venerdì 6 gennaio 2023

UN LUNGO VIAGGIO NELLA NOTTE: LA MACCHINA DEI SOGNI E DEI RICORDI

Annoverato fin dall'esordio al lungometraggio come uno dei maggiori talenti nel panorama mondiale tra i Millennials, Bi Gan dirige nel 2018 la sua seconda opera (se si escludono corti e mediometraggi): Un lungo viaggio nella notte (Long Day's Jouney into Night per il mercato internazionale). Il film riceve il plauso della critica durante la proiezione al Festival di Cannes e gode anche di un discreto successo al botteghino, frutto però in buona parte di una strategia di marketing molto aggressiva, ai limiti dell'ingannevole, nel mercato cinese, dove viene pubblicizzato come la scelta perfetta per una romantica serata in sala nel periodo delle festività natalizie. Una scelta poco redditizia sul lungo periodo, dato che molti spettatori si trovano spaesati dinanzi a un lavoro tutt'altro che classico nella narrazione e dunque ostico da comprendere, specialmente avendo delle aspettative ben diverse.
 

Protagonista della pellicola è Luo Hongwu (Huang Jue), tornato nella città d'origine in occasione della morte del padre. Sul retro dell'orologio che il defunto soleva osservare mentre fumava rinviene la foto di una donna identica a Wan Qiwen (Tang Wei), l'amore che non è mai stato capace di dimenticare. Da questo momento l'uomo si rimette in cerca di quest'ultima, ripercorrendo nel frattempo i momenti passati con lei, tra cui persino il tentato omicidio di un gangster per suo conto.


Parlare oltre del tessuto narrativo di Un lungo viaggio nella notte equivarrebbe non a spoilerare qualche incredibile colpo di scena, bensì ad addentrarsi in un labirinto sempre più intricato di fatti presenti, ricordi, immaginazione e persino un film nel film che segna il passaggio dal 2D alla stereoscopia. Fin dai primi minuti la voce over di Luo mette in chiaro come la memoria sia al centro del racconto e la sua fallacia, paragonata a quella della settima arte, dove almeno è chiaro fin da subito che tutto è falso. Il viaggio alla ricerca di Wan assume dunque i caratteri di un'esplorazione in prima istanza dei confini tra reale e irreale, di quanta verità si celi nel passato che ricordiamo e di quanto in realtà i ricordi tendano a identificarsi con il sogno.


Di primo acchito il racconto presenta tutti gli elementi cardine del classico intreccio noir: un narratore che ripercorre in flashback i fatti che lo hanno portato alla rovina, etica prima che fattuale, una femme fatale come causa scatenante di tale discesa negli inferi e la presenza della malavita urbana, simboleggiata dal boss Zuo Hongyuan (Yongzhong Chen) e dal suo abbigliamento esasperatamente cinematografico. Questo canovaccio viene però scardinato totalmente da una totale mancanza di ipotassi, in favore di una paratassi dove la divisione tra presente e passato assume contorni sempre più labili: il protagonista incontra più volte donne identiche all'amata ma con evidenti scarti d'età e di vissuto, mentre altre figure femminili sembrano confluire in un unico modello materno che riconduce proprio alla logica del sogno. La stessa logica che arriva a dominare l'ultima ora della pellicola, quando il 3D sale in cattedra e Luo sembra essere trascinato all'interno della proiezione a cui stava assistendo. Qui la perizia formale di Bi Gan e dei suoi ben tre direttori della fotografia raggiunge apici paragonabili forse solamente ai movimenti di macchina dell'incipit de L'infernale Quinlan (Touch of Evil, Orson Welles, 1958) e dal finale di Professione: reporter (The Passenger, Michelangelo Antonioni, 1975): grazie alla racchetta magica donatagli da uno strambo ragazzino, il protagonista spicca il volo insieme a una cantante identica a Wan, sorvolando in soggettiva le case di un piccolo paese di campagna e ricreando, dal punto di vista dei personaggi ritratti, il celebre dipinto di Chagall La passeggiata. Attraverso un piano sequenza di circa 58 minuti e momenti di inaudito virtuosismo estetico, il cineasta cinese mette una volta per tutte in chiaro la natura totalizzante del cinema, in grado da solo di raccogliere al suo interno principi di realismo (assenza di stacchi di montaggio), meccanismi riconducibili al ricordo (i continui salti indietro nel tempo) e infine la dimensione onirica, dimostrano in tal senso quanto la nostra percezione del mondo sia intrinsecamente fuorviante, modellata dalla nostra mente e dal nostro, personalissimo sguardo, esattamente come un'opera cinematografica.
Antonioni lo aveva anticipato decenni fa con il seminale Blow-Up (1966), Bi Gan lo conferma persino oggi, all'epoca degli ipertesti, del metaverso e degli attori dipartiti ricreati in CGI. E al centro dell'atto di vedere come sempre c'è una donna.

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