sabato 11 luglio 2020

FAVOLACCE: GENITORIALITÀ MOSTRUOSA NELLA PROVINCIA ITALIANA

Dopo l'Orso d'argento, premio riservato alla miglior sceneggiatura, assegnato lo scorso anno a La paranza dei bambini (Claudio Giovannesi, 2019), anche nel 2020 l'ambito riconoscimento del Festival di Berlino è finito in mani italiane: quelle di Damiano e Fabio D'Innocenzo. I due fratelli, poco più che trentenni, hanno infatti presentato in concorso al prestigioso evento tedesco la loro seconda opera, Favolacce, a due anni dagli ottimi riscontri ricevuti dall'esordio con La terra dell'abbastanza (2018). Come gran parte delle produzioni di questo sfortunato anno, anche la pellicola italiana ha subito le conseguenze delle misure di sicurezza atte ad arginare la diffusione del COVID-19, che hanno frenato in maniera decisiva le ambizioni commerciali dell'intero settore cinematografico. Nel momento in cui scrivo il lungometraggio è finalmente riuscito a raggiungere le esigue sale cinematografiche aperte in seguito ai mesi di lockdown, facendo registrare buonissimi risultati al box office in rapporto a questa difficile situazione, a cui si aggiungono anche le visioni da casa rese possibili dalla distribuzione sulle piattaforme on-demand.

Il film, ambientato nella periferia meridionale romana, mette in scena l'intrecciarsi delle vicende di tre famiglie, una giovanissima neo-madre e un professore delle scuole medie, nel corso di una estate. Attraverso la ricostruzione di un narratore (Max Tortora), che afferma fin da subito di mescolare realtà e fantasia, quella che sembra una tipica vacanza estiva si trasforma in una tragedia nel momento in cui Alessia (Giulietta Rebeggiani) e Dennis (Tommaso Di Cola), attraverso le nozioni apprese dal professor Bernardini (Lino Musella), costruiscono una bomba artigianale. L'ordigno viene scoperto dalla madre Dalila (Barbara Chichiarelli) prima che possa essere azionato ma le conseguenze saranno comunque disastrose per i Placido e il resto della comunità.

Come affermato dal titolo, Favolacce, nonostante l'ambientazione romana, trae maggiormente spunto dalla fiaba nera e dalle sue riletture cinematografiche contemporanee che non dall'immortale analisi delle borgate capitoline raccontate, sia con la penna che con la cinepresa, da Pier Paolo Pasolini. Nel dipingere tutte le brutture, l'ignoranza bieca e l'aspirazione al tipico perbenismo borghese di tre famiglie sospese tra proletariato e classe media (condizione ormai piuttosto tipica del panorama socio-economico italiano in seguito alla crisi del 2008), i D'Innocenzo filmano in primo luogo un episodio di formazione da parte di pre-adolescenti alle prese con i più noti mostri dell'immaginario dei fratelli Grimm: i genitori. Pur con i distingui legati alle particolari circostanze di ciascun personaggio, tutti i ragazzi presenti nel film vivono un evidente disagio nei confronti degli adulti di riferimento, acuito in maniera decisiva dalle prime avvisaglie di quelle transizioni tipiche dell'adolescenza, come la scoperta del sesso attraverso i siti porno sul cellulare di un genitore o il primo amore. Attraverso un meccanismo narrativo ed etico che riporta alla mente pellicole di genere quali Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984) e It Follows (David Robert Mitchell, 2014), i due registi laziali adattano i topoi più profondi del racconto fiabesco, ossia la dialettica generazionale e la lotta dei bambini contro situazioni straordinarie per poter crescere, a un contesto sociale contemporaneo, dove la provincia assurge al ruolo di simbolo delle derive più negative ed estreme della discrepanza tipicamente postcapitalista tra le presunte possibilità di ascesa di ciascun individuo e la sostanziale impossibilità di raggiungere lo status di benessere propagandato dai mass media per la maggioranza della popolazione, specialmente in un periodo di recesso economico come quello vissuto dall'Italia attuale. La frustrazione personale degli adulti, tra cui spicca proprio il caso di Dalila e Bruno Placido (Elio Germano) per la loro grottesca pretesa di ergersi al di sopra degli amici, in virtù di una ostentata, quanto patetica, facciata piccolo borghese, si riversa inevitabilmente sul fragile equilibrio di bambini in procinto di varcare la soglia della prima adolescenza, portando a conseguenze tanto assurde quanto, purtroppo, tragicamente reali, visto quanto ci racconta giorno dopo giorno la cronaca nera.
Da un punto di vista prettamente formale la coppia di cineasti ricorre a uno costante del long take, sia nei piani più ampi che nelle inquadrature più vicine ai volti dei personaggi. Una scelta stilistica che, così come la quasi totale assenza di commento musicale extradiegetico, non solo rifiuta gran parte delle convenzioni linguistiche tipiche del neoclassicismo statunitense, ma, nel negare costantemente il campo e controcampo, rende ancor più evidente la disumanizzazione che regna all'interno del contesto sociale rappresentato. Le numerose riprese di costruzioni abbandonate tra la arida campagna romana, difatti, confermano proprio la volontà di sottolineare, tramite una simbologia paesaggistica, la scomparsa progressiva dell'umanità da tali luoghi, come accadeva già in Dogman (Matteo Garrone, 2018), non a caso nato proprio da un soggetto partorito dai D'Innocenzo.

Favolacce, in conclusione, afferma con forza la vitalità di due giovani realtà del cinema italiano, mostrando come il racconto del reale possa ancorarsi a schemi narratologici di genere anche all'interno del non troppo coraggioso panorama nostrano, con risultati peraltro di straordinaria qualità. Persino i risultati al botteghino, pur nella penuria di sale aperte, dimostra come una sempre più consistente fetta di pubblico sia interessata a questo cinema così personale e caparbio, a dispetto dei soliti luoghi comuni sulla insormontabile distanza tra i gusti della critica e quelli degli spettatori medi.