giovedì 23 maggio 2019

ATOMICA BIONDA: LA RISPOSTA FEMMINILE A BOND A SUON DI SYNTH-POP

Da almeno un decennio il cinema d'azione hollywoodiano è stato fagocitato all'interno del più ampio (e ambiguo) genere del cinecomic, con l'unica eccezione di rilievo rappresentata dalle saghe di Fast and Furious e Mission Impossible, nate entrambe a cavallo dei due millenni ma in grado di trovare una seconda giovinezza con gli ultimi capitoli. Al di fuori di queste produzioni da blockbuster sembrava ci fosse poco spazio per lavori di spicco, capaci di farsi notare, fino a quando una coppia di ex stuntman non ha dato vita a John Wick, film del 2014 che, grazie all'enorme carisma di Keanu Reeves e alla notevole abilità dietro la macchina da presa di Chad Stahelski e David Leitch, ha saputo portare una ventata di aria fresca all'interno del genere, guardando anche a oriente e all'esperienza dei due sul set di Matrix (The Matrix, Lana e Lilly Wachowski, 1999). Il successo di critica e pubblico della pellicola ha permesso a Stahelski di dare vita a una vera e propria saga sull'elegante quanto letale killer, mentre Leitch ha deciso di esplorare nuovi lidi, all'interno dei quali figura il film che intendo analizzare oggi: Atomica bionda (Atomic Blonde, 2017), spy story con protagonista e produttrice la diva Charlize Theron. Sfruttando anche mediaticamente il clamore ottenuto da John Wick, il secondo lavoro del regista statunitense ha ottenuto ottimi incassi, a fronte di costi di produzione decisamente limitati per gli standard di Hollywood, e recensioni dello stesso livello.

Tratto dal graphic novel The Coldest City (Anthony Johnston, Sam Hart, 2012) il lungometraggio segue l'intricatissima missione affidata alla spia al dell'MI6 Lorraine Broughton (Charlize Theron), spedita dal governo britannico a Berlino proprio nei giorni che precedono la caduta del muro per recuperare una lista con nomi e informazioni su tutti i suoi colleghi dell'intelligence. La missione si rivelerà ben più complicata del previsto, specialmente considerando il clima che si vive nella città tedesca. Ogni spia sul territorio vuole quella lista e nessuno gioca davvero a carte scoperte, neanche David Percival (James McAvoy), agente da tempo di stanza a Berlino e per questo punto di riferimento per la protagonista.

Sebbene la campagna pubblicitaria abbia cavalcato con insistenza l'onda del successo di John Wick, questo Atomica bionda si rivela fin dalla prima sequenza un lavoro molto diverso, ben più aderente ai canoni della spy story. La narrazione, quasi completamente in flashback, mantiene per tutta la sua durata quell'ambiguità tipica del genere, non rinunciando neanche ad alcuni colpi di scena notevoli, trascinando lo spettatore in un racconto in cui si avverte sia istintivamente che razionalmente come ogni personaggio celi ben più di quanto sia immediatamente visibile e il confine tra bene e male, amici e nemici si assottiglia fino a rendere impossibile una distinzione. Certo il cinema spionistico è permeato da sempre da queste tematiche legate all'ambiguità morale e, in particolare, il nuovo corso della saga di 007 (quella con Daniel Craig nei panni dell'agente più famoso della settima arte) ha posto l'accento proprio sulla riflessione etica e i conflitti da essa causati, sia tra il protagonista e gli altri personaggi che all'interno dello stesso Bond. Insomma il secondo lungometraggio di Leitch pesca a piene mani dagli intrighi di potere e i traumi personali messi in scena da Martin Campbell, Marc Forster e Sam Mendes e non fa niente per nasconderlo, anzi sfida apertamente il mito immortale della spia creata da Ian Fleming opponendogli finalmente una donna. Se nella saga che ha reso un divo Sean Connery solitamente l'altro sesso è stato fonte di una dialettica puramente fisica ed erotica, nel film in analisi i ruoli vengono ribaltati e completamente riscritti. Lorraine interpreta la figura dell'agente segreto con charme sicuramente paragonabile a quello di 007 ma senza trasporre semplicemente all'interno della categoria donna il machismo del suo "collega": non utilizza mai gli uomini per appagare un insaziabile appetito sessuale, sfruttandoli invece solamente come mezzi per raggiungere i propri obbiettivi, mentre intrattiene una sola relazione erotica e per di più con un'altra donna, con la quale non si limita a consumare una notte di passione, bensì finisce per scoprire come non mai il suo vero io, quello nascosto dietro le maschere che ogni spia deve indossare per adempiere al suo dovere ("When you tell the truth you look different. Your eyes change" osserva la spia francese dopo aver fatto l'amore con Lorraine e quest'ultima risponde "Thanks for the warning […] Because it's going to get me killed one day").
La gelida spia interpretata da Charlize Theron rappresenta dunque un anti-Bond, una versione femminile che da doppio diventa un riflesso completamente distorto dell'altro, proprio come lo stile di Leitch diverge da quello dei colleghi alla regia della saga di 007. Recuperando in parte quanto già visto in John Wick, l'ex stuntman allestisce un impianto formale dominato dai colori acidi dei neon, praticamente onnipresenti in qualsiasi ambiente o edificio, rendendo di fatto evidente una volontà antinaturalistica impegnata a contornare una storia di maschere e superfici continue con un allestimento altrettanto profuso a un estetismo di pateriana memoria. Non esiste profondità nel mondo di spie che abita Berlino, o meglio questa viene nascosta così bene da richiedere un ricorso costante a inquadrature così composte ed eleganti nella loro totale inverosimiglianza da ricordare la pubblicità o quell'estetica al neon portata alla ribalta da Refn. Solamente un lunghissimo piano sequenza spezza questa bidimensionalità all'insegna dell'immagine come simulacro della realtà, non a caso quando il piano ordito dalla protagonista per portare finalmente in Occidente la lista fallisce, catapultandola improvvisamente dal piano del puro pensiero a quello della pura realtà. Quella in cui si deve lottare con le unghie e con i denti per non essere ammazzati.
In questo universo fatto da maschere più che personaggi appare ben più centrale dunque proprio la capitale tedesca, assurta al ruolo di vero round character infestato da una mandria impazzita di spettri divenuti ormai parassiti. I giovani guidano una rivolta continua, prima culturale e in seguito concreta, che appare come una bomba già innescata e pronta a esplodere, pronta a colpire tutti i residui di un passato contrassegnato dalla Guerra fredda e di conseguenza da tutti quegli agenti segreti di forze straniere che hanno combattuto un conflitto oscuro proprio sul territorio teutonico. La Berlino di Leitch è un adolescente finalmente arrivato alla soglia della freudiana uccisione del padre e dunque non è un caso che gran parte della colonna musica sia costituita da pezzi synt-pop di quel periodo, proprio il sound che permise ai ragazzi di entrambi i lati del muro di riunirsi e sconfiggere una divisione ormai insopportabile.

Atomica bionda è in definitiva un piacere per gli occhi per qualunque appassionato di cinema e un affresco tutt'altro che banalmente stereotipato sulla Berlino alle soglie della caduta del muro. La Berlino di Nena e dei New Order, delle spie che non bevono vodka martini e che non sono neanche più forzatamente uomini.

lunedì 13 maggio 2019

BOSTON - CACCIA ALL'UOMO: LO SGUARDO COLLETTIVO DINANZI ALLA TRAGEDIA

Su come l'attentato dell'11 settembre 2001 abbia indelebilmente influenzato l'Occidente e, di conseguenza, il suo cinema ci sono centinaia di testi supportati da altrettanti esempi circa la presenza di questo evento devastante all'interno sia dell'estetica che della mitopoiesi contemporanea. Tra i film evidentemente legati all'immaginario nato da quel trauma in primis americano vi è, senza alcun dubbio, Boston- Caccia all'uomo (Patriots Day il ben più significativo titolo originale), diretto da Peter Berg nel 2016 nel tentativo di narrare in realtà un altro attentato, quello avvenuto nel 2013 durante la tradizionale maratona che si tiene ogni anno per i festeggiamenti del Patriots' Day. La pellicola, nonostante un risultato al box office tutt'altro che esaltante, ha saputo conquistare la critica americana e non e adesso proveremo a scoprire il perché.

Il lungometraggio ricostruisce, con notevole rispetto dei fatti reali, le ore che precedono l'attentato seguendo le vicende quotidiane di un nutrito gruppo di cittadini di Boston. tra i quali spiccano il sergente Tommy Saunders (Mark Wahlberg) e il nucleo familiare dei due attentatori, composto dai fratelli Tamerlan e Dzhokhar e dalla moglie del primo, Katherine (Melissa Benoist). Una volta esplose le bombe la narrazione segue la successiva elaborazione del lutto e soprattutto la caccia ai due terroristi, intenzionati a colpire ancora.

Gran parte della critica italiana, seppur concorde nel rilevarne la buona se non ottima fattura, insiste sul presunto carattere sfacciatamente patriottico e improntato all'esaltazione estrema dei tipici valori americani di questo Patriots Day (d'ora in poi ricorrerò sempre al titolo originale). Chiaramente è impossibile negare la presenza di un sentito omaggio al coraggio e alla resilienza del popolo statunitense, caratteri tipici della propaganda nazionalista made in USA, ma è importante notare come Peter Berg rivolga il suo sguardo soprattutto a Boston, una sola città e non una qualsiasi. Come già affermato a proposito di Gone Baby Gone (Ben Affleck, 2008), la capitale del Massachusetts costituisce un microcosmo ben definito, specialmente a livello cinematografico, da distinguere rispetto al resto degli States, come se fosse un piccolo stato indipendente all'interno di una nazione che è già di per sé l'aggregazione di più realtà autonome. Sicuramente influenzato proprio dall'immagine filmica della città creata da Scorsese e Affleck, l'autore di Lone Survivor (2013) decide di ricreare la realtà fattuale attraverso il filtro di una sorta di soggettiva di questa comunità, della quale i vari personaggi introdotti nelle ore precedenti all'attentato rappresentano parti di un tutto di hegeliana concezione. Il ricorso costante a diversi strumenti di ripresa e stili visuali come le telecamere di sorveglianza o la camera in spalla non acquisiscono dunque il solo scopo di conferire realismo alle vicende messe in scena, avvicinando la forma del film a quella del documentario di guerra, ma finisce per dimostrare come ognuna di quelle inquadrature rappresenti uno dei molteplici sguardi della città, trasformata in un unico organismo non solo pensante, bensì dotato di uno sguardo indagatore colmo di quei sentimenti di dolore e desiderio di rivalsa che sono stati scatenati dalla ferita subita. Attraverso questa lettura assume un senso ben più compito anche la scelta di abbandonare per gran parte della seconda parte della pellicola i civili feriti al centro della prima metà. Berg non dimentica neanche per un secondo il lato umano delle vicende che racconta e dunque in questo caso sembra voler mettere in scena la reazione, ben più emotiva che razionale, dell'organismo Boston nei confronti dell'attentato: come una leonessa che ha perso alcuni dei propri cuccioli, subito dopo aver messo al sicuro i sopravvissuti, la città si muove con ferocia contro il nemico, facendo della ricerca della giustizia il suo unico fine. Certo, può esserci un tutt'altro che velato intento vendicativo nell'accerchiamento degli attentatori, nell'accentuare la vacuità delle loro motivazioni o nella catarsi scaturita dall'arresto del più giovane dei fratelli ma sarebbe piuttosto utopico immaginare una reazione a una tragedia simile priva di un minimo sentimento di rabbia. Da questo punto di vista il cineasta newyorkese non si abbandona a idilli o facili buonismi e anzi, all'interno di un quadro evidentemente schierato a favore degli interessi americani, inserisce molti momenti, neanche troppo velati, di ambiguità nei riguardi di un'interpretazione dei fatti semplicisticamente pro USA. L'estraneità dell'FBI e in generale di tutte quelle autorità nazionali estranee a Boston, così come quell'interrogatorio a Katherine così sordido (non è neanche ben chiaro chi sia e quale istituzione rappresenti la donna che se ne occupa) mostrano in realtà che il cuore e l'approccio più sentimentale che razionale dell'autore sono dalla parte di questo straordinario microcosmo, anche a dispetto del resto del paese.

Peter Berg da qualche anno a questa parte sta dimostrando di saper muoversi con grande forza estetica ed empatica all'interno del war movie e questo Patriots Day ne è l'ennesima conferma, perché quella che mette in scena è davvero una guerra; uno di quei conflitti contemporanei, privi di distinzioni tra soldati e civili, ripreso per questo attraverso gli stilemi e i mezzi più attuali delle immagini dal fronte.

domenica 12 maggio 2019

TO THE WONDER: POESIA FILMICA SULL'AMORE

Il cinema solitamente viene mediaticamente identificato con i divi, attori capaci di attrarre con tale forza il pubblico da divenire oggetto di vera e propria idolatria. Sin dal muto questo fenomeno ha interessato Hollywood e in misura minore le diverse realtà europee o asiatiche ma, con l'avvento delle nuovelle vague e quindi con la diffusione del concetto di auteur, anche il regista in molti casi è riuscito a imporre un culto della propria personalità, come dimostrano figure quali Jean Luc Godard (si pensi alla sua griffe JLG che porta alla mente le firme dei grandi stilisti) e, in epoca successiva, Quentin Tarantino o David Lynch. Un tipo di culto simile ma opposto allo stesso tempo viene riservato, da almeno un paio di decenni, a Terrence Malick, un reale unicum all'interno della settima arte statunitense per la riservatezza con cui cela al mondo la sua vita privata e anche per il lunghissimo periodo di inattività che ha separato I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978) da La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998). Proprio quest'aura di mistero, unita ovviamente alla enorme portata dei suoi pochi lavori, ha reso questo cineasta una figura cult per molti cinefili e così la sua ritrovata vena filmica è stata accompagnata da un enorme clamore internazionale. All'interno di questa nuova prolifica fase della carriera di Malick ho deciso di pescare e ricordare To the Wonder del 2012, un film atteso spasmodicamente dopo l'enorme successo di The Tree of Life (2011) e forse per questo liquidato troppo facilmente come una sorta di copia carbone ottenuta anche tramite il riutilizzo di materiale scartato dalla precedente pellicola.

L'esile percorso narrativo che caratterizza il lungometraggio segue le alterne vicende della romance tra Neil (Ben Affleck), tecnico americano specializzato nelle problematiche legate all'inquinamento, e Marina (Olga Kurylenko), madre single di origini russe. I due si incontrano a Parigi e l'amore li travolge fino a convincere l'uomo a chiedere alla compagna e sua figlia di trasferirsi da lui in Oklahoma. Negli States purtroppo le cose finiranno per complicarsi, nonostante la ricerca di aiuto da parte di entrambi a padre Quintana (Javier Bardem),anch'egli afflitto da problemi d'amore ma di origine più spirituale.

Detto senza mezzi termini, chiunque da un film pretenda intrecci in grado di sorprendere lo spettatore con svolte inattese o altri momenti a effetto si tenga lontano da To the Wonder oppure si prepari ad aprire i propri orizzonti d'attesa. Nel corso del proprio, discontinuo, percorso filmico Malick pare aver intrapreso una via di costante astrazione e sottrazione narrativa fino a raggiungere una vetta con questa opera dalla quale è difficile tornare indietro. Fi dal suo esordio con Badlands (La rabbia giovane, 1974) il cineasta ex professore di filosofia aveva mostrato come le vicende umane fossero per lui una sorta di riflesso, una piccola parte di un tutto costituito dalla natura che popola la Terra e per questo spesso la macchina da presa finiva per lasciare in disparte i protagonisti umani per indugiare in lunghe digressioni su alberi, piante e in meravigliosi campi lunghi sugli sterminati paesaggi americani. Dopo la vera e propria esplosione della narrazione in favore di un frammentario viaggio panico attraverso la memoria di The Tree of Life, in questo lungometraggio il regista decide di focalizzare il proprio occhio e la propria riflessione sul tema dell'amore, analizzandolo sia in quanto sentimento che lega due persone, sia come veicolo di fede verso un'entità superiore alla quale dedicare un'intera esistenza. Amor sacro e amor profano vengono letti attraverso la lente del cattolicesimo ma in una sua versione che risente in maniera evidente del trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson, già al centro di La sottile linea rossa, e di un romanticismo velato di panismo che riporta alla mente le immagini di John Keats e del D'Annunzio di Alcyone (1903).
Attraverso il suo caratteristico stile caratterizzato da inquadrature di piante e spighe di grano illuminate dalla luce naturale del sole, Malick racconta, abbandonando quasi del tutto i dialoghi e affidandosi dunque ai suoi caratteristici stream of consciousness realizzati con voice over, le tipiche fasi di una storia d'amore tra uomo e donna in parallelo con la lotta interiore di un parroco in crisi di fede. Di coppie come Neil e Marina il cinema, in fondo, è pieno la mdp curiosamente rifugia qualsiasi dialogo e quindi il campo e controcampo, inquadrando in primo piano solamente (e anche raramente) la donna, mentre il compagno finisce quasi sempre per essere relegato all'ombra di un angolo della composizione e anche nei pochissimi casi in cui si trova al centro, magari ben illuminato, il suo volto o almeno il suo sguardo resta escluso dal profilmico. Scelte così peculiari nella messa in scena non possono che portare a riflettere su come l'autore possa voler insinuare una sorta di differenza quasi epistemologica nel modo in cui i due sessi si rapportano con l'amore, come se nell'universo femminile la grazia prevalesse sulla bestialità e viceversa in quello maschile, salvo poi ribaltare tutto nel momento in cui i due si ritrovano e si sposano. Questo terzo atto della romance porta a una sorta di ribaltamento dei ruoli in cui Neil sembra assumere finalmente una sostanza che gli era mancata finora, al punto da sembrare uno spettro aleggiante nella vita della sua amata e nelle inquadrature stesse, e dimostra anche una complessa stratificazione psicologica e sentimentale segnata da un forte dilemma interiore. La durezza del volto e del fisico di Affleck rappresentano efficacemente un guscio nel quale nascondere i dubbi che affliggono quest'uomo, incapace di vivere fino in fondo l'amore sia per Marina che per Jane (Rachel McAdams), vecchia conoscenza con cui ha una breve relazione, ma al contempo mostra momenti di enorme fragilità e soprattutto una compassione realmente cattolica nei confronti della moglie, alla quale perdona gli scatti d'ira, gli alti e bassi umorali e per un breve momento persino un tradimento. Proprio l'adulterio, simbolo massimo delle impurità che possono macchiare l'amore carnale, finisce per mettere un punto al rapporto tra i due, come a voler affermare il primato dello spirito, il quale però, dal canto suo, vive comunque le sue criticità attraverso il doloroso percorso di padre Quintana, il quale continua meccanicamente ad amministrare il proprio ruolo di guida religiosa chiedendosi però se Dio esista davvero, se sia possibile credere in un'entità che non lascia mai segni di sé. Il mistero della fede, al centro del cattolicesimo, diventa dunque per Malick l'altro riflesso del mistero che spinge gli uomini ad amarsi, pur consapevoli che la passione è destinata a dissiparsi e, spesso, con essa anche l'amore stesso.

To the Wonder non è un film che, come da tradizione della narrazione classica, rompe la quotidianità con una domanda per poi fornire una risposta chiarificatrice e capace di riportare ordine nell'equilibrio spezzato. L'opera in questione pone continuamente interrogativi privi di risposte ma che una riscoperta dell'enorme organismo naturale che ci circonda e del quale l'uomo fa parte può aiutare a risolvere. La bellezza del creato e la capacità della mente e del cuore umano di indagarla è forse l'unica vera risposta. Per chiunque sia abituato al cinema fatto di risposte continue questa pellicola potrebbe essere una buona occasione di apertura verso questa bellezza e le sue domande.

venerdì 10 maggio 2019

GONE BABY GONE: IL PURGATORIO CHIAMATO BOSTON SECONDO AFFLECK

Tutti conoscono Ben Affleck, non tutti lo apprezzano ma è innegabile che sia tra i volti più riconoscibili di Hollywood. Tralasciano le solite, sterili disquisizioni circa la bravura dell'attore (gran parte dei detrattori mi pare che seguano uno dei tanti luoghi comuni di cui vivono i social network, specie quando si tratta di individui che posizionerebbero Stanilavskij in cabina di regia dello Shakhtar Donetsk) ciò che non tutti sanno è che da circa dieci anni il premio Oscar per la sceneggiatura di Will Hunting - Genio ribelle (Good Will Hunting, Gus Van Sant, 1997) siede stabilmente anche dall'altra parte della cinepresa e con risultati tutt'altro che banali, come dimostra la vittoria proprio agli Academy Awards della statuetta per il miglior film del suo Argo (2012). Oggi però voglio soffermarmi sul suo esordio al lungometraggio: Gone Baby Gone, scritto, diretto e prodotto dallo stesso Affleck nel 2008, con tanto di buoni incassi e un responso entusiasta della critica, sorpresa dalla qualità del passaggio alla regia di un interprete così controverso e discontinuo.

Tratto dall'omonimo romanzo scritto da Dennis Lehane nel 1998, il film ruota attorno alla sparizione a Boston di Amanda McCready, bambina di circa quattro anni. A tre giorni dall'accaduto appare chiaro come la piccola possa essere stata rapita e dunque il caso finisce per attirare la stampa oltre al capitano della sezione della polizia dedicata proprio ai rapimenti Jack Doyle (Morgan Freeman). Mostrandosi ben più preoccupata della madre della bimba, Helene (Amy Ryan), la zia si rivolge alla coppia di investigatori formata da Patrick Kenzie (Casey Affleck) e Angie Gennaro (Michelle Monaghan) che, dopo qualche tentennamento, decidono di accettare l'incarico, convinti di poter muoversi con più agilità rispetto alla polizia tra le strade della città.

La storia del cinema è ricca di luoghi topici, città che entrano nell'immaginario collettivo divenendo portatrici di un certo carico di significati, situazioni narrative e aspettative nel pubblico. Se oggi Boston può essere considerata una di queste città lo deve sicuramente all'importanza che assume in The Departed di Scorsese (2006) ma in buona parte anche alle regie di Affleck, a cominciare proprio da Gone Baby Gone. Il suo esordio dietro la macchina da presa eredita dal materiale d'origine costituito dal romanzo omonimo molte suggestioni di carattere etico e la costruzione psicologica della coppia di detective privati ma l'idea e la qualità con cui la capitale del Massachusetts viene porsi come personaggio di primaria importanza appartiene completamente al regista. L'ormai ex Batman dimostra una conoscenza profonda di questa città nella quale ha vissuto e una sensibilità notevole nel mostrarne alcune peculiarità che la distinguono dalla onnipresente New York o dall'altrettanto cinematografica Los Angeles: la presenza di una forte componente cattolica e l'intricato sottobosco di criminalità comune, quotidiana perennemente in bilico tra la legge del più forte e un codice morale strettamente connesso con la fede. Se nelle due metropoli citate il malaffare è una questione in gran parte riconducibile o alle losche manovre di grandi potenze finanziarie o a circoscritti quartieri afflitti da degrado ed emarginazione, la Boston di Affleck si avvicina maggiormente a quel territorio campano visto in Gomorra di Garrone (che per uno strano scherzo del destino esce proprio nello stesso anno). Con le province di Napoli e Caserta, rese poi immediatamente riconoscibili da molti neo-noir degli ultimi anni, la città statunitense sembra condividere quella banalità del male, una versione del crimine che non possiede niente di glamour, non ispira rispetto ma semplicemente finisce per essere accettato come parte integrante della società locale. Spacciatori, piccoli boss e gli immancabili scontri per la spartizione del territorio finiscono per diventare la quotidianità, combattuta dalla polizia ma con la consapevolezza di essere invischiata in una guerra infinita, così come anche chi vive rigando dritto finisce sempre per dover sporcarsi le mani di fango qualche volta. Patrick è un chiaro esempio di questa zona grigia nella quale vivono gli abitanti di Boston, dato che pur mostrando un carattere piuttosto introverso e altruista si rivela poi facilmente irascibile quando si tratta di difendere l'onore della compagna, gira armato come un teppista di strada, conosce tutti i piccoli criminali del luogo e lascia intuire un passato nel quale condivideva lo stile di vita di queste figure. Proprio come i personaggi dei neo-noir ambientati in Campania l'investigatore, interpretato con la sempre efficace recitazione per sottrazione di Casey Affleck, risulta uno dei tanti esseri umani costretti dalla milieu a non poter aspirare a un vero riscatto sociale e morale, a restare per sempre invischiato in un purgatorio nel quale vivono uomini e donne che delinquono perché privi di alternative; cresciuti in un microcosmo dai cui codici di comportamento è impossibile sottrarsi e che tende a chiudersi come un guscio rispetto al resto della nazione.
In questo quadro di società ermetica, impenetrabile da chiunque non vi sia nato e cresciuto (si pensi al primo incontro tra il protagonista e il poliziotto Bressant interpretato magistralmente da Ed Harris) assume un ruolo fondamentale la tradizione cattolica. Il fatto che la maggioranza degli USA professi una fede di tipo luterana o comunque protestante isola ancora di più nel suo guscio la cattolicissima Boston, rendendo ancora più interessante la riflessione morale circa il rapporto tra adulti e bambini e la giustizia che l'autore di The Town (2010) eredita dalla sua fonte letteraria. Affleck rilegge queste tematiche etiche attraverso il filtro del cattolicesimo e di come i suoi dettami finiscano in un contrasto dialettico di difficile risoluzione con la cultura americana, il manicheismo tipico del genere neo-noir e la violenza che imperversa gli States. Un uomo può dirsi nel giusto quando condanna a morte un mostro che abusa sessualmente di un bambino di sette anni oppure dovrebbe perdonare, come da comandamento di Cristo? Fino a dove può spingersi un essere umano per un fine nobile? Interrogativi che chiamano in causa l'antitesi tra Antico e Nuovo Testamento, il principe centauro di machiavelliana memoria fino al cinema di uomini duri di Clint Eastwood, sicuro punto di riferimento per molte tematiche ma soprattutto per un approccio formale neo-classico che si mantiene costante nel lungometraggio. La regia dell'esordiente Ben non indugia mai in movimenti di macchina arditi o particolari strappi estetizzanti, mantenendo un approccio di elegante rispetto dei codici classici, esaltato da colori plumbei adatti a esprimere l'indefinitezza morale dell'ambientazione.

Gone Baby Gone risulta una pellicola di grande impatto emotivo ed etico, girata con grande sicurezza da un esordiente e arricchita da un cast attorico diretto con la consapevolezza di chi sa come raccontare una storia e un luogo contemporaneamente. E scusate se è poco.

martedì 7 maggio 2019

VITA DI PI: UN VIAGGIO TRA SOPRAVVIVENZA, RELIGIONE E CINEMA

In un orizzonte attuale in cui il box office pare dominato solamente da franchise, supereroi e prodotti animati (curiosamente quasi tutti Disney per tutte e tre le categorie) pare ormai un passato remoto quel 2012 in cui il mercato è stato sconvolto dal fenomeno Vita di Pi (Life of Pi), diretto da Ang Lee dopo un lungo travaglio produttivo, condito dall'abbandono di cineasti di valore assoluto quali M. Night Shyamalan e Alfonso Cuaron. Al netto dei tanti cambi di timone sia alla regia che alla sceneggiatura e dell'imponente budget, cresciuto a dismisura proprio a causa di questi problemi, la pellicola si è rivelata un clamoroso successo sia di critica che pubblico, vincendo numeroso premi, tra cui anche l'Academy per la miglior regia, e incassando più di seicento milioni di dollari. Risultati tutt'altro che preventivabili per una produzione sì ispirata a un romanzo ben accolto ma ben lontano dall'essere un fenomeno pop come Twilight o Cinquanta sfumature di grigio.

Il film, così come il romanzo omonimo, si svolge prevalentemente all'interno del racconto di Pi (Irrfan Khan) circa la sua miracolosa sopravvivenza a un naufragio, quando era ancora un ragazzo, allo scrittore Yan Martel (Rafe Spall), attirato dalla possibilità di avere tra le mani una storia incredibile da utilizzare per la sua nuova opera. Il protagonista, cresciuto in una famiglia indiana sorretta economicamente dal possesso di uno zoo, è suo malgrado costretto a lasciare insieme ai genitori, al fratello e agli animali la madrepatria per trasferirsi via mare in Canada ma la nave improvvisamente si inabissa e l'unico a sfuggire all'inferno è proprio l'adolescente, a bordo di una scialuppa di salvataggio con una zebra, un orango, una iena e la tigre Richard Parker, animale che ha sempre affascinato Pi e che diventerà il suo vero e unico compagno di sventura dopo la dipartita degli altri naufraghi.

Detto senza mezzi termini, Vita di Pi è tutto ciò che il cinema ad alto budget dovrebbe aspirare a essere e un esempio di come l'arte sappia essere stratificata, capace di parlare e di attirare qualsiasi tipologia di fruitore, da quello più colto al più distratto. Il lavoro di Ang Lee, sempre a suo agio con qualsivoglia genere o caratura produttiva e in qualsiasi nazione, riesce nell'impresa titanica di costruire sotto l'impalcatura di kolossal ricco degli effetti speciali più all'avanguardia del momento, specie se si considera l'utilizzo della stereoscopia che in quegli anni dominava il mercato, una stratificazione di significanti e significati rivolti sia allo spettatore occasionale che al cinefilo, allo studente di cinema e alla famiglia con bambini al seguito fino anche all'ammiratore del romanzo di Martel, del quale risulta molto rispettoso da ogni punto di vista. Senza voler svelare troppo di un intreccio che gioca abilmente sull'ambiguità, specialmente nel finale, ciò che realmente risalta nell'adattamento operato da David Magee è la volontà di indagare attraverso quella che potrebbe apparire come una tipica storia di sopravvivenza quesiti di valenza etica e metafisica che toccano soprattutto il rapporto tra l'uomo e la fede, intesa sia come entità superiore in generale che nelle sue propagazioni empiriche, ossia la natura e il mondo che un dio creatore ci avrebbe donato. Pi, affascinato da ben tre religioni diverse ma al contempo anche dalla matematica, disciplina e linguaggio per eccellenza della razionalità, vive un viaggio che è sì una concreta epopea nella quale rischia la sua vita ma diventa allo stesso tempo un simbolico excursus verso la maturità e, elevando ancora di più il tipo di riflessione, una metafora, una parabola sulla forza creatrice della fantasia e della narrazione, capaci di ammaliare l'uomo persino più della realtà. Lee riesce dunque a impostare almeno tre possibili chiavi di lettura dell'esperienza in mare del protagonista e quel finale così restio nel fornire risposte assolute non fa che confermare come in fondo il regista stia dalla parte dei sognatori, della metafisica rispetto a razionalisti ed empiristi, il tutto con un sottile ma non troppo velato discorso metacinematografico che sottende a un argomento caro alla poetica dell'autore di La tigre e il dragone (2000), ossia quella preferenza nei confronti del meraviglioso e del fantastico a discapito della verosimiglianza che fin troppi auteur ricercano nella settima arte. In tutta la sua filmografia la realtà viene sempre sconvolta da un qualche elemento soprannaturale o quasi e il realismo finisce per arrendersi a una filigrana fantastica che eleva la pura narrazione ad astrazione poetica.
Come ottiene questo risultato il cineasta di Taiwan? Da grande creatore di cinema in quanto immagini in movimento non può che farlo proprio attraverso l'apparato visivo. L'imponente messa in scena si avvale in questo lungometraggio di uno straordinario 3D che esalta la profondità di campo e la vividezza dei colori che compongono le straordinarie panoramiche e gli immaginifici campi lunghi, nei quali il confine tra cielo e mare finisce sempre per scomparire, riportando l'acqua a quella sua dimensione di noumeno, di essenza primigenia portatrice di vita e di principio alla base della filosofia (si pensi ad Empedocle). La stereoscopia permette allo spettatore di provare un'immersione in questo elemento fondamentale per forma e tematiche del film e al contempo amplifica la magnificenza visuale di tutte quelle straordinarie inquadrature in cui la realtà cede il passo alla fantasia, regalando scorci di rara bellezza, come la balena fluorescente o la tempesta squarciata da lampi di sole. Il paragone con Avatar (2009), spesso cercato dalla critica, in realtà appare piuttosto velleitario viste le enormi differenze stilistiche e poetiche con l'epopea sul digitale e l'essenza umana all'interno dell'era della perdita della corporeità nata dalla mente di Cameron, eppure è innegabile come questi due film rappresentino le vette assolute nell'utilizzo del 3D per una produzione ad alto budget e due grandi esempi di congiunzione tra autorialità e spettacolarità hollywoodiana.

Vita di Pi è per me un film consigliato, molto più che caldamente, a chiunque, a chi ama il cinema avventuroso, a chi cerca grandi emozioni, ai patiti delle immagini in grado di meravigliare e qualunque persona che abbia un minimo interesse verso il cinema. Un vero peccato che Hollywood non lo abbia ancora utilizzato come exemplum.

giovedì 2 maggio 2019

AVENGERS: ENDGAME. FINALE DI STAGIONE PER IL MCU

Per quanto possano storcere il naso cinefili e studiosi ossessionati solamente dal cinema da festival e dai solito quattro o cinque nomi storici invocati quasi come un mantra all'interno di ogni discussione online, il Marvel Cinematic Universe è una realtà impossibile da ignorare all'interno del panorama contemporaneo. Volendo analizzare anche solamente il risvolto commerciale del progetto è innegabile come ogni pellicola a esso legata trascini in sala milioni di spettatori, permettendo a piccoli e grandi esercenti di tenere viva ancora oggi questo tipo di esperienza di visione e di conseguenza perpetrandola anche nelle generazioni più giovani, quelle nate e cresciute con lo streaming e i device portatili. Dopo ben undici anni costellati dall'impressionante cifra di ventidue lungometraggi, il MCU arriva in questi giorni a chiudere il cerchio di quelle storie iniziate nel 2008 con Iron Man (diretto da John Favreau) tramite Avengers: Endgame, seguito girato in contemporanea (non a caso proprio come avviene per i continuous serial) di quell'Avengers: Infinity War (2018) diretto sempre da Anthony e Joe Russo. Inutile sottolineare i record di incassi stabiliti in pochi giorni di distribuzione, così come le recensioni entusiaste della critica anglofona. Un successo preannunciato per un film-evento.

Rivelare molto della trama del film che ha veramente raggiunto l'apice dell'odierna isteria di massa per gli spoiler sarebbe ingeneroso e dunque mi limito a riferire solamente che le vicende narrate si svolgono immediatamente dopo lo schiocco di dita di Thanos (Josh Brolin), mostrando le tragiche conseguenze sul pianeta della scomparsa di metà della sua popolazione. Feriti nel fisico e nello spirito i Vendicatori rimasti si riuniscono grazie all'intervento di Captain Marvel (Brie Larson), l'unica in grado di salvare Tony Stark (Robert Downey Jr.) e Nebula (Karen Gillan) da morte sicura nello spazio, e meditano vendetta verso il possessore delle Gemme dell'infinito. Come spesso succede la semplice restituzione del torto subito non porta ai risultati sperati e solo il successivo ritorno dal regno quantico di Ant-Man (Paul Rudd) porterà nuove speranze alla squadra.

Analizzare questo Avengers: Endgame senza conoscere i precedenti film della saga sarebbe impossibile, ancora di più rispetto ai precedenti crossover tra supereroi Marvel o a qualsiasi capitolo di una trilogia, perché in questo caso lo spettatore si trova dinanzi alla conferma definitiva (caso mai ce ne fosse ancora bisogno) della natura profondamente seriale delle esperienze filmiche del MCU. Sebbene ogni singola pellicola possieda una propria unità narrativa e possa essere goduto come prodotto singolo, la realtà è che gran parte del pubblico viene sapientemente spronata da una precisa scelta narratologica a vivere ogni pellicola come un episodio di un grande serial cinematografico, aggiornando così la lezione di lavori quali Adventures of Captain Marvel (John English, William Witney, 1941) o Batman (Lambert Hillyer, 1943) alle tendenze del blockbuster crossmediale contemporaneo, ricco di influenze dalla narrazione televisiva. Tramite questa ineluttabile (tanto per rimandare all'aggettivo che ahimè gli italiani pare abbiano scoperto solamente grazie all'adattamento italiano dei dialoghi di Thanos) chiave di lettura diventa evidente come il lungometraggio in analisi rappresenti una vera e propria conclusione di tutta la linea narrativa che soggiaceva all'universo cinematografico Marvel e quindi, ricorrendo proprio al lessico della serialità televisiva, il finale di stagione delle peripezie degli Avengers.  A essere precisi bisognerebbe considerare questo season finale come composto dall'unione con il prequel, tant'è che infatti nelle fasi iniziali di pre-produzione gli addetti ai lavori parlavano di Infinity War Part 1 e Part 2, sottolineando esattamente la relazione inscindibile tra questi due film. Due film che assurgono al ruolo di alpha e omega della visione dei Russo del gruppo di supereroi guidato da Captain America (Chris Evans), positivo e negativo, yin e yang di un approccio al genere, al cinema e alla mitopoiesi. Se, infatti, Infinity War era impostato come una inesorabile cavalcata con un crescendo costante di tensione verso la vittoria schiacciante del titano interpretato finemente da Brolin, vero protagonista della pellicola, il suo seguito invece si rivela ben più intimo, dai ritmi meno furiosi e, soprattutto nella prima sezione, mosso principalmente dall'intenzione di mostrare il lato più umano dei protagonisti, reso ben più marcato dal dolore conseguente alla dipartita di tante persone amate e dalla consapevolezza di aver miseramente fallito. Da questo punto di vista risaltano proprio le figure di coloro che si sentono maggiormente in colpa per la riuscita del piano nemico, in particolare Thor (Chris Hemsworth), la cui trasformazione slapstick in realtà nasconde una ferita emotiva e morale che si evince più dallo sguardo dell'attore che non dalla scrittura, e Clint Barton (Jeremy Renner), ancora una volta vero cuore pulsante e umano di una squadra di semidei. Per non incappare proprio nei famigerati spoiler evito di dilungarmi ulteriormente nel tratteggiare le evoluzioni di questi personaggi ma ciò che mi preme evidenziare è la grande attenzione riposta dalla coppia di registi nella costruzione emotiva del lutto, del senso di colpa dei sopravvissuti, delle incertezze, del dolore ma anche della riconciliazione. Ovviamente molti dei tantissimi eroi che appaiono su schermo nelle oltre tre ore finiscono per essere solamente comparse o poco più ma era inevitabile all'interno di un kolossal simile e dunque ciò che rende un'esperienza memorabile, sia per i fan di lunga data del franchise che per gli appassionati di cinema, questo Endgame è la crescita stilistica dei Russo, capaci di costruire sequenze finalmente in grado di mostrare una loro impronta di autori, come l'incipit riservato a Clint e alla sua famiglia o il mirabolante piano sequenza in cui lo stesso arciere affronta uno yakuza interpretato da Hiroyuki Sanada. Persino la scelta di rinunciare spesso al commento musicale, quasi sempre strabordante nei lavori Marvel senza mai regalare melodie davvero degne di essere ricordate, rivela la maturità espressiva intrapresa dagli autori di Captain America: The Winter Soldier (2014) e la menzionata opposizione speculare verso Infinity War, segnato da una colonna musica onnipresente ma tra le poche a risultare davvero ispirata tra quelle della saga.

In definitiva questo Avengers: Endgame difficilmente farà cambiare idea a chiunque non ami i cinecomic, il cinema di intrattenimento o i supereroi Marvel e di certo non convincerà chi vive ancora di pregiudizi verso questo tipo di settima arte ma, d'altro canto, come season finale di un serial durato undici anni non delude, accontenta il fanboy incallito senza rinunciare a mostrare una notevole crescita da parte dei suoi autori. Certo ogni affermazione estrema assimilabile ai soliti commenti "capolavoro" o "miglior cinecomic di sempre" restano estremismi inutili e infondati (a mio parere anche solo all'interno del MCU il già citato The Winter Soldier resta insuperato) ma queste sono argomentazioni futili da web 2.0.