mercoledì 29 marzo 2023

UNDER THE SILVER LAKE: LO SMARRIMENTO DI UN'INTERA GENERAZIONE

Nell'era del web 2.0, della democratizzazione dell'arte e delle piattaforme di streaming che aumentano considerevolmente la vita di ciascuna pellicola sembra incredibile che gli italiani abbiano potuto godere di una distribuzione ufficiale di Under the Silver Lake (David Robert Mitchell, 2018) solamente a distanza di ben cinque anni dall'uscita ufficiale. Eppure si tratta di un'opera candidata alla Palma d'oro a Cannes e preceduta da It Follows (2014), che aveva posto le basi per il successo di quell'horror americano d'autore che ha reso la A24 una delle case di produzione più in voga del decennio, tanto da arrivare all'Oscar per il miglior film quest'anno. Nonostante un'accoglienza altalenante da parte della critica e uno scarso risultato al box office, il film ha rapidamente acquisito un seguito da cult movie tra gli appassionati e adesso scopriremo perché.

Protagonista del lungometraggio è Sam (Andrew Garfield), trentenne losangelino che passa le giornate a oziare, principalmente cercando messaggi subliminali in vecchi programmi televisivi o facendo sesso con un'aspirante attrice (Riki Lindhome). Una sera trova il coraggio di avvicinare la sua nuova vicina di casa, Sarah (Riley Keough), con la quale trova un'inattesa affinità ma che il giorno seguente sparisce senza lasciare alcuna traccia. Il giovane decide dunque di lanciarsi nella ricerca di quest'ultima, finendo in un esteso sottobosco che lega tra di loro showbiz e senzatetto della città.

Analizzare la narrazione di Under the Silver Lake risulta un'operazione davvero ardua, così come può essere per lo spettatore riuscire a tenere il passo dei continui salti mortali di un impianto assolutamente anticlassico, il cui unico fil rouge risiede in Sam, le cui peregrinazione da un lato all'altro di Los Angeles ricordano quelle di Joaquin Phoenix in Vizio di forma (Inherent Vice, Paul Thomas Anderson, 2014). Quello che potrebbe sembrare un racconto ipertrofico, che procede per accumulo sfilacciandosi fino a superare le ambizioni dell'autore in realtà si rivela semplicemente la più coerente realizzazione dell'imperituro senso di smarrimento provato dal protagonista, assorto a sineddoche di un'intera generazione di millennials arrivata alla soglia dei trent'anni senza aver trovato alcuna Stele di Rosetta in grado di rendere leggibile il mondo lasciatogli da padri e nonni. Proprio come i protagonisti della saga di Scream, il giovane dal volto di Andrew Garfield tenta di rintracciare dei possibili significati all'interno della cultura pop in quanto unici strumenti con i quali sembra poter analizzare la vita ma anche quest'ultimo appiglio naufraga dolorosamente quando scopre che persino dietro un simbolo di ribellione giovanile come i Nirvana si nasconde il Compositore (Jeremy Bobb), simbolo di quelle generazioni precedenti che manovrano le vite dei figli come dei burattinai da teoria complottista. 
Impossibile dunque scindere a livello teoretico la pellicola dal precedente It Follows, del quale riprende proprio la dialettica generazionale, aggiornandola però ai giovani adulti rispetto agli adolescenti e trasportandola nel cuore della Mecca del cinema, che domina ogni singola inquadratura ma finendo per essere decostruito e smitizzato, proprio al fine di sottolineare la totale mancanza di comunicabilità tra genitori e figli, come già evidenziava la scena iniziale con il colloquio telefonico tra Sam e la madre, in cui neanche la proposta di guardare lo stesso film sembra riuscire a ricucire un rapporto fin troppo distante.
Ancora una volta le musiche di Disasterpeace forniscono un apporto fondamentale alla narrazione, anche se in questo caso il musicista abbandona il sound elettronico a cui è solito per richiamare la tradizione più classica della Golden Age hollywoodiana, sottolineando l'intenzione da parte di Mitchell di scardinare il mito della cinefilia, così come lo si può riscontrare anche nella scelta di imbastire un plot inizialmente assimilabile ai canoni del noir postmoderno per poi strabordare in un crescendo di situazioni sempre più grottesche e impossibili da incanalare in un genere della classicità.

Under the Silver Lake, in conclusione, conferma il talento del proprio autore e anche i cardini della sua poetica tramite un racconto ricco di fascino e possibili chiavi di lettura, requisiti ideali per dare vita a una folta schiera di cultori.

lunedì 27 marzo 2023

JOHN WICK 4: QUANDO STILIZZAZIONE ED EPICA SI INCONTRANO

Se oggi Keanu Reeves, dopo essere stato sulla cresta dell'onda a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni del terzo millennio, è riuscito forse a superare persino la fama acquisita nei panni di Neo, diventando una star anche tra la generazione z a colpi di meme, è principalmente merito di John Wick (Chad Stahelski, David Leitch, 2014), action girato con budget modesto ma capace di rilanciare l'intero genere a Hollywood e un franchise di crescente successo commerciale. Il 2023 vede l'arrivo in sala di John Wick 4 (per la regia del solo Chad Stahelski), che, forte di una produzione quanto mai assimilabile a quella di un blockbuster e di un cast arricchito da alcune new entry di livello mondiale, sta sbancando il box office, con recensione altrettanto entusiastiche in tutto il mondo.


Ambientato immediatamente dopo gli avvenimenti del precedente capitolo, il film vede John (Keanu Reeves) alle prese con la fase finale della propria lotta contro l'organizzazione chiamata la Gran tavola, al cui comando è stato posto il Marchese De Gramont (Bill Skarsgard), che pur di mettere fine alla ribellione dell'ex membro non ha remore nel distruggere l'hotel di Winston (Ian McShane) e assoldare Caine (Donnie Yen), infallibile killer cieco e amico di lunga data del protagonista.


Lavorando sulle defezioni del pur godibile terzo episodio della saga, John Wick 4 spicca in primo luogo per un'attenzione maggiore alla narrazione, che in questo caso non si limita a fungere da legante per le sequenze d'azione, sfruttando anche l'indubbio fascino della mitologia incentrata su una società segreta internazionale di assassini ricca di simbologie e codici degni dei migliori Assassin's Creed, bensì circonda l'eroe di una folta schiera di personaggi, più o meno importanti ai fini del racconto, dotati di indubbio carisma e motivazioni tali da toccare anche l'emotività del pubblico. Non più semplice carne da macello o avversari utili solo a esaltare le mirabolanti abilità di John come in una sorta di picchiaduro: Caine, in particolare, spicca nella sua specularità con il primo al punto da assurgere a vero e proprio antieroe co-protagonista più che tormentato villain, meritandosi persino l'onore di una scena post-credit. I riferimenti videoludici, già alla base della formula instaurata dal capostipite, vengono in questo quarto capitolo ripetute, espanse e persino messe in vetrina con atteggiamento prettamente postmoderno. Esemplare di tale volontà metatestuale e autoconsapevole è il già iconico piano sequenza in plongéè che riprende il protagonista mentre lotta contro una folta schiera di nemici in un palazzo settecentesco: la cinepresa non si limita a sottolineare con sinuosi movimenti il virtuosismo delle coreografie della lotta ma inquadra esplicitamente la cima di ogni parete divisoria, rivelando la natura di pura scenografia cinematografica della location. Un puro artificio di rottura del realismo classico americano direttamente connesso al tipo di ripresa scelto, estremamente simile a quello che caratterizzava i primi due Metal Gear Solid, nei quali il director Hideo Kojima si è sempre divertito a rompere la quarta parete e giocare con il carattere illusorio del medium.


In linea con questa divertita e ostentata coscienza della sua essenza di finzione filmica, la pellicola estremizza ulteriormente anche la ricercatezza estetica, mettendo al bando ogni pretesa di verosimiglianza in nome della perfetta stilizzazione dei gesti atletici e della composizione delle inquadrature, sempre perfettamente equilibrate e caricate da scenografie curate fino al minimo dettaglio ed esaltate dagli ormai immancabili neon tanto cari alla saga. I colori, in particolare, tendono così tanto al rifiuto di ogni naturalismo in favore quasi unicamente di variopinte luci artificiali, spesso palesemente non diegetiche, da richiamare alla mente il cinema di Mario Bava, specie quando tinte verdi e viola dipingono i volti dei personaggi proprio come accadeva in I tre volti della paura (Mario Bava, 1963) e altri capolavori del regista italiano.


Aumentando a dismisura i topoi che hanno decretato il successo del franchise ma al contempo l'ambizione per quanto concerne location e respiro narrativo, John Wick 4 rappresenta l'apice del percorso iniziato nel 2014, donando alla vendetta dell'omonimo antieroe un carattere epico degno della migliore sintesi tra western hollywoodiano e azione made in Hong Kong. Un titolo imperdibile per chiunque ami il cinema di genere e la ricerca della perfezione estetica in esso.

mercoledì 22 marzo 2023

SCREAM VI: DAL REQUEL AL RIAVVIO DELLA SAGA

Con un mercato sempre più complesso da leggere e dominare, sconvolto dal ruolo sempre più preminente dello streaming casalingo e da una pandemia che ha ulteriormente ridotto l'abitudine a usufruire della sala cinematografica, Hollywood ha cercato a più riprese di sfruttare la nostalgia imperante, specie tra i millennials, per giocare sul sicuro, riesumando franchise di successo, anche a distanza di decadi dalla loro ultima comparsata sul grande schermo. I risultati sono stati spesso mediocri, anche da un punto di vista prettamente economico, ma un'eccezione a questo trend è rappresentata da Scream (Matt Bettinelli-Olpin, Tyler Gillet, 2022), una delle sorprese più gradite dello scorso anno. Naturalmente nella Mecca del cinema successo equivale a sequel e così, con tempi di lavorazione rapidissimi, il 2023 vede la distribuzione mondiale di Scream VI, ancora una volta diretto dal duo di giovani directors. Anche in questo caso box office e critica stanno promuovendo il film, nonostante l'assenza per la prima volta della storica eroina Sidney Prescott, lasciando spazio per un ulteriore proseguo di un nome storico del filone slasher.


A circa un anno dagli eventi narrati nel prequel, il gruppo di sopravvissuti si trasferisce a New York per frequentare il college, accompagnati anche da Sam (Melissa Barrera), che non intende lasciare sola la sorellina Tara (Jenna Ortega). Neanche la distanza siderale da Woodsboro sembra però tenere lontano Ghostface, che torna in azione con l'intento non solo di finire il lavoro iniziato nella cittadina californiana, ma anche di mostrare al mondo gli istinti omicidi della protagonista, che nel frattempo è finita nel mirino dei social, con l'accusa di essere la vera assassina.


A partire dall'incipit Scream VI mette in chiaro la volontà dei registi di giocare ancora con il labile confine tra omaggi a Craven e innovazione, smascherando per la prima volta il killer mascherato, per poi rivelare che in realtà esiste un ulteriore omicida che diventerà il vero villain della pellicola. Il leitmotiv con cui tentano di mantenere un equilibrio tra i due poli diventa in questo caso il concetto di saga, nell'accezione più contemporanea del termine, tanto che nell'immancabile sequenza in cui vengono enunciate le regole del gioco i punti di riferimento diventano il Marvel Cinematic Universe e Star Wars, che hanno ampiamente superato o limiti tradizionali del termine fino a trasformarsi in universi cinematografici espansi. Ciò comporta che, dopo aver introdotto nuovi protagonisti da affiancare al cast storico con la formula del requel, il lungometraggio deve mantenere alta la fidelizzazione del pubblico con un ulteriore spinta al rinnovamento, al punto da poter persino fare a meno degli eroi più amati dalle generazioni più attempate, come nel caso di Han Solo in Star Wars: Il risveglio della Forza (Star Wars: The Force Awakens, J. J.  Abrams, 2015). E le novità rispetto al canone non mancano, seppur sempre attente a non stravolgere del tutto ciò che ha reso iconica la creatura scritta a metà anni Novanta da Kevin Williamson, confermando ancora una volta l'intelligenza degli autori di Ready or Not (2019), ma non è tutto oro quello che luccica. 


In maniera non dissimile da quanto avveniva nel precedente capitolo, il film funziona egregiamente come slasher e come opera in sé, forte di una notevole inventiva per gli omicidi, forse tra i più violenti graficamente della saga, un gruppo di personaggi principali ancor più affiatati e caratterizzati, complice anche l'assenza di "figure ingombranti" quali Sidney e Linus, e alcune sequenze formalmente davvero pregevoli, tra cui spicca in particolare quella ambientata nella metropolitana, dove l'alternanza tra luci e ombre e un ottimo montaggio alternato portano a livelli di suspense a cui raramente è stato abituato il pubblico affezionato a tale filone orrorifico. Eppure non si può giudicare la pellicola senza ricordare cosa comporti chiamarla Scream: un nome che è sinonimo certamente di horror, della caccia in pieno stile whodunit all'identità dell'assassino e di humour metafilmico ma soprattutto di riflessione teorica e sociale sul cinema dell'orrore e del suo rapporto con gli spettatori, il vero cuore pulsante del franchise. A ogni nuova iterazione Craven aveva puntato lo sguardo sulle evoluzioni più recenti della spettatorialità, su quali effetti avesse il genere che aveva più spesso frequentato sul pubblico, specialmente quello adolescente, che era sempre stato al centro della sua filmografia. Di tutto questo non sembra esserci alcuna traccia, persino in misura minore rispetto al quinto episodio, così come della maestria estetica del cineasta di Cleveland.


Scream VI resta in definitiva uno dei migliori slasher per qualità di scrittura e cura formale, un notevole horror con tocchi di giallo e black humour metacinematografico ma ben lontano dall'aggiornare alla nuova decade l'indagine sociologica che rendeva questo franchise un unicum all'interno del panorama hollywoodiano.

mercoledì 15 marzo 2023

THE FABELMANS: LA VITA CHE SI FA CINEMA

Chiunque abbia frequentato in maniera piuttosto assidua la filmografia di Steven Spielberg, ossia almeno 3/4 della popolazione mondiale grazie a classici come Lo squalo (Jaws, 1975) o I predatori dell'arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981), attendeva da almeno un paio di decenni una sua autobiografia, vista la costante ispirazione al proprio vissuto personale in ogni sua opera, persino quelle più fantastiche e apparentemente prive di apporto alla scrittura dell'autore. E il 2022 ha finalmente portato in dote il tanto atteso The Fabelmans, liberamente ispirato ad alcune fasi cruciali della giovinezza del regista tramite gli avatar della famiglia che dona il nome alla pellicola. Osannato all'unanimità dalla critica il film si rivela però una grande delusione al box office, segnando il peggior risultato nella carriera del cineasta americano e l'ennesima conferma della profonda crisi vissuta dal cinema d'autore in sala, dove ormai sembra che il pubblico preferisca recarsi unicamente per i nuovi episodi dell'universo Marvel.

Il lungometraggio segue il percorso di formazione del giovane Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle) a partire dalla sua prima volta in sala, durante la quale la visione di Il più grande spettacolo del mondo (The Greatest Show on Earth, Cecil B. DeMille, 1952) segna la sua infatuazione verso il cinema, passando per l'adolescenza, contraddistinta dall'impegno verso la direzione di film amatoriali sempre più professionali ma, soprattutto, i problemi legati alla separazione dei genitori (Michelle Williams e Paul Dano).

A cominciare dallo sguardo meravigliato dinanzi alla scena del treno diretta nel capolavoro di DeMille, The Fabelmans mette in mostra alcuni punti cardine sia della propria forma che del proprio percorso narrativo. Pur inserendosi in un filone particolarmente florido, ossia quello delle autobiografie cinefile sublimato da 8 e 1/2 (Federico Fellini, 1963), il film con quel topos così familiare agli appassionati di Spielberg avverte immediatamente lo spettatore di quanto di più prezioso l'autore di E. T. l'extraterrestre (E. T. The Extra-terrestrial, 1982) abbia imparato da ragazzo e perfezionato nel corso della sua carriera: se amiamo così tanto il cinema non è soltanto per lo spettacolo che riesce a offrirci, specialmente dinanzi al grande schermo, bensì per la sua capacità di mistificare e, spesso, mitizzare la realtà. La presenza di una certa dose di romanzesco all'interno di qualsiasi opera ispirata a fatti realmente accaduti è assodata persino per lo spettatore meno smaliziato ma come riesce davvero la settima arte a falsificare il reale senza provocarci la sensazione di essere raggirati e soprattutto perché lo fa? Il regista statunitense, utilizzando come tramite un LaBelle che nel corso del lungometraggio assume tratti sempre più somiglianti a sé, soffermandosi costantemente sulla scoperta di nuove tecniche o di mezzi espressivi sempre più sofisticati da parte del protagonista da applicare ai suoi progetti filmici afferma con vigore che il racconto in essere non è semplicemente quello di come Steven sia diventato Spielberg, ma quello di come un ragazzo qualsiasi possa affrontare il dolore attraverso le possibilità di modificare il mondo reale tipiche del cinema. 

Attraverso un processo non dissimile da quello esplorato da Michelangelo Antonioni nell'immortale Blow-Up (1966), il cui esempio diventa palese nel corso della sequenza in cui Sammy mostra alla madre il film girato durante il campeggio di famiglia, la pellicola si sofferma in primis proprio sullo straordinario impatto che può avere sulla vita vera la padronanza delle molteplici possibilità formali offerte dalla macchina da presa, dal montaggio e da tutto l'apparato tecnico che rende possibile la magia chiamata cinema. Una buona profondità di campo permette di cogliere sullo sfondo dell'inquadratura un amore clandestino che forse soltanto l'ingenuità dell'infanzia celava all'occhio, un paio di ralenti trasforma un bullo antisemita in un eroe sportivo che sembra in grado di volare e un adolescente può persino provare un genuino senso di perdita per dei commilitoni immaginari grazie a una eccellente direzione degli attori. Il potere della celluloide non conosce limiti tra le mani di un artigiano dedito anima e corpo all'arte, tanto da diventare l'unico mezzo attraverso cui un ragazzo alle prese con la perdita dell'innocenza può accettare l'inaccettabile, dalle prime delusioni amorose alla distruzione di un nucleo famigliare che sembrava assolutamente perfetto. 
Ecco perché è impossibile non amare The Fabelmans: perché non racconta solamente le origini cinematografiche di un maestro ma, in primo luogo, quanto sia dolorosa la scoperta del lato oscuro dell'universo e che pur essendo il più bello ed emozionanti dei rifugi, il cinema altri non è che un rifugio da questa terribile verità.

sabato 11 marzo 2023

BABYLON: FOLLE E DISPERATO AMORE PER LA FABBRICA DEI SOGNI

Raramente nel panorama cinematografico si è parlato di enfant prodige come nel caso di Damien Chazelle, capace di trovare il successo planetario a soli ventinove anni con Whiplash (2014) e ottenere l'Oscar per la miglior regia a trentadue grazie a La La Land (2016). Una continua parabola ascendente che inizia a scricchiolare con First Man (2018), accolto benevolmente dalla critica ma con numeri al box office ben più bassi del previsto. Nonostante ciò il 2022 vede l'uscita della sua opera più ambiziosa, il period drama Babylon. Forte di un cast ricco di grandi nomi e un budget considerevole, il lungometraggio si rivela un enorme buco nell'acqua da un punto di vista commerciale e spacca nettamente i recensori, tra chi ne loda il coraggio e chi, invece, ne critica principalmente sceneggiatura e la libertà nel mostrato davanti alla cinepresa senza alcun pudore vomito, pissing e altri eccessi ancora poco tollerabili soprattutto in ambito americano.


Ambientata agli albori del cinema sonoro, la pellicola segue il travagliato percorso a Hollywood dei giovani Nellie LaRoy (Margot Robbie) e Manny Torres (Diego Calva), alla ricerca del proprio posto tra le star, come attrice lei, come produttore esecutivo lui, del musicista afroamericano Sydney Palmer (Jovan Adepo) e del più attempato divo Jack Conrad (Brad Pitt). Proprio la rivoluzione tecnica introdotta da Jazz Singer (Alan Crosland, 1927), segnerà il declino della carriera di tutti i personaggi, incapaci di restare al passo con i tempi e le rinnovate aspettative dell'industria.


Riprendendo una famosa definizione applicata all'industria cinematografica losangelina, Babylon tiene fede al proprio titolo mettendo in scena uno spettacolo strabordante, barocco (nell'accezione più filologica del termine) e completamente scevro di limiti per rappresentare al meglio quell'incredibile crogiolo di aspettative, speranze e talenti più o meno inquadrabili su cui si fonda Hollywood. Proprio come nei precedenti film, Chazelle, sfruttando anche il suo passato da musicista, imbastisce uno spartito privo di pause, del quale l'iniziale scena orgiastica, girata attraverso una serie di complessi long take che ne esaltano il dinamismo, diventa metonimia. Nellie, in particolare, sembra trascinare tutto il mondo che le ruota attorno, cinepresa compresa, in un vortice vitalistico quanto mai assimilabile all'adolescenza, in cui ogni emozione viene vissuta con un impeto estremo tipico di chi non vede alcun possibile traguardo alla propria corsa, se non il puro gusto di assaporare tutto l'assaporabile. Almeno fino a quando non sopraggiunge la maturità e con essa le responsabilità, il lavoro, i doveri di qualunque cittadino e così via, fino ad arrivare alla prospettiva che un giorno, senza alcun preavviso, potrebbe sopraggiungere la morte. Spartiacque tra la giovinezza e la vita adulta sembra essere per il cineasta statunitense il passaggio dal muto al sonoro: un enorme passo in avanti per le possibilità sensoriali della Settima arte ma che, al tempo stesso, in questa visione umanistica della storia riduce la libertà e la pura creatività di tutto l'ecosistema che gravita intorno alla più celebre collina al mondo, per catapultarlo in una nuova realtà all'insegna di perbenismo, pseudo intellettualismo e calcoli economici. Di colpo i pionieri del cinema, dopo aver vissuto al massimo, fino a godere di qualsivoglia eccesso edonistico, il lato più positivo del sogno americano si trovano a dover fare i conti con quello più mercantilista e oscuro, con conseguenze anche letali per chi è sempre stato abituato a sentire fino all'estremo, come dei novelli Werther.

Pur facendo riferimento a moltissimi personaggi o eventi realmente accaduti, con una notevole dovizia di particolari tipicamente cinefila, é chiaro come a Chazelle non interessi una ricostruzione filologica e storiograficamente fedele della fine degli Anni Trenta, bensì dare vita a un passato fortemente influenzato dall'io dell'artista. Hollywood diventa in tal senso un luogo del sentire prima che un luogo fisico e reale, simbolo di uno smisurato amore nei confronti dell'arte in ogni sua sfumatura, persino quando arriva a essere doloroso al punto da piangere lacrime amare tra centinaia di persona in una sala buia. La sequenza finale, con una carrellata, in ordine cronologico, di pellicole che hanno segnato la centenaria storia del cinema conclusa dal sorriso di Manny, rappresenta proprio il sentimento smodato, esasperato e disperato che il regista prova per quel magico telo bianco, proprio come altrettanto folle risulta Babylon.