mercoledì 18 gennaio 2023

CRIMES OF THE FUTURE: EVOLUZIONE DELLA SPECIE UMANA ATTRAVERSO L'ARTE

A distanza di ben otto anni dal discusso Maps to the Stars (2014), David Cronenberg torna nel corso del 2022 alla regia con Crimes of the Future, mettendo fine a un'attesa mai così lunga in tutta la sua carriera per i tanti fan del cineasta canadese. Presentato in concorso al Festival di Cannes, senza però ricevere la Palma d'oro, il film riceve il plauso di gran parte della critica di settore, che ne sottolinea la prossimità verso la prima parte di carriere del regista, ma uno scarso ritorno economico, certamente dovuto alla limitata distribuzione in sala, persino negli Stati Uniti.

Ambientato in un non ben precisato futuro distopico, il racconto segue le vicende della coppia, sentimentale e lavorativa, composta da Saul (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux), divenuti celebri per delle performance artistiche in cui quest'ultima rimuove chirurgicamente degli organi in eccesso prodotti dal corpo del compagno come dei tumori. L'uomo viene successivamente coinvolto in un indagine governativa su un gruppo di presunti bio-terroristi che hanno modificato il proprio corpo per renderlo in grado di nutrirsi unicamente di plastica, tra i quali spicca Lang Dotrice (Scott Speedsman), che chiede al protagonista di effettuare un'autopsia sul figlio come nuovo happening, mostrando al mondo intero l'incredibile mutazione del ragazzino, anche lui divoratore di oggetti in plastica ma fin dalla nascita.


Molti hanno sottolineato come Crimes of the Future funga da compendio dell'intera filmografia cronenberghiana e ciò risulta effettivamente innegabile: il titolo è lo stesso di una delle sue prime opere, le macchine così simili ai lavori di Giger richiamano eXistenZ (1999), l'onnipresenza di schermi Videodrome (1983), la chirurgia Inseparabili (Dead Ringers, 1988) e così via. Questo potrebbe far pensare a un lavoro autoindulgente e desinato quasi unicamente ai cultori delle sue passate pellicole ma, in realtà, tutti questi riferimenti rivelano una dialettica di superamento di quanto fatto precedentemente, in completa sintonia con il concetto di superamento dei limiti del corpo umano al centro della narrazione. Certo il post-umanesimo non è nuovo alla poetica del regista canadese, eppure mai aveva lo aveva portato alle sue estreme conseguenze, sia teoretiche che estetiche: la scelta di ambientare il racconto in un tempo futuro di cui lo spettatore vede soltanto spazi vuoti e fatiscenti e di cui conosce, a livello politico e sociale, unicamente enti governativi dispotici e pervasivi, contrapposti a una sorta di resistenza formata da una versione post-umana di militanti ecologisti, arrivati a modificare il proprio organismo pur di salvare la Terra dall'inquinamento. Allo stesso modo i corpi di ciascun personaggio sembrano in totale disfacimento, non essendo più in grado di provare dolore o piacere e persino di nutrirsi senza enormi sforzi, resi possibili unicamente dal supporto di macchine dalle sembianze organiche, non a caso introdotte da un'inquadratura che sembra scaturire dall'immaginazione di Franz Kafka. Completamente smarrita in tale contesto di totale mutazione anestetizzante, l'umanità sembra trovare ancora un briciolo di spiritualità e di rapporto con i sensi unicamente nell'arte, a sua volta però strettamente connessa con le modificazioni dell'involucro e di ciò che contiene, come se soltanto arrivando al contatto diretto con l'interiorità fisica del nostro io sia ancora possibile provare una qualche forma di sentimento o piacere. Emblematica in tal senso è la sequenza in cui Caprice si lascia andare a una fellatio al compagno non rivolta verso i suoi genitali, bensì verso la fessura sul suo stomaco tramite cui può toccare direttamente con la bocca gli organi interni, confermando peraltro quanto affermato da un altro personaggio in seguito a una performance dei protagonisti, ossia che la chirurgia è il nuovo sesso.


Una frase provocatoria, anche nel citare con una certa ironia l'ormai iconico motto di Videodrome, che cela un ben più problematico e interessante legame tra chirurgia e sesso all'insegna della produzione artistica. Ecco che Cronenberg non solo inserisce all'interno della propria riflessione body-horror anche elementi provenienti dalla sua produzione post-2000, ma supera quanto già affermato in passato rendendo esplicita anche la trasformazione dell'idea di opera d'arte in concomitanza a quella antropologica, sociale e politica: i confini stessi tra cosa sia l'evento artistico, chi sia l'artista e se esista ancora un oggetto da contemplare sfumano fino a perdere ogni consistenza, tanto da portare l'ispettore che collabora con Saul a mettere in dubbio ogni singolo elemento dell'arte portata avanti da questi e dalla compagna, da chi sia difatti l'artista e in cosa consista questa presunta arte.

A partire proprio dall'espressione creativa Cronenberg mostra, attraverso una forma rigorosa e opprimente, privilegiante inquadrature strette e fisse, un processo in divenire cominciato già nel presente di totale mutazione del concetto stesso di umanità, in ogni sua sfaccettatura, rendendo Crimes of the Future un caso esemplare di fantascienza sociologica, in grado di aprire gli occhi sulla nostra realtà quotidiana tramite un futuro ipotetico che assume ogni anno contorni sempre più inquietantemente reali.

martedì 10 gennaio 2023

NORMAL PEOPLE: DUE SOLITUDINI SI ATTRAGGONO

All'interno dell'incomprensibile, almeno per me, pregiudizio ancora molto radicato, specie in certi ambienti pseudo-intellettuali, nei confronti dell'adolescenza nell'arte un posto d'onore viene riservato alla serialità televisiva, dove il termine teen drama viene spesso utilizzato con tono dispregiativo per indicare prodotti melensi, di scarsa qualità e destinati unicamente a un pubblico poco colto o maturo. Da almeno un decennio, fortunatamente, alcuni serial sembra che stiano mitigando questa visione negativa del genere, con esempi quali Euphoria (Sam Levinson, 2019-) e We Are Who We Are (Luca Guadagnino, 2020) che stanno ricevendo il plauso della critica e conquistando fette di pubblico anche in fasce demografiche solitamente avverse a questa tipologia di storie. Il 2020 vede l'uscita su BBC di Normal People, creata e diretta interamente da Lenny Abrahamson e Hettie MacDonald adattando, con l'aiuto dell'autrice stessa, il romanzo omonimo di Sally Rooney. La serie si rivela un enorme successo di critica, ottenendo anche numerosi riconoscimenti nelle rassegne più prestigiose dedicate alla serialità, e un discreto seguito popolare, anche se non paragonabile a quello della succitata opera di Levinson, anche per la sua natura di miniserie autoconclusiva.

Protagonisti del racconto sono Marianne (Daisy Edgar-Jones) e Connell (Paul Mescal), ragazzi irlandesi dei quali viene mostrato il loro avvicinamento sessuale ed emotivo durante l'ultimo anno di liceo e i successivi risvolti di un rapporto tormentato anche durante il periodo del college e della vita adulta. 


L'esile sinossi rispecchia in pieno il tipo di narrazione scelta dagli autori, perché Normal People non vuole rispettare i canoni del genere di pertinenza, non offre allo spettatore uno spaccato generazionale attraverso un gruppo di amici o personaggi ricorrenti alle prese con le sfide del quotidiano. Il centro di tutto sono i due protagonisti, che si dividono equamente il punto di vista della macchina da presa, e l'evoluzione della loro intermittente relazione. Presentati inizialmente con alcuni caratteri familiari a chi ha dimestichezza con il teen drama (lei ricca e intelligente ma solitaria, lui bello e popolare ma di umili origini), Marianne e Connell si dimostrano ben distanti dai topoi, provando un'attrazione reciproca che nasce in primo luogo per un comune senso di solitudine, seppur frutto di situazioni di vita molto diverse. La giovane soffre i traumi di una famiglia disfunzionale, lacerata dai maltrattamenti del padre prima e del fratello poi, mentre la madre sembra anestetizzata a qualunque emozione; l'altro, invece, sembra fare di tutto per essere accettato dalla comunità e spiccare in positivo, essendo cresciuto unicamente sulle spalle di una madre single e proletaria, ma senza riuscire del tutto ad adattarsi al modo di pensare e alle attitudini del gruppo di amicizie. Insieme scoprono il vero senso dell'intimità, sia fisica che emotiva, riescono a liberarsi di gran parte delle maschere che portano abitualmente in pubblico ma al tempo stesso non a curare i mali interiori che ne influenzano le vite da sempre: Connell non vuole che i suoi amici sappiano della relazione, al punto da invitare un'altra ragazza al ballo scolastico, e Marianne accetta tutto questo unicamente per compiacere l'amato, rivelando dunque una scarsa considerazione di sé che si concretizza nella costante sottomissione al prossimo.

La coppia si ritrova anche al Trinity College, dove peraltro il ragazzo si iscrive unicamente su suggerimento di lei, dove danno vita a una spirale quasi nietzchiana in cui si allontanano senza mai riuscire a staccarsi completamente, per poi avvicinarsi ma non completamente, fino a quando, mancano di una comunicazione abbastanza sincera e aperta, si ritrovano nuovamente lontani. Marienne si getta tra le braccia di uomini che la umiliano, sia sessualmente che non, mentre Connell si rifugia nella comfort zone delle vecchie amicizie ma entrambi trovano un reale contatto umano solamente all'interno di questa tossica storia d'amore, che diventa finalmente più stabile solo quando lui, in seguito a un evento particolarmente traumatico, accetta di aprirsi con una specialista e, di conseguenza, il proprio problema nel parlare dei propri sentimenti. Normal People, da cui il titolo, vuole dunque raccontare senza spettacolarizzazioni o eccessi tragici il senso di isolamento e l'incapacità di trovare un proprio spazio nel mondo di due persone comuni, nei quali qualsiasi spettatore cresciuto in questo tumultuoso periodo di trasformazioni tecnologiche e sociologiche può rispecchiarsi: rivedere il proprio smarrimento, le proprie paure e la crescente incomunicabilità che lo porta a sentirsi allo sbando con ciò che prova e ciò che la società suppone che debba sentire.


In tal senso assume un ruolo cruciale la componente formale della serie, sobria e rigorosa come raramente capita in questo genere. Lo scorrere del tempo diventa grazie al montaggio un flusso ininterrotto di brevi momenti significativi, la macchina da presa segue come un'ombra i protagonisti quando sono insieme per poi allontanarsene con campi lunghi che ne esaltano la sensazione di solitudine quando si separano. Il ricorso alla luce naturale, specialmente negli episodi diretti da Abrahamson, evidenziano la ricerca di una dimensione del quotidiano che spesso manca del tutto alle produzioni attuali, dominate da colorazioni e composizioni dell'inquadratura così artificiose da falsare ogni rapporto empatico con il profilmico. L'eleganza della fotografia di Normal People non solo ribadisce quanto la forma sia essenziale al contenuto per qualsivoglia opera d'arte, bensì diventa il vero segreto dietro la vicinanza che il pubblico prova nei confronti di una love story che tutti noi abbiamo provato almeno una volta nella vita, insieme alle straordinarie prove attoriche di Edgar-Jones e Mescal.

venerdì 6 gennaio 2023

UN LUNGO VIAGGIO NELLA NOTTE: LA MACCHINA DEI SOGNI E DEI RICORDI

Annoverato fin dall'esordio al lungometraggio come uno dei maggiori talenti nel panorama mondiale tra i Millennials, Bi Gan dirige nel 2018 la sua seconda opera (se si escludono corti e mediometraggi): Un lungo viaggio nella notte (Long Day's Jouney into Night per il mercato internazionale). Il film riceve il plauso della critica durante la proiezione al Festival di Cannes e gode anche di un discreto successo al botteghino, frutto però in buona parte di una strategia di marketing molto aggressiva, ai limiti dell'ingannevole, nel mercato cinese, dove viene pubblicizzato come la scelta perfetta per una romantica serata in sala nel periodo delle festività natalizie. Una scelta poco redditizia sul lungo periodo, dato che molti spettatori si trovano spaesati dinanzi a un lavoro tutt'altro che classico nella narrazione e dunque ostico da comprendere, specialmente avendo delle aspettative ben diverse.
 

Protagonista della pellicola è Luo Hongwu (Huang Jue), tornato nella città d'origine in occasione della morte del padre. Sul retro dell'orologio che il defunto soleva osservare mentre fumava rinviene la foto di una donna identica a Wan Qiwen (Tang Wei), l'amore che non è mai stato capace di dimenticare. Da questo momento l'uomo si rimette in cerca di quest'ultima, ripercorrendo nel frattempo i momenti passati con lei, tra cui persino il tentato omicidio di un gangster per suo conto.


Parlare oltre del tessuto narrativo di Un lungo viaggio nella notte equivarrebbe non a spoilerare qualche incredibile colpo di scena, bensì ad addentrarsi in un labirinto sempre più intricato di fatti presenti, ricordi, immaginazione e persino un film nel film che segna il passaggio dal 2D alla stereoscopia. Fin dai primi minuti la voce over di Luo mette in chiaro come la memoria sia al centro del racconto e la sua fallacia, paragonata a quella della settima arte, dove almeno è chiaro fin da subito che tutto è falso. Il viaggio alla ricerca di Wan assume dunque i caratteri di un'esplorazione in prima istanza dei confini tra reale e irreale, di quanta verità si celi nel passato che ricordiamo e di quanto in realtà i ricordi tendano a identificarsi con il sogno.


Di primo acchito il racconto presenta tutti gli elementi cardine del classico intreccio noir: un narratore che ripercorre in flashback i fatti che lo hanno portato alla rovina, etica prima che fattuale, una femme fatale come causa scatenante di tale discesa negli inferi e la presenza della malavita urbana, simboleggiata dal boss Zuo Hongyuan (Yongzhong Chen) e dal suo abbigliamento esasperatamente cinematografico. Questo canovaccio viene però scardinato totalmente da una totale mancanza di ipotassi, in favore di una paratassi dove la divisione tra presente e passato assume contorni sempre più labili: il protagonista incontra più volte donne identiche all'amata ma con evidenti scarti d'età e di vissuto, mentre altre figure femminili sembrano confluire in un unico modello materno che riconduce proprio alla logica del sogno. La stessa logica che arriva a dominare l'ultima ora della pellicola, quando il 3D sale in cattedra e Luo sembra essere trascinato all'interno della proiezione a cui stava assistendo. Qui la perizia formale di Bi Gan e dei suoi ben tre direttori della fotografia raggiunge apici paragonabili forse solamente ai movimenti di macchina dell'incipit de L'infernale Quinlan (Touch of Evil, Orson Welles, 1958) e dal finale di Professione: reporter (The Passenger, Michelangelo Antonioni, 1975): grazie alla racchetta magica donatagli da uno strambo ragazzino, il protagonista spicca il volo insieme a una cantante identica a Wan, sorvolando in soggettiva le case di un piccolo paese di campagna e ricreando, dal punto di vista dei personaggi ritratti, il celebre dipinto di Chagall La passeggiata. Attraverso un piano sequenza di circa 58 minuti e momenti di inaudito virtuosismo estetico, il cineasta cinese mette una volta per tutte in chiaro la natura totalizzante del cinema, in grado da solo di raccogliere al suo interno principi di realismo (assenza di stacchi di montaggio), meccanismi riconducibili al ricordo (i continui salti indietro nel tempo) e infine la dimensione onirica, dimostrano in tal senso quanto la nostra percezione del mondo sia intrinsecamente fuorviante, modellata dalla nostra mente e dal nostro, personalissimo sguardo, esattamente come un'opera cinematografica.
Antonioni lo aveva anticipato decenni fa con il seminale Blow-Up (1966), Bi Gan lo conferma persino oggi, all'epoca degli ipertesti, del metaverso e degli attori dipartiti ricreati in CGI. E al centro dell'atto di vedere come sempre c'è una donna.