essi solamente per quanto concerne i lontani retaggi dei precedenti adattamenti. L'opera prima di Bradley Cooper non utilizza in alcun istante la musica come strumento narratologico e in realtà, a differenza di quanto avviene solitamente nel cinema americano classico, rinuncia persino a una colonna musica che agisca da commento emotivo a ciò che accade su schermo, limitandone la presenza solamente ai momenti di apparizione di musiche diegetiche, come durante i concerti o l'esibizione ai Grammy Awards della superband nella quale Jackson suona la chitarra solista. L'unica eccezione a tale, coraggiosa scelta di regia di rinunciare al commento avviene solamente con la sequenza finale, nella quale la diegetica performance della protagonista in onore del marito prende lentamente la forma di un videoclip di fortissimo impatto emozionale, culminante in una sovrapposizione sia visiva che uditiva di presente e passato che dimostra una notevole capacità di manipolazione del mezzo cinematografico da parte del regista. Proprio la visione di Cooper, la personalità con cui mette in scena quella che solamente in superficie resta una tradizionale love story sorprende fin dalle prime sequenze, dominate da long take in cui l'uso della camera in spalla non pregiudica la compostezza dell'inquadratura e anzi amplifica l'impatto estetico ed emozionale della visione, creando un legame empatico immediato con una figura tutt'altro che eroica come la rockstar interpretata dallo stesso cineasta. Si notano in maniera piuttosto lampante i maggiori riferimenti formali di Cooper per il suo esordio, in particolare il tragico classicismo di Clint Eastwood e la shaky camera di David O. Russell (entrami registi con cui ha collaborato precedentemente), ma il mix di questi stili molto diversi da questi calibrato risulta fresco e assolutamente adatto a sorreggere i due personaggi, grandiosi e quotidiani insieme, che dominano il lungometraggio.
Parlare di A Star Is Born senza menzionare la prova attoriale di Lady Gaga supererebbe di molto il limite dell'inconcludente, non solo per le non scontate doti recitative della cantante di origini italiane ma soprattutto perché si trova una fetta non indifferente della sua stessa vita all'interno del film. Certamente la relazione ricca di alti e bassi tra Ally e Jackson occupa il centro della narrazione ma la stessa love story vive continuamente all'interno di una riflessione sempre attuale circa i sacrifici che occorrono per poter raggiungere la fama. La protagonista conquista immediatamente le attenzioni e il cuore della celebre rockstar dell'Arizona non solo per la straordinaria capacità vocale ma soprattutto per il carisma con cui calca il palco, la facilità con cui compone brani che mettono a nudo tutta la propria intima essenza e un viso non da modella, non da star system ma da artista. Le lunghe disquisizioni e battute sul naso pronunciato della donna mettono in risalto quell'umanità abbagliante e semplice al tempo stesso che letteralmente aprono il cuore logoro, colmo di alcol e insoddisfazione di Jackson, il quale trova in lei un vero e proprio contraltare allo squallore disumanizzante dello stardom e della vita in genere. Grazie all'amore l'uomo inizia anche a rinunciare gradualmente all'appoggio costante della bottiglia ma, non a caso, ripiomba pesantemente nella depressione e nel vizio non appena si rende conto della mutazione occorsa alla consorte. Ally viene difatti letteralmente trasformata dalle pretese di commerciabilità del suo manager, il quale la porta a una metamorfosi fisica e artistica che non può non riportare alla mente la carriera proprio di Lady Gaga, arrivata alla ribalta internazionale dopo anni di gavetta con un album, The Fame (2008), che fin dal titolo e dal look glamour esibito dalla cantante sulla copertina tradisce la svolta d'immagine e musicale alla quale l'artista è dovuta ricorrere per potersi finalmente prendere il proprio spazio all'interno delle classifiche. Proprio come il suo personaggio l'interprete ha dovuto letteralmente abbandonare il pianoforte in favore delle ballerine per poter debuttare con una grande etichetta discografica, rinunciando probabilmente a un pezzo fondamentale del proprio io ritrovato solamente in una fase successiva della propria parabola privata e artistica (nel finale del film per quanto riguarda Ally e con l'album Born This Way del 2011 per la sua controparte reale).
A Star Is Born si rivela dunque non solo un esordio capace di portare su schermo una coppia di protagonisti che entrano immediatamente nel cuore del pubblico ma anche un ottimo biglietto da visita per le abilità registiche di Bradley Cooper e un emozionante, sottile riflessione sul confine sottile che divide la realtà dallo spettacolo, il mondo concreto e quello dei sogni di cui vive il cinema.
Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
giovedì 31 gennaio 2019
A STAR IS BORN: IL LABILE CONFINE TRA DIEGESI E VITA REALE
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giovedì 24 gennaio 2019
LADY BIRD: IL COMING OF AGE ANTI-INDIE
Fin dall'uscita dello storico Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, Nicholas Ray, 1955) e in generale della emersione del teenager come nuovo pubblico di un cinema nuovo rispetto a quello classico il genere "coming of age" rappresenta un pilastro della settima arte a stelle e strisce, con una particolare esplosione tra gli anni Settanta e Ottanta attraverso autori della Hollywood Reinassance e della New Hollywood quali George Lucas, John Milius, Steven Spielberg e John Hughes. Negli ultimi anni, vista anche la notevole ondata di nostalgia vintage proprio nei confronti del decennio segnato da The Breakfast Club (John Hughes, 1985), tale filone è divenuto particolarmente caro alla sempre più numerosa schiera di cineasti indipendenti che spopolano in festival come il Sundance e di sicuro a questo dato milieu artistico appartiene Greta Gerwig, attrice e sceneggiatrice prima e oggi anche regista con il suo esordio Lady Bird, vero e proprio caso cinematografico del 2017, acclamato dalla critica mondiale e candidato a ben cinque Academy Awards.
Protagonista assoluta della pellicola è la diciassettenne Christine (Saoirse Ronan), la cui ribellione verso la famiglia e la propria città, Sacramento, si intuisce già dalla sua tutt'altro che convenzionale scelta di farsi chiamare Lady Bird, persino nella scuola cattolica che frequenta. Tra i primi innamoramenti e la speranza di essere accettata in un college a New York, meta per eccellenza della "cultura" vera, la ragazza inizia il proprio percorso di maturazione e di accettazione del suo nucleo familiare, composto dalla fortissima madre Marion (Laurie Metcalf), il padre disoccupato e depresso Larry (Tracy Letts), il fratello ispanico Miguel (Jordan Rodrigues) e la ragazza di quest'ultimo.
A partire dalla scelta di raccontare una storia di passaggio dall'infanzia all'età adulta di una ragazza diviene evidente sia il carattere, almeno in parte, autobiografico di Lady Bird che la sua peculiare rilettura del genere coming of age. Quello che a prima vista potrebbe apparire come l'ennesimo prodotto indie sull'adolescenza con tutti i topoi del caso (protagonista ribelle con i capelli colorati, più in gamba e intelligente dei suoi coetanei ricchi e viziati, New York come meta da raggiungere ecc.) si rivela in realtà come un'opera prima capace di abbinare, con estrema intelligenza e grazia, uno spaccato di vita tutt'altro che idealizzato o stereotipato a una critica irriverente verso i succitati stereotipi. Sebbene la Gerwig provenga proprio dall'ambiente di giovani intellettuali newyorkesi che dominano le produzioni indipendenti e risulti evidente come il suo stile registico sia debitore del suo mentore Noah Baumbach, la pellicola rivela attraverso le esperienze in tutto e per tutto ordinarie di Christine un amore palpabile da parte della cineasta proprio per quella mediocritas, quella provincia americana additata di bigottismo, ignoranza e mancanza di "coolness", a dispetto invece di una critica sarcastica sottile e caustica al tempo stessi nei confronti dell'ambiente artistico e intellettuale della Grande Mela, ormai ridottasi a una meta di semplice escapismo per giovani in cerca di festini offerti dalle tasche dei genitori. Per merito di un cast attorico in stato di grazia, in grado di rendere credibili e interessanti persino personaggi con pochissime battute come il fratello laureato in matematica ma disoccupato anche a causa del suo look alternativo o il "bello e dannato" Kyle (Timothéè Chalamet), la regista e sceneggiatrice nativa proprio di Sacramento riesce a dare vita a quella tranche de vie da noiosa provincia USA con un'onestà tutt'altro che scontata, una carica ironica che si abbina alla perfezione alle disavventure della giovane protagonista (splendidamente portata su schermo da Saoirse Ronan) e persino la giusta dose di gravitas nel momento in cui quest'utlima si trova a dover lottare per ottenere l'approvazione di sua madre. Un rapporto, quello tra Christine e Marion, conflittuale e colmo di piccoli gesti di sincero affetto proprio come accade tra ogni genitore e figlio adolescente, reso particolarmente potente dal punto di vista emotivo da alcune sequenze di notevole lirismo (si pensi all'abbraccio in auto e alla conseguente attività domenicale madre-figlia) e dalla sensibilità con cui l'autrice ambienta l'intera vicenda all'interno di un momento storico e sociale, il post-11 settembre 2001, ricco di incognite, di difficoltà economiche e psicologiche ma anche di voglia di rialzarsi, di mostrare al terrorismo che la paura non può bloccare per sempre lo scorrere della vita e che la felicità può e deve essere riscoperta nelle piccole cose come la famiglia, rispetto ai fasti esotici di miti propinati per almeno due decenni dalla cultura di massa.
Lady Bird è dunque un film realizzato con notevoli mezzi formali, grandi capacità di scrittura e direzione degli attori ma soprattutto con un mix di cuore e intelligenza, sarcasmo colto e affetto autobiografico: tutto ciò che rende indimenticabile un coming of age e l'adolescenza stessa.
Protagonista assoluta della pellicola è la diciassettenne Christine (Saoirse Ronan), la cui ribellione verso la famiglia e la propria città, Sacramento, si intuisce già dalla sua tutt'altro che convenzionale scelta di farsi chiamare Lady Bird, persino nella scuola cattolica che frequenta. Tra i primi innamoramenti e la speranza di essere accettata in un college a New York, meta per eccellenza della "cultura" vera, la ragazza inizia il proprio percorso di maturazione e di accettazione del suo nucleo familiare, composto dalla fortissima madre Marion (Laurie Metcalf), il padre disoccupato e depresso Larry (Tracy Letts), il fratello ispanico Miguel (Jordan Rodrigues) e la ragazza di quest'ultimo.
A partire dalla scelta di raccontare una storia di passaggio dall'infanzia all'età adulta di una ragazza diviene evidente sia il carattere, almeno in parte, autobiografico di Lady Bird che la sua peculiare rilettura del genere coming of age. Quello che a prima vista potrebbe apparire come l'ennesimo prodotto indie sull'adolescenza con tutti i topoi del caso (protagonista ribelle con i capelli colorati, più in gamba e intelligente dei suoi coetanei ricchi e viziati, New York come meta da raggiungere ecc.) si rivela in realtà come un'opera prima capace di abbinare, con estrema intelligenza e grazia, uno spaccato di vita tutt'altro che idealizzato o stereotipato a una critica irriverente verso i succitati stereotipi. Sebbene la Gerwig provenga proprio dall'ambiente di giovani intellettuali newyorkesi che dominano le produzioni indipendenti e risulti evidente come il suo stile registico sia debitore del suo mentore Noah Baumbach, la pellicola rivela attraverso le esperienze in tutto e per tutto ordinarie di Christine un amore palpabile da parte della cineasta proprio per quella mediocritas, quella provincia americana additata di bigottismo, ignoranza e mancanza di "coolness", a dispetto invece di una critica sarcastica sottile e caustica al tempo stessi nei confronti dell'ambiente artistico e intellettuale della Grande Mela, ormai ridottasi a una meta di semplice escapismo per giovani in cerca di festini offerti dalle tasche dei genitori. Per merito di un cast attorico in stato di grazia, in grado di rendere credibili e interessanti persino personaggi con pochissime battute come il fratello laureato in matematica ma disoccupato anche a causa del suo look alternativo o il "bello e dannato" Kyle (Timothéè Chalamet), la regista e sceneggiatrice nativa proprio di Sacramento riesce a dare vita a quella tranche de vie da noiosa provincia USA con un'onestà tutt'altro che scontata, una carica ironica che si abbina alla perfezione alle disavventure della giovane protagonista (splendidamente portata su schermo da Saoirse Ronan) e persino la giusta dose di gravitas nel momento in cui quest'utlima si trova a dover lottare per ottenere l'approvazione di sua madre. Un rapporto, quello tra Christine e Marion, conflittuale e colmo di piccoli gesti di sincero affetto proprio come accade tra ogni genitore e figlio adolescente, reso particolarmente potente dal punto di vista emotivo da alcune sequenze di notevole lirismo (si pensi all'abbraccio in auto e alla conseguente attività domenicale madre-figlia) e dalla sensibilità con cui l'autrice ambienta l'intera vicenda all'interno di un momento storico e sociale, il post-11 settembre 2001, ricco di incognite, di difficoltà economiche e psicologiche ma anche di voglia di rialzarsi, di mostrare al terrorismo che la paura non può bloccare per sempre lo scorrere della vita e che la felicità può e deve essere riscoperta nelle piccole cose come la famiglia, rispetto ai fasti esotici di miti propinati per almeno due decenni dalla cultura di massa.
Lady Bird è dunque un film realizzato con notevoli mezzi formali, grandi capacità di scrittura e direzione degli attori ma soprattutto con un mix di cuore e intelligenza, sarcasmo colto e affetto autobiografico: tutto ciò che rende indimenticabile un coming of age e l'adolescenza stessa.
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martedì 22 gennaio 2019
FIRST REFORMED: TRA IMMANENZA E TRASCENDENZA
Paul Schrader probabilmente non è riconosciuto e mai sarà riconosciuto un maestro come l'amico Martin Scorsese eppure resta innegabile il suo apporto alla New Hollywood e al cinema contemporaneo, sia nelle vesti di sceneggiatore che di regista e persino di avido conoscitore della settima arte, che indaga con molto più acume di molti saggisti e critici. Nonostante una certa diffidenza verso i suoi ultimi lavori l'autore di American Gigolò continua ad andare dritto per la propria strada, lontana dai fasti produttivi di Hollywood e oggi mi preme spendere qualche parola per First Reformed (First Reformed - La creazione a rischio, 2017), ultima pellicola scritta e diretta da Schrader, capace dopo molti anni di riconquistare proprio quella critica che aveva annientato per esempio The Canyons (2013) alla sua presentazione, in concorso, al Festival di Venezia.
La flebile traccia narrativa del film in questione vede il pastore Ernst Toller (Ethan Hawke) alle prese con una vita di privazioni e solitudine dopo la morte del figlio in guerra, la fine del rapporto con sua moglie e la decisione di abbandonare la posizione di reverendo dell'esercito per accettare di occuparsi di una storica chiesa di Snowbridge, visitata più dai turisti che dai fedeli. La sua abituale routine viene modificata da due eventi, la scelta di redigere un diario personale e l'incontro con Mary (Amanda Seyfried), giovane donna molto devota che chiede aiuto al ministro di Dio per suo marito Michael, attivista ambientalista che non riesce ad accettare la gravidanza della moglie a causa delle gravi condizioni nelle quali versa il nostro pianeta. Sebbene il primo incontro di Toller con l'uomo sembri creare un certo legame di fiducia tra i due, Michael decide di suicidarsi, innescando un shock psicologico ed etico nel cuore e nella mente del protagonista.
Sia piano più prettamente narratologico che su quello formale First Reformed si configura come un lavoro molto distante dalle influenze noir del predecessore Cane mangia cane (Dog Eat Dog, 2016) e in generale da qualunque prodotto di genere, rivelando immediatamente le influenze esplicitamente dichiarate di autori quali Dreyer, Bresson o Bergman, eppure non appena entra in scena il personaggio magistralmente interpretato dal mai troppo lodato Ethan Hawke il film mostra di essere del tutto aderente alla poetica di Schrader. Il regista opta in questo caso per un registro formale estremamente rigoroso, costituito da lunghe inquadratura del tutto o quasi scevre da movimenti di macchina, perfettamente impostato sul piano compositivo e inoltre rinuncia ai convenzionali formati panoramici in luogo di un 4:3 ispirato a Ida di Pawel Pawlikowski (2013), non a caso altro lungometraggio con protagonista una figura religiosa. Tutti questi precisi riferimenti e la espressa motivazione dietro l'utilizzo di un aspect ratio così agli antipodi con le attuali convenzioni rispecchiano la natura più pulsante, intima e vera della pellicola, ossia quella volontà di indagare l'inconoscibile, l'irrappresentabile, l'ignoto della trascendenza attraverso il simbolo stesso del suo opposto, l'immanenza: il corpo. L'insistenza sui primi piani di Toller, i piani sequenza in cui il reverendo diventa il punto di fuga delle linee forza costituite dalle architetture della chiesa-prigione First Reformed ma soprattutto la psichedelica scena nella quale l'uomo e Mary si sdraiano l'uno sopra l'altro, in un gioco proprio di ricerca del massimo contatto tra due corpi, diviene evidente come quell'oggetto della mortificazione da parte di secoli di riflessione cristiana si trasformi per il cineasta statunitense nell'unico e più autentico veicolo di conoscenza della propria essenza, di quella altrui e persino un mezzo di possibile redenzione, di ascesa dalla dannazione all'illuminazione. L'enigmatico finale lascia certamente interdetti ma al contempo non fa che confermare la natura ibrida, ossimorica o meglio misterica del film, misterica come lo è Dio, unico e trino insieme proprio come la pellicola risulti immanente e trascendente allo stesso tempo, materiale e spirituale, verosimile e onirica. L'intero impianto estetico voluto da Schrader, così rigoroso, privo di movimenti di macchina, di commenti musicali invadenti e poi capace in alcune sequenze di librarsi verso momenti di autentica negazione di aderenza al reale dimostrano proprio la pregnanza del mistero insito nella fede al suo interno, finendo per creare nello spettatore un effetto straniante che rimanda ai territori del sogno o persino dell'incubo. Incubo come quello di un pianeta, della creazione più grandiosa di Dio violata senza alcun ritegno dall'uomo; come quello di un padre che non ha il coraggio di dare alla luce una figlia destinata a vivere all'inferno; come quello di un uomo di fede che, novello Abramo, ha sacrificato il proprio Isacco senza che un angelo accorresse per fermarne la mano.
Saranno anche passati più di quarant'anni da quando la coppia Schrader-Scorsese indagava i meandri dell'inferno sulla Terra creato dall'uomo attraverso le sudicie strade di New York e gli occhi di un reduce del Vietnam ma questo First Reformed e Silence (Martin Scorsese, 2016) dimostrano che ancora oggi questa coppia continua ad affascinare milioni di spettatori con le proprie riflessioni su quella dimensione che esiste al di là del nostro piccolo mondo concreto.
La flebile traccia narrativa del film in questione vede il pastore Ernst Toller (Ethan Hawke) alle prese con una vita di privazioni e solitudine dopo la morte del figlio in guerra, la fine del rapporto con sua moglie e la decisione di abbandonare la posizione di reverendo dell'esercito per accettare di occuparsi di una storica chiesa di Snowbridge, visitata più dai turisti che dai fedeli. La sua abituale routine viene modificata da due eventi, la scelta di redigere un diario personale e l'incontro con Mary (Amanda Seyfried), giovane donna molto devota che chiede aiuto al ministro di Dio per suo marito Michael, attivista ambientalista che non riesce ad accettare la gravidanza della moglie a causa delle gravi condizioni nelle quali versa il nostro pianeta. Sebbene il primo incontro di Toller con l'uomo sembri creare un certo legame di fiducia tra i due, Michael decide di suicidarsi, innescando un shock psicologico ed etico nel cuore e nella mente del protagonista.
Sia piano più prettamente narratologico che su quello formale First Reformed si configura come un lavoro molto distante dalle influenze noir del predecessore Cane mangia cane (Dog Eat Dog, 2016) e in generale da qualunque prodotto di genere, rivelando immediatamente le influenze esplicitamente dichiarate di autori quali Dreyer, Bresson o Bergman, eppure non appena entra in scena il personaggio magistralmente interpretato dal mai troppo lodato Ethan Hawke il film mostra di essere del tutto aderente alla poetica di Schrader. Il regista opta in questo caso per un registro formale estremamente rigoroso, costituito da lunghe inquadratura del tutto o quasi scevre da movimenti di macchina, perfettamente impostato sul piano compositivo e inoltre rinuncia ai convenzionali formati panoramici in luogo di un 4:3 ispirato a Ida di Pawel Pawlikowski (2013), non a caso altro lungometraggio con protagonista una figura religiosa. Tutti questi precisi riferimenti e la espressa motivazione dietro l'utilizzo di un aspect ratio così agli antipodi con le attuali convenzioni rispecchiano la natura più pulsante, intima e vera della pellicola, ossia quella volontà di indagare l'inconoscibile, l'irrappresentabile, l'ignoto della trascendenza attraverso il simbolo stesso del suo opposto, l'immanenza: il corpo. L'insistenza sui primi piani di Toller, i piani sequenza in cui il reverendo diventa il punto di fuga delle linee forza costituite dalle architetture della chiesa-prigione First Reformed ma soprattutto la psichedelica scena nella quale l'uomo e Mary si sdraiano l'uno sopra l'altro, in un gioco proprio di ricerca del massimo contatto tra due corpi, diviene evidente come quell'oggetto della mortificazione da parte di secoli di riflessione cristiana si trasformi per il cineasta statunitense nell'unico e più autentico veicolo di conoscenza della propria essenza, di quella altrui e persino un mezzo di possibile redenzione, di ascesa dalla dannazione all'illuminazione. L'enigmatico finale lascia certamente interdetti ma al contempo non fa che confermare la natura ibrida, ossimorica o meglio misterica del film, misterica come lo è Dio, unico e trino insieme proprio come la pellicola risulti immanente e trascendente allo stesso tempo, materiale e spirituale, verosimile e onirica. L'intero impianto estetico voluto da Schrader, così rigoroso, privo di movimenti di macchina, di commenti musicali invadenti e poi capace in alcune sequenze di librarsi verso momenti di autentica negazione di aderenza al reale dimostrano proprio la pregnanza del mistero insito nella fede al suo interno, finendo per creare nello spettatore un effetto straniante che rimanda ai territori del sogno o persino dell'incubo. Incubo come quello di un pianeta, della creazione più grandiosa di Dio violata senza alcun ritegno dall'uomo; come quello di un padre che non ha il coraggio di dare alla luce una figlia destinata a vivere all'inferno; come quello di un uomo di fede che, novello Abramo, ha sacrificato il proprio Isacco senza che un angelo accorresse per fermarne la mano.
Saranno anche passati più di quarant'anni da quando la coppia Schrader-Scorsese indagava i meandri dell'inferno sulla Terra creato dall'uomo attraverso le sudicie strade di New York e gli occhi di un reduce del Vietnam ma questo First Reformed e Silence (Martin Scorsese, 2016) dimostrano che ancora oggi questa coppia continua ad affascinare milioni di spettatori con le proprie riflessioni su quella dimensione che esiste al di là del nostro piccolo mondo concreto.
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domenica 20 gennaio 2019
END OF WATCH: L'AMICIZIA VIRILE SECONDO DAVID AYER
Molti appassionati oggi abbinano David Ayer solamente alla regia, peraltro molto controversa, di Suicide Squad (2016), cinecomics campione di incassi ma aspramente criticato e in parte rinnegato dallo steso autore a causa di interventi ingenti da parte della produzione sul montaggio finale. Prima dell'incursione nell'universo cinematografico DC il regista dell'Illinois si era però conquistato un posto di una certa rilevanza all'interno del filone crime del cinema hollywoodiano, specialmente grazie alla sceneggiatura di Training Day, pellicola diretta da Antoine Fuqua nel 2001 e candidata a due Academy Awards. All'interno della filmografia da director di Ayer ho deciso oggi di approfondire in particolare End of Watch (End of Watch - Tolleranza zero in Italia), scritto, diretto e prodotto nel 2012. Sebbene da noi il film non sia molto noto in patria si è rivelato un ottimo incasso, specie considerato il budget non molto elevato, e un buon successo di critica, tale da permettere all'autore di poter dirigere un cast di star nel successivo Fury (2014).
Il terzo lungometraggio da regista dello sceneggiatore di Fast and Furious (The Fast and the Furious, Rob Cohen, 2001) segue, con piglio sospeso tra il documentaristico e il reality show, le giornate della coppia di poliziotti di Los Angeles composta da Brian Taylor (Jake Gyllenhaal) e Mike Zavala (Michael Peña). I due si distinguono giorno dopo giorno per la capacità di affrontare con ironia il proprio mestiere e al contempo di mettere a rischio persino le proprie vite pur di assicurare alla legge i tanti delinquenti che popolano i sobborghi della metropoli californiana. Proprio quando Brian incontra e sposa Janet, la donna che ha scoperto di amare (Anna Kendrick), casualmente i protagonisti finiscono per immischiarsi nei loschi traffici di schiavi e droga da parte di un potente cartello colombiano.
Ciò che salta immediatamente all'occhio di qualsiasi tipologia di spettatore alla visione di End of Watch è il peculiare assetto formale scelto da Ayer: un'alternanza tra mockumentary, soggettive dei protagonisti e alcune algide panoramiche della città che ricordano i lavori in digitale di Michael Mann. Una consistente fetta del film viene difatti ripresa attraverso la videocamera di Brian, alle prese con un compito da portare a termine per un corso universitario a carattere cinematografico, così come alcune sequenze incentrate su una gang di criminali ispanici si identifica con le riprese di uno dei suoi membri. Il regista opta per questo mix di registri stilistici, con notevole coraggio, non certo per una sterile esibizione virtuosistica, bensì per ottenere due risultati di notevole impatto poetico ed emotivo. Le forma simile al video amatoriale, molto sfruttata nel terzo millennio dal cinema horror ma anche da Brian De Palma in Redacted (film del 2007 che sicuramente deve aver influenzato Ayer), crea nello spettatore un effetto di verosimiglianza particolarmente elevato rispetto al rispetto della grammatica filmica classica e la giustapposizione di soggettive utilizzate soprattutto nelle sequenze action porta addirittura a una forma quasi da cinema vérité, equiparabile ai crudi reportage di guerra che hanno permesso al pubblico occidentale di conoscere gli orrori reali di conflitti lontani come quelli in Vietnam o in Iraq. In questo modo Ayer, come già dimostrato con altri espedienti narrativi ed estetici in tutta la propria filmografia, sembra voler esclamare a pieni polmoni come la realtà vissuta dagli abitanti dei quartieri più periferici di Los Angeles, città simbolo dei dislivelli sociali americani, sia del tutto equiparabile a quella di nazioni in preda alla guerra (sia essa contro paesi stranieri o intestina) e in particolare poliziotti e bande rivali costituiscono nient'altro che fazioni opposte, eserciti nemici all'interno di un interminabile conflitto. A tale scopo la macchina da presa non risparmia dettagli particolarmente crudi, evitando al contempo di spettacolarizzarli e dunque allontanando ogni elemento glamour tipico del genere crime statunitense dall'opera.
D'altro canto la scelta di affidare gran parte del film a riprese di taglio simil-amatoriale cela in realtà la volontà da parte del cineasta americano di porre la propria lente d'ingrandimento non solo sul versante d'azione e sociologico ma soprattutto sulla quotidianità dei due agenti di polizia, sia durante il lavoro che nella vita civile. Coadiuvato dal lavoro egregio da parte di Jake Gyllenhaal e Michael Peña, il regista riesce nell'impresa non banale di ritrarre due personaggi che, sequenza dopo sequenza, abbattono ogni stereotipo tipico del cinema di genere (le battute sulla "messicanità" di Mike strappano sorrisi genuini e sembrano proprio deridere tali topoi) ed entrano nel cuore dello spettatore, creando un rapporto empatico raramente così potente tra caratteri sullo schermo e pubblico. La leggerezza con cui i due giovani uomini affrontano un lavoro nel quale potrebbero perdere la vita in ogni singolo istante conquista e i momenti di vita quotidiana non concorrono mai a ritrarre degli eroi irreali, bensì persone del tutto simili allo spettatore medio e in particolare è il rapporto d'amicizia tra i due a risaltare grazie a questo approccio. Ayer ha dimostrato nel corso di tutta la sua carriera di tenere particolarmente al tema dell'amicizia tra uomini, specialmente all'interno di contesti lavorativi e sociali impregnati di machismo e ostentazione della virilità, e in questo lungometraggio la particolare forma adottata risulta estremamente efficace nel ritrarre l'amore fraterno tra due uomini in fondo molto diversi tra loro per carattere, origini etnico-culturali e aspirazioni individuali.
End of Watch probabilmente non possiede la forza magnetica di un cattivo come l'Alonzo Harris di Training Day, l'appeal pop degli antieroi di Suicide Squad o il carisma immediato di Brad Pitt in Fury eppure rappresenta un esempio perfetto di aderenza tra forma e contenuto e sintetizza con efficacia cinematografica più che rilevante la poetica di un Autore, non a caso coinvolto nel progetto nelle vesti di regista, sceneggiatore e persino produttore. Insomma questo è David Ayer, l'uomo cresciuto tra i quartieri criminali di LA e che in ogni sua opera ne mette in mostra la grande e sofferente umanità, con i suoi reietti assorti ad antieroi.
Il terzo lungometraggio da regista dello sceneggiatore di Fast and Furious (The Fast and the Furious, Rob Cohen, 2001) segue, con piglio sospeso tra il documentaristico e il reality show, le giornate della coppia di poliziotti di Los Angeles composta da Brian Taylor (Jake Gyllenhaal) e Mike Zavala (Michael Peña). I due si distinguono giorno dopo giorno per la capacità di affrontare con ironia il proprio mestiere e al contempo di mettere a rischio persino le proprie vite pur di assicurare alla legge i tanti delinquenti che popolano i sobborghi della metropoli californiana. Proprio quando Brian incontra e sposa Janet, la donna che ha scoperto di amare (Anna Kendrick), casualmente i protagonisti finiscono per immischiarsi nei loschi traffici di schiavi e droga da parte di un potente cartello colombiano.
Ciò che salta immediatamente all'occhio di qualsiasi tipologia di spettatore alla visione di End of Watch è il peculiare assetto formale scelto da Ayer: un'alternanza tra mockumentary, soggettive dei protagonisti e alcune algide panoramiche della città che ricordano i lavori in digitale di Michael Mann. Una consistente fetta del film viene difatti ripresa attraverso la videocamera di Brian, alle prese con un compito da portare a termine per un corso universitario a carattere cinematografico, così come alcune sequenze incentrate su una gang di criminali ispanici si identifica con le riprese di uno dei suoi membri. Il regista opta per questo mix di registri stilistici, con notevole coraggio, non certo per una sterile esibizione virtuosistica, bensì per ottenere due risultati di notevole impatto poetico ed emotivo. Le forma simile al video amatoriale, molto sfruttata nel terzo millennio dal cinema horror ma anche da Brian De Palma in Redacted (film del 2007 che sicuramente deve aver influenzato Ayer), crea nello spettatore un effetto di verosimiglianza particolarmente elevato rispetto al rispetto della grammatica filmica classica e la giustapposizione di soggettive utilizzate soprattutto nelle sequenze action porta addirittura a una forma quasi da cinema vérité, equiparabile ai crudi reportage di guerra che hanno permesso al pubblico occidentale di conoscere gli orrori reali di conflitti lontani come quelli in Vietnam o in Iraq. In questo modo Ayer, come già dimostrato con altri espedienti narrativi ed estetici in tutta la propria filmografia, sembra voler esclamare a pieni polmoni come la realtà vissuta dagli abitanti dei quartieri più periferici di Los Angeles, città simbolo dei dislivelli sociali americani, sia del tutto equiparabile a quella di nazioni in preda alla guerra (sia essa contro paesi stranieri o intestina) e in particolare poliziotti e bande rivali costituiscono nient'altro che fazioni opposte, eserciti nemici all'interno di un interminabile conflitto. A tale scopo la macchina da presa non risparmia dettagli particolarmente crudi, evitando al contempo di spettacolarizzarli e dunque allontanando ogni elemento glamour tipico del genere crime statunitense dall'opera.
D'altro canto la scelta di affidare gran parte del film a riprese di taglio simil-amatoriale cela in realtà la volontà da parte del cineasta americano di porre la propria lente d'ingrandimento non solo sul versante d'azione e sociologico ma soprattutto sulla quotidianità dei due agenti di polizia, sia durante il lavoro che nella vita civile. Coadiuvato dal lavoro egregio da parte di Jake Gyllenhaal e Michael Peña, il regista riesce nell'impresa non banale di ritrarre due personaggi che, sequenza dopo sequenza, abbattono ogni stereotipo tipico del cinema di genere (le battute sulla "messicanità" di Mike strappano sorrisi genuini e sembrano proprio deridere tali topoi) ed entrano nel cuore dello spettatore, creando un rapporto empatico raramente così potente tra caratteri sullo schermo e pubblico. La leggerezza con cui i due giovani uomini affrontano un lavoro nel quale potrebbero perdere la vita in ogni singolo istante conquista e i momenti di vita quotidiana non concorrono mai a ritrarre degli eroi irreali, bensì persone del tutto simili allo spettatore medio e in particolare è il rapporto d'amicizia tra i due a risaltare grazie a questo approccio. Ayer ha dimostrato nel corso di tutta la sua carriera di tenere particolarmente al tema dell'amicizia tra uomini, specialmente all'interno di contesti lavorativi e sociali impregnati di machismo e ostentazione della virilità, e in questo lungometraggio la particolare forma adottata risulta estremamente efficace nel ritrarre l'amore fraterno tra due uomini in fondo molto diversi tra loro per carattere, origini etnico-culturali e aspirazioni individuali.
End of Watch probabilmente non possiede la forza magnetica di un cattivo come l'Alonzo Harris di Training Day, l'appeal pop degli antieroi di Suicide Squad o il carisma immediato di Brad Pitt in Fury eppure rappresenta un esempio perfetto di aderenza tra forma e contenuto e sintetizza con efficacia cinematografica più che rilevante la poetica di un Autore, non a caso coinvolto nel progetto nelle vesti di regista, sceneggiatore e persino produttore. Insomma questo è David Ayer, l'uomo cresciuto tra i quartieri criminali di LA e che in ogni sua opera ne mette in mostra la grande e sofferente umanità, con i suoi reietti assorti ad antieroi.
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giovedì 17 gennaio 2019
ONCE A THIEF: JOHN WOO TRA HITCHCOCK E NOUVELLE VAGUE
Prossimo all'apice della prima parte della propria carriera, ovvero quella localizzata a Hong Kong, nel 1991 John Woo dirige una delle pellicole più atipiche della propria filmografia: Once a Thief. Forte proprio del successo ottenuto tramite lavori come A Better Tomorrow (1986) e The Killer (1989) il cineasta riesce a permettersi il suo primo lungometraggio in parte girato all'estero ma il risultato finisce per scontentare le attese, specie quelle dei sempre più numerosi fan occidentali, sentitisi disorientati dall'approccio singolare rispetto alle opere precedenti (almeno quelle più note).
Per l'ennesima volta nella carriera dell'autore cinese il ruolo da protagonista spetta all'attore Chow Yun-fat, interprete in questo caso del ladro professionista Joe, coadiuvato nelle sue imprese e nella vita di tutti i giorni da Jim (Leslie Cheung) e Cheri con i quali è cresciuto, prima sotto i colpi dei duri insegnamenti del padre adottivo (Kenneth Tsang) e poi con le cure amorevoli di un poliziotto che chiamano papà (Kong Chu). I tre si trovano in Francia da qualche tempo per eseguire dei colpi su commissione ma le loro esistenze vengono stravolte da quello che sarebbe dovuto essere il loro ultimo furto.
Fin dalle primissime inquadrature Once a Thief non nasconde affatto la propria volontà di distaccarsi dalle atmosfere cupe, asfissianti e melò dei precedenti lavori di Woo, a partire dalla scelta di ambientare tutta la prima metà del film in Francia e non a Hong Kong. Laddove la metropoli ex colonia britannica costituiva per il regista un set perfetto per i precedenti racconti di violenza urbana grazie a spazi estremamente chiusi e asfissianti Parigi e il paese transalpino, al contrario, gli offrono spiragli di enorme luminosità e vasti ambienti da esaltare attraverso panoramiche e campi lunghissimi in grado di esprimere una leggerezza raramente vista in precedenza. Proprio la leggerezza pare essere il leitmotiv che caratterizza il film in analisi, una sorta di élan vital bergsoniano che filtra da ogni movimento di macchina, dai corpi inquadrati, dalla colonna musica ma soprattutto dal trio di protagonisti. Joe, Jim e Cheri appaiono immediatamente lontani dalle figure tormentate e perennemente in lotta viste in The Killer o Bullet in the Head (1990) e anzi vivono con una gioia quasi primigenia persino il ricordo della loro difficile infanzia, le bugie con cui coprono i loro crimini quando si trovano in compagnia di "papà" e soprattutto il delicato equilibrio nel concetto di nucleo familiare che sono riusciti a crearsi. I tre vivono in fondo un vero e proprio triangolo amoroso e inoltre condividono una doppia figura paterna che da un lato richiama il tema sempre presente in Woo del doppio ma dall'altro viene appunto affrontata con l'assenza di quella vena melò tipica dei lungometraggi precedenti. La stesso triangolo nella narrazione non sfocia mai verso lidi di patetismo o languore noir ma anzi costituisce l'elemento che certifica maggiormente la già citata leggerezza che pervade il film, così come un sottotesto citazionista piuttosto inedito per la prima sezione della carriera dell'autore cinese. Pare impossibile non notare le affinità, persino nei nomi, tra il trio Joe-Jim-Cheri e quello composto da Jules, Jim e Catherine reso immortale da Jules e Jim (Jules et Jim) di Truffaut (con l'unica differenza che il ruolo predominante del personaggio di Jeanne Moreau viene ricoperto da un uomo, ossia Joe), esattamente come la professione di ladri professionisti eleganti e affascinanti non può che riportare alla mente Caccia al ladro (1955) di Alfred Hitchcock, peraltro ambientato proprio in Francia. Non a caso i due maestri sono spesso citati tra le maggiori fonti di ispirazione di Woo, il quale dunque con questo Once a Thief compie un'operazione di omaggio nei confronti del cinema che lo ha reso il regista che oggi viene ammirato in tutto il mondo ma al contempo riflette anche sulla propria carriera, mescolando la vena ironica dai toni slapstick dei suoi primissimi successi con l'azione estetizzata e le riflessioni morali dei suoi grandi successi.
Per l'ennesima volta nella carriera dell'autore cinese il ruolo da protagonista spetta all'attore Chow Yun-fat, interprete in questo caso del ladro professionista Joe, coadiuvato nelle sue imprese e nella vita di tutti i giorni da Jim (Leslie Cheung) e Cheri con i quali è cresciuto, prima sotto i colpi dei duri insegnamenti del padre adottivo (Kenneth Tsang) e poi con le cure amorevoli di un poliziotto che chiamano papà (Kong Chu). I tre si trovano in Francia da qualche tempo per eseguire dei colpi su commissione ma le loro esistenze vengono stravolte da quello che sarebbe dovuto essere il loro ultimo furto.
Fin dalle primissime inquadrature Once a Thief non nasconde affatto la propria volontà di distaccarsi dalle atmosfere cupe, asfissianti e melò dei precedenti lavori di Woo, a partire dalla scelta di ambientare tutta la prima metà del film in Francia e non a Hong Kong. Laddove la metropoli ex colonia britannica costituiva per il regista un set perfetto per i precedenti racconti di violenza urbana grazie a spazi estremamente chiusi e asfissianti Parigi e il paese transalpino, al contrario, gli offrono spiragli di enorme luminosità e vasti ambienti da esaltare attraverso panoramiche e campi lunghissimi in grado di esprimere una leggerezza raramente vista in precedenza. Proprio la leggerezza pare essere il leitmotiv che caratterizza il film in analisi, una sorta di élan vital bergsoniano che filtra da ogni movimento di macchina, dai corpi inquadrati, dalla colonna musica ma soprattutto dal trio di protagonisti. Joe, Jim e Cheri appaiono immediatamente lontani dalle figure tormentate e perennemente in lotta viste in The Killer o Bullet in the Head (1990) e anzi vivono con una gioia quasi primigenia persino il ricordo della loro difficile infanzia, le bugie con cui coprono i loro crimini quando si trovano in compagnia di "papà" e soprattutto il delicato equilibrio nel concetto di nucleo familiare che sono riusciti a crearsi. I tre vivono in fondo un vero e proprio triangolo amoroso e inoltre condividono una doppia figura paterna che da un lato richiama il tema sempre presente in Woo del doppio ma dall'altro viene appunto affrontata con l'assenza di quella vena melò tipica dei lungometraggi precedenti. La stesso triangolo nella narrazione non sfocia mai verso lidi di patetismo o languore noir ma anzi costituisce l'elemento che certifica maggiormente la già citata leggerezza che pervade il film, così come un sottotesto citazionista piuttosto inedito per la prima sezione della carriera dell'autore cinese. Pare impossibile non notare le affinità, persino nei nomi, tra il trio Joe-Jim-Cheri e quello composto da Jules, Jim e Catherine reso immortale da Jules e Jim (Jules et Jim) di Truffaut (con l'unica differenza che il ruolo predominante del personaggio di Jeanne Moreau viene ricoperto da un uomo, ossia Joe), esattamente come la professione di ladri professionisti eleganti e affascinanti non può che riportare alla mente Caccia al ladro (1955) di Alfred Hitchcock, peraltro ambientato proprio in Francia. Non a caso i due maestri sono spesso citati tra le maggiori fonti di ispirazione di Woo, il quale dunque con questo Once a Thief compie un'operazione di omaggio nei confronti del cinema che lo ha reso il regista che oggi viene ammirato in tutto il mondo ma al contempo riflette anche sulla propria carriera, mescolando la vena ironica dai toni slapstick dei suoi primissimi successi con l'azione estetizzata e le riflessioni morali dei suoi grandi successi.
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lunedì 14 gennaio 2019
PEREZ.: NEO-NOIR ALL'OMBRA DELLO SKYLINE NAPOLETANO
All'interno del cinema italiano vi è senza alcun dubbio una notevole effervescenza proveniente dai grandi centri urbani del Meridione e in particolare la scena campana attualmente gode di ottima salute e fortuna, complice anche lo sdoganamento tra grande e piccolo schermo delle narrazioni ambientate tra le violente faide camorristiche. In parte connesso proprio a questo filone crime ma ben diverso per impostazione narratologica e poetica è Perez., secondo lungometraggio, risalente al 2014, di uno dei protagonisti dell'attuale settima arte nostrana, Edoardo De Angelis. Prodotto in parte dal suo protagonista assoluto Luca Zingaretti, il film costituisce un successo sia di critica che di pubblico per il regista partenopeo, candidato a numerosi premi e in grado di confermare il talento del suo autore fino alla definitiva consacrazione con il successivo Indivisibili (2016).
In piena medias res la pellicola mostra l'avvocato napoletano Demetrio Perez (Luca Zingaretti) alle prese con una crisi personale, oltre che lavorativa sempre più grave. Dopo essere stato abbandonato dalla moglie e costretto da nemici potenti a diventare l'ultimo dei difensori d'ufficio l'uomo si trova a doversi districare tra la relazione amorosa che lega la figlia Tea (Simona Tabasco) al figlio di un boss della camorra (Francesco Corvino, interpretato da Marco D'Amore) e le surreali pretese di un suo cliente, il pentito Luca Buglione (Massimiliano Gallo).
In seguito al successo ottenuto nel 2002 da Matteo Garrone con L'imbalsamatore e nel 2005 da Romanzo Criminale di Michele Placido il nostro paese ha conosciuto una fioritura estesa del genere neo-noir e, in parte come accaduto in un paese lontano in ogni accezione possibile della parola come la Corea del sud, in particolare molti autori meridionali hanno adottato gli stilemi di tale postgenere per poter leggere la contemporaneità di ambienti complessi come le metropoli Roma e Napoli. Perez. non rinnega neanche per un secondo la propria discendenza da quel bacino cinematografico sorto agli albori della New Hollywood grazia ad autori quali Don Siegel e William Friedkin, così come la sua evoluzione italiana ma nell'attingere a piene mani da un bagaglio di situazioni e immagini riesce nell'impresa non così banale di trovare una propria strada. De Angelis dimostra fin dalle prime inquadrature di conoscere profondamente il cinema americano decidendo di adattare alla sua poetica e al suo ricercatissimo stile la capacità di alterare, di rendere ambiguo e perturbante l'ambiente tramite un uso antinaturalistico della luce da parte di uno dei maestri assoluti del noir: Robert Siodmak. Esattamente come il regista tedesco trapiantato negli USA l'autore napoletano dipinge un mondo completamente oscuro, tagliato di netto da ombre oblique in grado di trasformare in un luogo sinistro e fantasmatico persino una città meravigliosamente solare e soleggiata quale il capoluogo campano. La macchina da presa di De Angelis si concentra soprattutto sui grattacieli e gli elevati palazzi che costituiscono il centro direzionale, una modernissima zona di Napoli le cui architetture avanguardistiche spiccano quasi come una navicella aliena depositata tra gli edifici storici della città e il degrado di alcune strade limitrofi fino a diventare, grazie all'uso sapiente del chiaroscuro, quasi un tessuto ambientale neogotico di burtoniana memoria. Napoli dunque, insieme a Castelvolturno (luogo topico ormai del cinema crime italiano), diventa co-protagonista del film o meglio un vero e proprio doppio del personaggio interpretato da Zingaretti, la cui nichilistica visione del mondo si traduce nel filtro che trasforma anche i luoghi nei quali si muove, come uno spettro che vaga all'interno di un vecchio castello. La patria di giganti della comicità quali Totò ed Eduardo De Filippo si tramuta in un non-luogo, una magione infestata solamente da fantasmi che si muovono senza sosta, senza vita tentando invano di trovare un contatto che sia realmente umano. All'interno di questo desolato orizzonte ritratto da De Angelis nessuno pare immune al male, né avvocati integerrimi, né giovani volenterosi colpevoli solamente di essere nati nella famiglia sbagliata, eppure una luce di speranza nel finale pare finalmente accendersi: il piano sequenza conclusivo svela inequivocabilmente come l'unica via di uscita da un buio inferno sulla Terra sia l'amore tra un padre e una figlia.
Perez. tirando le somme rappresenta un suggestivo viaggio attraverso l'interiorizzazione e la contemporanea esteriorizzazione del dolore di un uomo e di una città intera, legati indissolubilmente, senza però nascondere cinicamente come sia possibile un certo riscatto, persino tra gli spettri che infestano il centro direzionale napoletano.
In piena medias res la pellicola mostra l'avvocato napoletano Demetrio Perez (Luca Zingaretti) alle prese con una crisi personale, oltre che lavorativa sempre più grave. Dopo essere stato abbandonato dalla moglie e costretto da nemici potenti a diventare l'ultimo dei difensori d'ufficio l'uomo si trova a doversi districare tra la relazione amorosa che lega la figlia Tea (Simona Tabasco) al figlio di un boss della camorra (Francesco Corvino, interpretato da Marco D'Amore) e le surreali pretese di un suo cliente, il pentito Luca Buglione (Massimiliano Gallo).
In seguito al successo ottenuto nel 2002 da Matteo Garrone con L'imbalsamatore e nel 2005 da Romanzo Criminale di Michele Placido il nostro paese ha conosciuto una fioritura estesa del genere neo-noir e, in parte come accaduto in un paese lontano in ogni accezione possibile della parola come la Corea del sud, in particolare molti autori meridionali hanno adottato gli stilemi di tale postgenere per poter leggere la contemporaneità di ambienti complessi come le metropoli Roma e Napoli. Perez. non rinnega neanche per un secondo la propria discendenza da quel bacino cinematografico sorto agli albori della New Hollywood grazia ad autori quali Don Siegel e William Friedkin, così come la sua evoluzione italiana ma nell'attingere a piene mani da un bagaglio di situazioni e immagini riesce nell'impresa non così banale di trovare una propria strada. De Angelis dimostra fin dalle prime inquadrature di conoscere profondamente il cinema americano decidendo di adattare alla sua poetica e al suo ricercatissimo stile la capacità di alterare, di rendere ambiguo e perturbante l'ambiente tramite un uso antinaturalistico della luce da parte di uno dei maestri assoluti del noir: Robert Siodmak. Esattamente come il regista tedesco trapiantato negli USA l'autore napoletano dipinge un mondo completamente oscuro, tagliato di netto da ombre oblique in grado di trasformare in un luogo sinistro e fantasmatico persino una città meravigliosamente solare e soleggiata quale il capoluogo campano. La macchina da presa di De Angelis si concentra soprattutto sui grattacieli e gli elevati palazzi che costituiscono il centro direzionale, una modernissima zona di Napoli le cui architetture avanguardistiche spiccano quasi come una navicella aliena depositata tra gli edifici storici della città e il degrado di alcune strade limitrofi fino a diventare, grazie all'uso sapiente del chiaroscuro, quasi un tessuto ambientale neogotico di burtoniana memoria. Napoli dunque, insieme a Castelvolturno (luogo topico ormai del cinema crime italiano), diventa co-protagonista del film o meglio un vero e proprio doppio del personaggio interpretato da Zingaretti, la cui nichilistica visione del mondo si traduce nel filtro che trasforma anche i luoghi nei quali si muove, come uno spettro che vaga all'interno di un vecchio castello. La patria di giganti della comicità quali Totò ed Eduardo De Filippo si tramuta in un non-luogo, una magione infestata solamente da fantasmi che si muovono senza sosta, senza vita tentando invano di trovare un contatto che sia realmente umano. All'interno di questo desolato orizzonte ritratto da De Angelis nessuno pare immune al male, né avvocati integerrimi, né giovani volenterosi colpevoli solamente di essere nati nella famiglia sbagliata, eppure una luce di speranza nel finale pare finalmente accendersi: il piano sequenza conclusivo svela inequivocabilmente come l'unica via di uscita da un buio inferno sulla Terra sia l'amore tra un padre e una figlia.
Perez. tirando le somme rappresenta un suggestivo viaggio attraverso l'interiorizzazione e la contemporanea esteriorizzazione del dolore di un uomo e di una città intera, legati indissolubilmente, senza però nascondere cinicamente come sia possibile un certo riscatto, persino tra gli spettri che infestano il centro direzionale napoletano.
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venerdì 11 gennaio 2019
DOUBLE IMPACT: QUANDO HOLLYWOOD SCIMMIOTTAVA HONG KONG
Al tramonto degli anni Ottanta i paesi occidentali, particolarmente gli Stati Uniti, conobbero una ondata di fascinazione verso il cinema action cinese paragonabile solamente a quanto accaduto nei primi Settanta con il fenomeno Bruce Lee. A conquistare i palati dei cinefili statunitensi in quel periodo fu soprattutto le filmografie di alcuni autori attivi a Hong Kong capaci di rileggere i canoni di generi di matrice americana come il crime movie e il noir attraverso un'estetizzazione estrema degli scontri, sia a fuoco che a mani nude, e codici narrativi autoctoni. Non a caso i maestri di tale fenomeno quali John Woo, Tsui Hark e Ringo Lam finirono tutti, con alterne fortune, per attraversare l'oceano e varcare le soglie di Hollywood, dovendosi purtroppo per loro scontrare con una realtà produttiva in cui i registi di pellicole di genere avevano ben poca libertà rispetto alle direttive degli Studios. Insomma l'invasione cinese degli States si rivelò una vittoria di Pirro della durata di una manciata di anni eppure, proprio in quanto tale, nei prim anni Novanta l'industria statunitense sfornò una lunga serie di prodotti che tentavano di coniugare il cinema muscolare cementato nel decennio precedente da star del calibro di Arnold Schwarzenegger e Sylvester Stallone con l'estetica ricercata proveniente dall'Oriente. All'interno di questo filone si ascrive pienamente Double Impact, scritto e diretto nel 1991 da Sheldon Lettich, campione di incassi con più di ottanta milioni di dollari ma demolito da gran parte della critica, certamente non molto benevola con la stragrande maggioranza delle apparizioni sul grande schermo di Jean-Claude Van Damme.
Proprio il campione di arti marziali proveniente dal Belgio interpreta entrambi i protagonisti del film, i gemelli Chad e Alex Wagner, divisi praticamente alla nascita durante un agguato mortale teso ai loro genitori dall'imprenditore Nigel Griffith e dal malavitoso Raymond Zhang (Philip Chan) per poter accaparrarsi il controllo di un tunnel di importanza fondamentale per Hong Kong. Chad viene cresciuto a Los Angeles da Frank (Geoffrey Lewis), guardia del corpo dei suoi genitori, senza sapere nulla del fratello o di come sia stato reso orfano ma quando il genitore putativo scopre finalmente dove si trova Alex gli viene finalmente raccontata la verità e dunque parte proprio per la Cina dove Frank ha in mente di riunire i gemelli in una vendetta meditata per ben venticinque anni.
L'attrazione principale, quella maggiormente pubblicizzata all'epoca così come la caratteristica maggiormente ricordata dai cultori, di questo Double Impact risiede senza alcun dubbio nella scelta di affidare un doppio ruolo a Van Damme, costringendolo non solo a una doppia presenza sul set ma soprattutto a dover caratterizzare due personaggi completamente opposti: se Chad, cresciuto senza alcun problema economico a Los Angeles sotto la guida severa ma amorevole di Frank, si dimostra immediatamente un ragazzo piuttosto immaturo, in parte viziato e abituato agli agi della propria condizione economica Alex invece ne rappresenta l'estremo opposto, un contrabbandiere indurito da una vita passata a guardarsi le spalle da tutti e dalla consapevolezza di poter contare solo su se stesso per sopravvivere. L'unica cosa che accomuna i due fratelli sembra essere l'ovvia abilità nelle arti marziali, eppure anche quando si tratta di menare le mani (soprattutto i piedi quando si tratta di JCVD) ognuno dimostra un proprio stile ben definito e che rispecchia il carattere del suo utilizzatore, come ben si evince dalla predisposizione all'uso delle armi e a una maggiore brutalità da parte del gemello cresciuto in Cina rispetto alla predilezione nei confronti della bella forma nei calci della controparte statunitense. Insomma una sfida tutt'altro che banale per un lottatore da poco affacciatosi al mondo della recitazione che all'epoca non scaldò i giudizi della critica ma che conquistò il pubblico al punto da convincere i produttori hollywoodiani a ripetere l'espediente anche in altre pellicole, una conseguenza che evidentemente conferma la bontà del lavoro svolto dal belga, specialmente per quanto concerne proprio i momenti estranei al combattimento, nei quali dimostra per la prima volta in carriera una certa predisposizione verso una recitazione da caratterista particolarmente efficace nel tratteggiare il burbero Alex, la cui espressione arcigna con sigaro abbinato e alcune smorfie chiaramente figlie del modello De Niro gli sono state utili anche molti anni dopo per interpretare il primo villain della sua filmografia, Jean Vilain (il nome dice tutto) de I mercenari 2 (The Expendables 2, Simon West, 2012).
Al di là della grande novità legata al doppio ruolo della star del film appare chiaro, sia narrativamente come formalmente, quanto l'operato di Lettich sia ispirato alle pellicole del precedentemente menzionato John Woo. La sequenza di apertura viene ambientata proprio a Hong Kong, patria e ambientazione archetipica dell'autore di The Killer (1989), e nello scontro a fuoco tra Frank e i sicari colpevoli dell'omicidio dei genitori dei protagonisti il personaggio dal volto di Geoffrey Lewis impugna con sicurezza due pistole, la carta da visita dei personaggi interpretati da Chow Yun-fat nei più celebri lungometraggi del cineasta cinese. Come ormai da tradizione per il cinema contemporaneo l'apertura rappresenta un vero e proprio prologo, una sorta di promessa di ciò che lo spettatore si appresa a trovare nel resto del lungometraggio e Double Impact non fa eccezione: l'intera pellicola risulta colma di omaggi al cinema di Woo (si pensi anche all'attore Philip Chan) e in particolare le sequenze d'azione non risparmiano l'utilizzo del ralenti, il vezzo d'autore più noto del regista di Hong Kong. Certo, è bene evidenziarlo, molti di questi caratteri in comune restano solamente, per l'appunto, omaggi o semplici strizzate d'occhio verso un modo di fare cinema action divenuto iconico e di gran moda in quel periodo ma trovo innegabile la costante leggibilità delle inquadrature anche nei momenti più frenetici e la capacità del regista americano di districarsi con equilibrio tra il calco di un maestro, la propria sensibilità e i canoni della produzione mainstream del proprio paese. Non è per niente semplice riuscire a coniugare, ad esempio, l'esplorazione dell'amicizia virile tipica di Woo con l'esigenza hollywoodiana di una love story ben chiara e Lettich, tramite un'ottima dose di ironia, si destreggia in questo compito creando un triangolo amoroso tra i due gemelli e Danielle, la compagna di Alex, che in realtà esiste solamente nella mente di quest'ultimo a causa della sua diffidenza verso il prossimo ma anche per colpa di un equivoco "hot" che coinvolge il trio nel momento in cui si conoscono da vera commedia brillante.
In definitiva non posso e non voglio certo attribuire a Double Impact grandi pretese autoriali o caricarlo della poetica e dello stile inconfondibile presente in ogni singolo film di John Woo, eppure negare che nei suoi 107 minuti questa pellicola riesca a intrattenere prendendo in prestito motivi narrativi ed estetici da un maestro del genere sarebbe altrettanto scorretto e dunque tra un Antonioni e un Godard lunga vita anche a questo tipo di settima arte.
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giovedì 10 gennaio 2019
GOOD TIME: UNA NOTTE NELL'INFERNO DEGLI EMARGINATI
Tra i titoli in concorso per la Palma d'oro al Festival di Cannes del 2017 riescono a trovare un posto anche i due fratelli Benny e Josh Safdie, coppia piuttosto nota tra i festival di cinema indipendente americani ma ancora poco conosciuti in Europa. Una situazione destinata a cambiare proprio grazie alla pellicola presentata alla manifestazione cinematografica transalpina: Good Time (2017). Quello che a oggi è il loro ultimo lavoro ottiene infatti recensioni entusiastiche da parte della critica di tutto il mondo, si aggiudica il premio per la miglior colonna musica a Cannes e, complice la presenza di una star del calibro di Robert Pattinson, riesce a incontrare un pubblico insolitamente vasto per i canoni dei due cineasti americani, sebbene in Italia il lungometraggio sia distribuito solamente tramite Netflix.
Nel corso di un giorno e di una notte la cinepresa segue le disavventure di Connie (Robert Pattinson) e Nick (Ben Safdie), due fratelli che vivono ai margini con espedienti tutt'altro che legali. Nick soffre di evidenti disabilità psichiche e per questo viene presentato in terapia ma il fratello lo porta via dallo studio del terapeuta per coinvolgerlo in una rapina in banca. Mentre si allontanano con il denaro ottenuto una bomba di vernice contenuta nelle banconote esplode causando un incidente nel quale muore l'autista assunto per la rapina e dando il via a una serie di complicazioni che portano all'arresto del più fratello più in difficoltà. Connie non intende lasciare Nick in carcere e dunque cerca in ogni modo di pagare la cauzione per il suo rilascio, coinvolgendo addirittura la sua stralunata ragazza Corey (Jennifer Jason Leigh), ma quando si rende conto di non avere alcuna possibilità di reperire la cifra necessaria decide di portare via il fratello, approfittando del suo ricovero in ospedale in seguito a una rissa con altri detenuti.
Pur essendo ambientato a New York e muovendosi tra alcuni topoi del cinema crime statunitense (la rapina, la rissa in carcere, il recupero di una partita di droga ecc.) Good Time si allontana nettamente dal genere, in particolare rifiutando uno degli aspetti insiti nelle storie di gangster a stelle e strisce: la patina glamour. Nella tradizione di questo genere nata negli USA e in seguito importata e riletta anche in paesi come la Francia (si pensi a Melville e al cosiddetto polar) o la Cina (John Woo su tutti) le azioni deprecabili e in generale la caratterizzazione dei malavitosi protagonisti vengono rivestiti di un alone fascinoso in grado di instaurare con il pubblico un rapporto di rispetto e attrazione verso figure che da un punto di vista etico sono facilmente riconoscibili come negative e che negli altri generi del cinema classico verrebbero dipinte in modo da risultare sgradite allo spettatore. Personaggi come Connie o lo spacciatore Ray (Buddy Duress) vengono ritratti senza alcun filtro che tenti di renderli epici o almeno affascinanti ma anzi ne viene sottolineato l'aspetto più disgraziato, l'appartenenza a un ceto sociale tutt'altro che distinto, il basso tasso di scolarizzazione e la tendenza a sfruttare qualsiasi espediente pur di arrivare a un profitto pecuniario. Nonostante tutto questo i Safdie, coadiuvati da un'interpretazione eccezionale di Pattinson, riescono a far esplodere la grande umanità di questi criminali sottoproletari, il loro cinismo legato soprattutto a un'ambiente nel quale vige ancora la legge del più forte che contrasta con l'innegabile amore fraterno che lega la coppia di sgangherati criminali protagonisti, sicuramente influenzato dal feeling che unisce proprio i due registi (non a caso Nick è interpretato proprio da uno dei due).
La macchina da presa , complice anche la scelta ben ponderata di evitare quasi del tutto ellissi temporali, si muove alternando piani di notevole suggestione visiva a primi piani spesso fuori asse che donano al film un assetto quasi da cinéma vérité, riportando alla memoria i primi lavori dei maestri della New Hollywood quali Martin Scorsese, Brian de Palma e Sidney Lumet, tutti autori di opere in grado di indagare gli umori e le atmosfere dei quartieri più popolari di New York senza mai porre giudizi di carattere morale sulle anime che li popolano. Allo stesso modo i fratelli Safdie delineano un lungometraggio nel quale la coppia di protagonisti sembra quasi essere stata scelta per puro caso tra gli altri migliaia di personaggi che vivono di espedienti come loro in un milieu messo volontariamente ai margini dai ceti più benestanti e istruiti della stessa città, come ben si evince dalla caratterizzazione dello psichiatra che cura Nick: un uomo armato di buone intenzioni (almeno all'apparenza) ma che sembra guardare ai propri pazienti con una sorta di distacco, una distanza di sicurezza sintomo di un pregiudizio nei confronti di queste persone. Persino il ricorso costante a un'illuminazione apparentemente antinaturalistica ricca di colori saturi e neon svolge egregiamente la funzione di richiamare l'attenzione dello spettatore non soltanto sui casi particolari di Connie, suo fratello e tutte le vite al limite che incontra nel corso del film ma sull'intero ecosistema rappresentato dai sobborghi più degradati della metropoli americana, della quale proprio le luci colorate rappresentano un simbolo inequivocabile.
Good Time può essere dunque ascritto a una tradizione ben consolidata di indagine, quasi antropologica, sui diversi, gli emarginati che popolano le zone meno pubblicizzate delle megalopoli occidentali che trova i suoi epigoni in figure di spicco del cinema mondiale come i già citati autori della New Hollywood o il francese Mathieu Kassovitz ma mostra la chiara impronta dei propri autori, come dimostra anche l'ipnotica colonna musica realizzata dal compositore Oneothrix Point Never.
Nel corso di un giorno e di una notte la cinepresa segue le disavventure di Connie (Robert Pattinson) e Nick (Ben Safdie), due fratelli che vivono ai margini con espedienti tutt'altro che legali. Nick soffre di evidenti disabilità psichiche e per questo viene presentato in terapia ma il fratello lo porta via dallo studio del terapeuta per coinvolgerlo in una rapina in banca. Mentre si allontanano con il denaro ottenuto una bomba di vernice contenuta nelle banconote esplode causando un incidente nel quale muore l'autista assunto per la rapina e dando il via a una serie di complicazioni che portano all'arresto del più fratello più in difficoltà. Connie non intende lasciare Nick in carcere e dunque cerca in ogni modo di pagare la cauzione per il suo rilascio, coinvolgendo addirittura la sua stralunata ragazza Corey (Jennifer Jason Leigh), ma quando si rende conto di non avere alcuna possibilità di reperire la cifra necessaria decide di portare via il fratello, approfittando del suo ricovero in ospedale in seguito a una rissa con altri detenuti.
Pur essendo ambientato a New York e muovendosi tra alcuni topoi del cinema crime statunitense (la rapina, la rissa in carcere, il recupero di una partita di droga ecc.) Good Time si allontana nettamente dal genere, in particolare rifiutando uno degli aspetti insiti nelle storie di gangster a stelle e strisce: la patina glamour. Nella tradizione di questo genere nata negli USA e in seguito importata e riletta anche in paesi come la Francia (si pensi a Melville e al cosiddetto polar) o la Cina (John Woo su tutti) le azioni deprecabili e in generale la caratterizzazione dei malavitosi protagonisti vengono rivestiti di un alone fascinoso in grado di instaurare con il pubblico un rapporto di rispetto e attrazione verso figure che da un punto di vista etico sono facilmente riconoscibili come negative e che negli altri generi del cinema classico verrebbero dipinte in modo da risultare sgradite allo spettatore. Personaggi come Connie o lo spacciatore Ray (Buddy Duress) vengono ritratti senza alcun filtro che tenti di renderli epici o almeno affascinanti ma anzi ne viene sottolineato l'aspetto più disgraziato, l'appartenenza a un ceto sociale tutt'altro che distinto, il basso tasso di scolarizzazione e la tendenza a sfruttare qualsiasi espediente pur di arrivare a un profitto pecuniario. Nonostante tutto questo i Safdie, coadiuvati da un'interpretazione eccezionale di Pattinson, riescono a far esplodere la grande umanità di questi criminali sottoproletari, il loro cinismo legato soprattutto a un'ambiente nel quale vige ancora la legge del più forte che contrasta con l'innegabile amore fraterno che lega la coppia di sgangherati criminali protagonisti, sicuramente influenzato dal feeling che unisce proprio i due registi (non a caso Nick è interpretato proprio da uno dei due).
La macchina da presa , complice anche la scelta ben ponderata di evitare quasi del tutto ellissi temporali, si muove alternando piani di notevole suggestione visiva a primi piani spesso fuori asse che donano al film un assetto quasi da cinéma vérité, riportando alla memoria i primi lavori dei maestri della New Hollywood quali Martin Scorsese, Brian de Palma e Sidney Lumet, tutti autori di opere in grado di indagare gli umori e le atmosfere dei quartieri più popolari di New York senza mai porre giudizi di carattere morale sulle anime che li popolano. Allo stesso modo i fratelli Safdie delineano un lungometraggio nel quale la coppia di protagonisti sembra quasi essere stata scelta per puro caso tra gli altri migliaia di personaggi che vivono di espedienti come loro in un milieu messo volontariamente ai margini dai ceti più benestanti e istruiti della stessa città, come ben si evince dalla caratterizzazione dello psichiatra che cura Nick: un uomo armato di buone intenzioni (almeno all'apparenza) ma che sembra guardare ai propri pazienti con una sorta di distacco, una distanza di sicurezza sintomo di un pregiudizio nei confronti di queste persone. Persino il ricorso costante a un'illuminazione apparentemente antinaturalistica ricca di colori saturi e neon svolge egregiamente la funzione di richiamare l'attenzione dello spettatore non soltanto sui casi particolari di Connie, suo fratello e tutte le vite al limite che incontra nel corso del film ma sull'intero ecosistema rappresentato dai sobborghi più degradati della metropoli americana, della quale proprio le luci colorate rappresentano un simbolo inequivocabile.
Good Time può essere dunque ascritto a una tradizione ben consolidata di indagine, quasi antropologica, sui diversi, gli emarginati che popolano le zone meno pubblicizzate delle megalopoli occidentali che trova i suoi epigoni in figure di spicco del cinema mondiale come i già citati autori della New Hollywood o il francese Mathieu Kassovitz ma mostra la chiara impronta dei propri autori, come dimostra anche l'ipnotica colonna musica realizzata dal compositore Oneothrix Point Never.
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giovedì 3 gennaio 2019
CHIAMAMI COL TUO NOME: IL CARME BUCOLICO SUL PRIMO AMORE DI GUADAGNINO
Alla stregua di quanto accaduto a Paolo Sorrentino durante la seconda metà della carriera, Luca Guadagnino è ormai da alcuni anni un autore molto stimato negli Stati Uniti ma piuttosto criticato in patria, dove, proprio come il collega napoletano, viene attaccato da molti cinefili e firme del settore per un presunto manierismo, una imputata impostazione cinematografica estetizzante volta a nascondere lacune di carattere narrativo e poetico. Quasi come a voler rispondere con i fatti a certe accuse, alquanto banali a mio modesto parere, il cineasta palermitano per il suo ultimo film si affida a uno sceneggiatore di grande affidabilità quale James Ivory per poi modificarne profondamente lo script fino a renderlo una perfetta sintesi delle visioni dei due autori: il risultato finale è Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name). La pellicola, una co-produzione tra USA e Italia, viene distribuita negli States nel 2017, dopo un'accoglienza trionfale al Sundance, mentre in Italia arriva solamente nel 2018, con il vento in poppa delle recensioni entusiastiche nel resto del mondo e un ottimo risultato al botteghino.
Il film, che adatta l'omonimo romanzo realizzato da André Aciman nel 2007, si concentra sull'estate del 1983 vissuta da Elio (Timothéè Chalamet), diciassettenne di famiglia italoamericana di matrice ebraica che trascorre ogni anno le vacanze estive in una piccola cittadina immersa nelle campagne del nord Italia, e in particolare sui giorni trascorsi insieme a Oliver (Armie Hammer), studente ospitato dal padre (un professore di archeologia interpretato da Michael Stuhlbarg) durante i preparativi della sua tesi di dottorato. Il giovane protagonista, inizialmente indispettito dalla spavalderia e dal carisma dell'ospite, sente crescere un'attrazione sempre più forte verso il dottorando americano fino a rendersi conto di esserne innamorato e persino ricambiato, sebbene entrambi abbiano relazioni eterosessuali più o meno serie in corso. Nonostante sappiano di non poter esporsi troppo davanti agli estranei e che la presenza di Oliver in Italia è destinata a svanire nel giro di poche settimane i due scelgono di vivere la loro avventura, grazie anche all'appoggio, tutt'altro che scontato, dei genitori di Elio.
Dopo il languido A Bigger Splash (2015) Guadagnino realizza quello che potrebbe essere quasi il contraltare, il polo opposto della pellicola con Ralph Fiennes con Chiamami col tuo nome. Dall'estremo sud Italia di Pantelleria la pellicola in analisi si sposta nell'entroterra lombardo, da un presente quasi atemporale a un passato non troppo remoto in cui i richiami espliciti e filologicamente precisi sono una costante (dall'abbigliamento alla musica new wave passando per le strampalate discussioni su Bettino Craxi) ma soprattutto la cinepresa del cineasta palermitano smette di raccontare le torbide ossessioni di artisti in crisi di mezz'età per mettere in scena quella fase così candida e pure costituita dalla scoperta dell'amore. Certo non mancano anche in questo caso gli ambienti altoborghesi già visti nei precedenti lungometraggi e certi disquisizioni abbastanza spocchiose su arte, filosofia o letteratura che tanto innervosiscono i detrattori del Guadagnino-style ma si tratta soltanto di piccoli vezzi, di vizietti da rockstar assolutamente trascurabili dinanzi alla leggiadria e all'eleganza sinuosa quasi preraffaelita con la quale viene portato sul grande schermo il primo amore di un adolescente e la maturazione, anche dolorosa che ne consegue. La sceneggiatura originale di Ivory pare che presentasse una maggiore enfasi sul lato carnale della relazione tra Elio e Oliver e dunque un maggior numero di momenti sessuali espliciti e di nudi totali degli attori, una scelta certamente più vicina al gusto dell'autore statunitense e anche a quello di una buona fetta di pubblico "da festival". La maturità autoriale raggiunta da Guadagnino diventa dunque ben evidente proprio nella scelta di tagliare questa esplicitazione non solo per evidenti fini commerciali ma soprattutto per distanziare l'opera da A Bigger Splash, i cui nudi frontali di Fiennes trovavano una propria ragion d'essere nella natura provocatoria e decadente dei personaggi. La coppia interpretata da Chalament e Hammer rappresenta al contrario una sorta di versione contemporanea, adattata al terzo millennio, dell'amore cantato dalla poesia bucolica e pastorale che ha attraversato secoli della cultura occidentale, trovando una chiara fonte d'ispirazione soprattutto nelle leggiadre composizioni riconducibili all'Aminta del Tasso e alla successiva proliferazione arcadiche. Elio e Oliver imparano ad accettare i sentimenti che provano l'uno per l'altro all'interno di un ambiente certamente inserito all'interno di un ben delineato contesto geografico e temporale ma contemporaneamente la macchina da presa, con i suoi movimenti sinuosi e i lunghi piani sequenza, e la fotografia resa estremamente calda dall'uso costante di una forte illuminazione naturale rendono il piccolo sobborgo lombardo un luogo alieno, una vera e propria Arcadia che travalica la realtà fattuale per farsi epica, poesia, mito. All'interno di un contesto tanto vicino ai carmi pastorali non vi è spazio per quelle tentazioni maligne e le preoccupazioni che derivano dalla civilizzazione e dalla vita in città: se nelle ecloghe virgiliane il Male era rappresentato dal caos e dalla corruzione della politica nel film in analisi a essere escluse dall'idilliaco Eden nel Cremasco sono tutti quei pregiudizi e quelle convenzioni sociali che riaffiorano solamente nel finale, quando purtroppo Elio è costretto a sopportare la notizia delle imminenti nozze dell'uomo che ama. Non a caso il loro rapporto si spezza non appena uno dei due abbandona la piccola oasi in mezzo a un mondo meschino come quello dell'uomo contemporaneo, rimarcando in maniera definitiva la scelta di chiaro carattere poetico dietro alla forma leggiadra e rarefatta adottata da Guadagnino.
Probabilmente non piacerà a tutti, specie per i suoi ritmi così distesi e la vocazione lirica a omettere dal profilmico la sessualità più esplicita, eppure Call Me by Your Name è la risposta a chiunque credesse che l'autore di Io sono l'amore (2009) sapesse solo creare belle immagini.
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