martedì 30 aprile 2019

GLASS: LA CHIUSURA DELL'ORIGIN STORY SUPEREROISTICA MADE IN SHYAMALAN

Il mondo del cinema, lungo tutto la sua storia centenaria, è sempre stato ricco di figure in grado di spaccare a metà l'opinione pubblica; dai talenti difficilmente imbrigliabili come Orson Welles ad autori passati rapidamente dal successo più fulgido alla miseria, Michael Cimino su tutti. In una singolare posizione viene a trovarsi nel panorama attuale M. Night Shyamalan, della cui parabola discendente e della conseguente, inattesa, ripresa ho già parlato nell'affrontare The Visit (2015) e Split (2017). Proprio l'enorme successo commerciale e il plauso generale ricevuti da quest'ultimo sembravano finalmente aver ricondotto la grande promessa del cinema statunitense sul binario dell'Olimpo hollywoodiano, almeno fino all'uscita di Glass (2019), capitolo conclusivo di una trilogia composta dallo stesso Split e dal precedente Unbreakable (2000). In realtà a livello commerciale l'opera può dirsi un trionfo totale, dato i circa i quasi 250 milioni di dollari incassati rispetto al ristretto budget di soli venti, ma la critica, in particolare quella statunitense, ha letteralmente distrutto il lavoro probabilmente più personale e ambizioso del cineasta di origini indiane.

Come anticipato la pellicola si pone come seguito diretto del film risalente al 2017, mettendo il serial killer affetto da disturbo dissociativo dell'identità Kevin (James McAvoy) contro David Dunne (Bruce Willis), l'eroe visto in Unbreakable. Quest'ultimo, coadiuvato dal supporto tecnologico e logistico, in pieno stile Oracle/Barbara Gordon di Batman, di suo figlio Joseph (Spencer Treat Clark), durante una delle sue abituali ronde nella città di Philadelphia riesce finalmente a scoprire il rifugio nemico, salvando la vita ad alcune cheerleader sequestrate ma dovendo allo stesso tempo confrontarsi proprio con l'identità più temibili tra le ventitré che abitano il corpo di Kevin: la Bestia. Il violento confronto tra i due viene interrotto dall'arrivo di un manipolo armato che li cattura e li pone sotto la custodia della dottoressa Ellie Staple (Sarah Paulson). La donna è convinta di poter aprire gli occhi di David, Kevin e l'altro paziente internato nell'istituto psichiatrico, Elijah "l'Uomo di vetro" Price (Samuel L. Jackson), sul fatto che la loro convinzione di essere dotati di capacità sovrumane sia in realtà solamente frutto di disturbi psicologici, di una sorta di mania di grandezza che li porta a credersi supereroi (o supercriminali).

Devo essere onesto, per poter affrontare esaustivamente la notevole complessità insita sia nella messa in scena che negli sviluppi poetico-narrativi di Glass probabilmente sarebbe necessario un saggio intero, cosa che rende chiaro quanto sia stata frettolosa la critica anglofona nel demolire in toto l'opera. Contrariamente a Split, il film in analisi, in quanto chiusura di un cerchio iniziato nell'ormai lontano 1999, richiede inequivocabilmente la visione dei capitoli precedenti della trilogia, al punto addirittura da contenere materiale found footage risalente ad alcune scene eliminate da Unbreakable. Shyamalan pone lo spettatore dinanzi a quello che potrebbe essere definito come il terzo atto, quello conclusivo, non tanto di una trilogia quanto di una origin story fumettistica e, di rimando, cinefumettistica, come del resto sentenzia con una delle numerose riflessioni metatestuali il personaggio interpretato da Samuel L. Jackson. Non è un caso che la pellicola prenda il nome proprio dall'Uomo di vetro, da questa figura che rappresenta l'origine della storia delle origini dei supereroi del mondo fittizio ma più reale del reale ideato dal regista americano. Sebbene Elijah appaia per buona parte del lungometraggio in uno stato catatonico in realtà funge da vero e proprio demiurgo dell'intero intreccio, dunque non solamente di quello che si dipana nelle circa due ore di Glass, bensì dell'intero trittico. Un trittico in cui l'autore di Signs (2002) riunisce le riflessioni metalinguistiche sul fumetto e sulla narrazione supereroistica affrontate in Unbreakable con le profonde rivendicazioni da parte degli emarginati, di "coloro che hanno sofferto" (citando le parole di Kevin) viste in Split intessendo un articolato maglio narratologico che, tra passato e presente, trova il proprio fil rouge proprio nel numero tre, onnipresente nell'intera pellicola. Come già detto il film è il terzo capitolo di una trilogia, il terzo atto di una origin story, così come tre sono i supereroi (quante volte la dottoressa Staple sottolinea il fatto che siano solo tre), tre sono i loro aiutanti o supporti (Joseph, la madre di Elijah e Casey, la ragazza nel secondo atto della saga interpretata da Anya Taylor-Joy), ancora tre sono i principali piani e campi ai quali ricorre costantemente la macchina da presa e tre sono i colori utilizzati da Shyamalan per identificare i protagonisti e i rispettivi aiutanti.

Perché un numero può rappresentare il materiale con il quale allestire l'intera impalcatura estetico-narrativa del film? E perché proprio il tre? Senza alcun dubbio è la simbologia mistico-religiosa che affascina il regista di Mahe, l'universalmente riconosciuta valenza spirituale attribuita ai numeri in generale (si pensi alla numerologia e alla Kabbalah) e in particolare proprio al tre: il numero perfetto, il numero che rappresenta Dio, uno e trino allo stesso tempo. E come si potrebbe mai affrontare un discorso tanto complesso e filologicamente adeguato sul fumetto come medium di narrazione per immagini, sul genere supereroistico e sul rapporto tra tali opere di fiction e la realtà senza riflettere sull'importanza della religione e del sentimento di religiosità che trasuda la nona arte dedicata agli eroi in costume? Impossibile. Superman, il capostipite di questi personaggi del mito contemporaneo, in fondo nasce dalle menti e dalla matita di due giovani ebrei che immaginano un Mosè ai tempi della hard sci-fi delle riviste pulp per poi incarnare, in maniera sempre più esplicita e raffinata, una vera e propria allegoria cristologica attraverso le rielaborazioni di tantissimi autori di comic book e registi cinematografici quali Richard Donner e Zack Snyder. Shyamalan dunque dimostra per l'ennesima volta una conoscenza quanto mai approfondita del tipo di narrazione che analizza ma, soprattutto, la rara abilità di sfruttare tale sapere teorico per adattarlo alla propria, fervida immaginazione e poter così mettere su schermo ancora una volta la sua poetica di sognatore disincantato, sognatore umanista. L'autore de Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999), attraverso il percorso straordinario di tre uomini comuni all'interno di un mondo tutt'altro che fantasy e il loro ineluttabile martirio, dimostra per l'ennesima volta la sua straordinaria fede nelle infinite possibilità insiste nel genere umano, capace sì di efferatezze quasi irreali (gli abusi subiti da Kevin per fare un esempio) ma allo stesso tempo di gesti di tale altruismo e amore da rendere possibile l'impossibile, come il perdono di una vittima per il proprio carnefice che avviene proprio tra Casey e il suo aguzzino.
Con il suo sacrificio Cristo ha donato la salvezza tramite il libero arbitrio a tutti gli uomini di buona volontà, liberi finalmente dal fardello del peccato originale, e allo stesso modo i tre eroi di Shyamalan donano all'umanità verità e speranza, così da poter un giorno salvare se stessi. E a noi spettatori cosa viene donato dal martirio di questo Glass, dilapidato dai colpi di recensori troppo distratti per cogliere il valore di questo cinecomic tanto atipico? Probabilmente proprio verità e speranza; la rivelazione di un modo di unire cinema e fumetto che non sia per forza quello dettato dalle leggi del box office e la speranza che questo regista così bistrattato continui a credere nella propria creatività, della quale la settima arte ha ancora bisogno.

sabato 27 aprile 2019

COLD WAR: UN AMORE FOLLE PER TEMPI FOLLI

Tra i cineasti europei maggiormente apprezzati non solo nel vecchio continente ma anche in quell'America che un tempo idolatrava gli autori italiani e francesi spicca oggi Pawel Pawlikowski. Il regista nato a Varsavia ha accresciuto la propria fama all'interno dei festival pellicola dopo pellicola, fino a trovare il plauso unanime in tutto il mondo con Ida (2013), capace di vincere addirittura l'Academy per il miglior film straniero. Atteso dunque al lungometraggio della conferma l'autore polacco ha diretto nel 2018 Cold War, trovando un apprezzamento paragonabile a quello del lavoro precedente, condito da un successo di pubblico tutt'altro che scontato e la candidatura per la miglior regia agli ultimi premi Oscar. Indaghiamo i motivi di tale clamore.

La pellicola, parzialmente ispirata alla reale storia d'amore dei genitori del regista, segue nel corso di una quindicina di anni la tormentata relazione tra il musicista Wiktor (Tomasz Kot) e la cantante Zula (Joanna Kulig). I due si incontrano durante le audizioni per la formazione di un gruppo di musica tradizionale polacca nel 1949 per poi perdersi e ritrovarsi tra Berlino, Parigi, Jugoslavia e ancora la madrepatria, simbolo del dopoguerra e delle tensioni tra i due blocchi che si contendono il predominio mondiale.

La presenza incombente, minacciosa e costante della Guerra fredda che dona il titolo al film potrebbe far pensare a chi si apprestasse alla sua visione di potersi trovare dinanzi a un lavoro fortemente indirizzato alla ricostruzione storica e alla denuncia dei soprusi orditi dai regimi totalitari (siano essi fascisti o comunisti), riconducendolo a lungometraggi quali La vita è bella (Roberto Benigni, 1997) o Schindler's List (Steven Spielberg, 1993). Certamente non manca nell'opera di Pawlikowski la riflessione sulla dimensione spazio-temporale, la cui importanza viene sottolineata dalla precisione con cui a ogni cambio di città o paese viene abbinata anche una data certa, ma la dedica finale ai propri genitori mette in luce come al centro della sua indagine ci sia qualcosa di più intimo e meno razionale: l'amore. Cold War con il suo titolo imbraccia fin da subito questa duplice natura; da un lato la guerra fredda rimanda inevitabilmente a quel clima di tensione tra USA e URSS scaturito dalla fine della Seconda guerra mondiale e dalla brama di ottenere la supremazia politica e militare sull'intero pianeta, eppure dall'altro può anche riferirsi alla storia d'amore tra i due protagonisti, perennemente in conflitto, costantemente divisi per un motivo o un altro ma ogni volta capaci di ritrovarsi e di seguire ciecamente il sentimento che li unisce. Sebbene sappiano di appartenersi e non riescano a resistersi (Wiktor afferma più volte che Zula è l'amore della sua vita) i due vivono un chiaro conflitto che impedisce loro di stare insieme come una coppia felice, alimentato sia da caratteri antitetici che dagli infiniti ostacoli posti dalla cortina di ferro. In questo senso dunque persino il macroevento storico, il clima generale di paranoia dovuto allo scontro di nervi tra Occidente e blocco sovietico e la rigidità delle politiche di quest'ultimo vengono affrontate dall'autore di My Summer of Love (2004) non dal punto di vista della lucida riflessione socio-politica, bensì nell'ottica di come questo contesto finisce per influire sul rapporto tra il musicologo e la cantante. Non a caso la pellicola mantiene quell'aspect ratio insolito di 4:3 già visto in Ida, ideale per focalizzare l'attenzione della macchina da presa solamente su ciò che è fondamentale, relegando tutto il superfluo fuori dal profilmico. Wiktor, Zula e il loro amore esasperato è tutto ciò che davvero conta, più delle nefandezze dei regimi dittatoriali, più della squallida vita da pseudo bohemien degli artistoidi parigini, e l'unico linguaggio che possa realmente legare ed esplicare il mistero di una presenza intangibile capace di influenzare l'esistenza di due esseri umani anche più della violenza fisica e psicologica esercitata da governi disumani è la musica. Proprio come l'amore la musica segue Wiktor e Zula in ogni spostamento, in ogni bivio, nei momenti felici e in quelli tragici, cessando solamente nello struggente finale.

A dispetto della raffinatezza estetica, dei tantissimi long take e del singolare ricorso ai 4:3 Cold War riesce nella vera e propria impresa di offrire emozioni palpabili e difficilmente dimenticabili non solo al cultore del cinema d'essay ma a qualsiasi tipo di spettatore, dimostrando la capacità unica della settima arte di raccontare i sentimenti più viscerali senza dover per forza essere didascalico e allo stesso di poter partorire lavori raffinati senza escludere alcun tipo di fruitore.

venerdì 26 aprile 2019

THE OLD MAN & THE GUN: EPITAFFIO VERSO LA NEW HOLLYWOOD E UNO DEI SUOI DIVI

David Lowery è un regista anagraficamente e cinematograficamente giovane, con soli quattro lungometraggi accreditati e una sola esperienza all'interno degli Studios, eppure sembra provenire da un passato che diventa sempre meno prossimo. Durante l'analisi di Senza santi in paradiso (Ain't Them Bodies Saints, 2013) avevo sottolineato come si avvertisse, sia esteticamente che tematicamente, la vicinanza del cineasta a quel tipo di cinema e con il suo ultimo lungometraggio conferma questa tendenza. The Old Man & the Gun, protagonista anche al Festival di Roma del 2018, tocca le corde di questa seduzione verso quel determinato periodo storico e filmico già presentandosi come l'interpretazione finale di un'icona quale Robert Redford, qui in veste anche di produttore. Trattandosi comunque di una produzione essenzialmente indie e a distribuzione limitata la pellicola non ha potuto godere di incassi stratosferici ma ha trovato un buon riscontro da parte del pubblico e soprattutto grandi consensi della critica, pronta a salutare un'istituzione della settima arte statunitense.

Le vicende narrate nel corso dei circa novantotto minuti di durata del film, ispirate a eventi reali ricostruiti in un celebre articolo giornalistico, si svolgono nel 1981, anno in cui sale agli onori della cronaca il rapinatore della terza età Forrest Tucker (Robert Redford), già evaso ben sedici volte da prigioni e riformatori e latitante da circa due anni dopo l'ennesima fuga dalla detenzione. L'uomo, aiutato da una coppia di coetanei (Danny Glover e Tom Waits), riesce con i propri modi garbati e un fascino da gentleman a colpire ogni tipo di banca e senza mai ricorrere alla violenza ma le cose si complicano quando si innamora di Jewel (Sissy Spacek), vedova conosciuta per caso, e i suoi crimini, ignorati a lungo dalle autorità, finiscono all'attenzione del detective sui generis John Hunt (Casey Affleck).

Nonostante quanto affermato in apertura a questo testo The Old Man & the Gun in larga parte si rivela ben diverso dall'esordio al lungometraggio del regista, specialmente per quanto concerne le evidenti influenze di Malick: l'utilizzo della voce over, le costanti inquadrature, con luce naturale, incentrate sulla natura vengono a mancare in questo caso, rendendo dunque vana l'idea di molta critica che credeva di trovarsi dinanzi a un imitatore dell'autore de La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998). A voler essere precisi qualche eco malickiano è presente anche in quest'opera (basti pensare alla presenza nel cast della Spacek, musa di Badlands del 1974) ma finiscono per essere episodi circoscritti, o meglio ingranaggi non maggioritari di una macchina costituita da una reverenza panica nei confronti della New Hollywood. Persino la scelta del soggetto, l'ambientazione durante i primi anni Ottanta e l'evidente omaggio reso a Redford (memorabile la sequenza in cui vengono presentate le varie evasioni del personaggio attraverso anche materiale found footage proveniente dalla filmografia dell'attore californiano) mostrano come Lowery sia fermamente intenzionato a mettere in scena un commiato delicato, capace di smuovere le emozioni ma senza cadere nelle tipizzazioni estreme classiciste, e al tempo stesso irriverente (proprio come il cinema della Reinassance) verso quel momento della settima arte americana rivoluzionario e che evidentemente resta la stella polare per questo autore. Volendo sottostare al gioco dei riferimenti e delle assonanze si potrebbe affermare che per questa pellicola il cineasta di Milwaukee abbia trovato maggiore ispirazione tra i primi lavori di Spielberg e De Palma, in particolar modo tra quelle commedie amare, colme di riflessioni sociali e metacinematografiche quali The Sugarland Express (Steven Spielberg, 1974) e Ciao America! (Greetings, 1968). Le sinuose carrellate laterali, gli spostamenti della macchina da presa che mettono quasi o del tutto fuori campo i personaggi parlanti e persino i cartelli di colore blu che fanno riferimento al destino di Tucker citano esplicitamente le opere sopracitate ma senza quel fine puramente ludico tipico di Tarantino. Lowery è sicuramente un cinefilo, un grande appassionato del cinema passato ma i suoi omaggi rispecchiano una volontà di affrancamento nei confronti della contemporaneità più standardizzata ricorrendo alla lezione dei propri maestri, finemente assimilata e riadattata per affrontare il presente. Certo The Old Man & the Gun è un chiaro omaggio a un'epoca, una intemperie artistica e culturale, una sorta di età dell'oro ormai scomparsa ma allo stesso tempo analizza l'oggi, la volontà di essere realmente vivi anche quando la società sembrerebbe preferirci morti e sepolti, il desiderio in quanto tale. Il rapinatore di Redford viene ricordato da ogni sua "vittima" per il sorriso che mostra durante i colpi e proprio con la sua insaziabile voglia di vivere, libero e inseguendo la propria vocazione, riesce a risvegliare persino l'apatico Hunt, che solo dopo essere penetrato nella mente e nella vita, tutt'altro che esemplare moralmente ma a modo suo ammirevole, del proprio rivale torna a desiderare una serata spensierata con la moglie.

Forse proprio come il detective interpretato da Casey Affleck tutti noi dobbiamo un sentito ringraziamento a Robert Redford, capace di accompagnare generazioni intere con il suo carisma, le grandi interpretazioni e fondatore di quel Sundance Festival che ha permesso a tanti artisti talentuosi di emergere, tra i quali proprio David Lowery. Grazie di tutto Robert.

giovedì 4 aprile 2019

SHAZAM!: IL SUPEREROE ALLA RICERCA DI UNA FAMIGLIA

All'interno del vasto pantheon di supereroi DC Comics trova una collocazione piuttosto singolare la figura di Capitan Marvel, noto anche come Shazam a causa di contenziosi sulle licenze con l'omonimo personaggio appartenente all'universo della Casa delle idee. Per uno strano scherzo del fato proprio nello stesso anno in cui l'eroina spaziale di quest'ultima giunge per la prima volta sul grande schermo l'alter ego di Billy Batson torna nelle sale dopo un'attesa di più di settant'anni: da ieri è infatti giunto nelle sale italiane Shazam!, diretto da David F. Sandberg. Certo l'eroe creato da Bill Parker e C. C. Beck nel 1940 non gode più della fama che gli permise di superare nelle vendite persino quell'Action Comics su cui svettava Superman, nonostante ciò la pellicola pare aver conquistato la grande maggioranza della critica e potrebbe essere un successo non così preventivabile anche di pubblico per Warner Bros. e l'universo cinematografico DC.

Nel solco della tipica origin story il lungometraggio in analisi mostra il quindicenne Billy Batson (Asher Angel), alla perenne ricerca della madre che lo ha abbandonato, alle prese con l'ennesimo affidamento a una casa famiglia, dove stringe un particolare legame con Freddy Freeman (Jack Dylan Grazer), suo coetaneo con problemi fisici a una gamba e ossessionato dai supereroi (in particolare Batman e Superman). Il protagonista sembra comunque non voler aprirsi ai nuovi conviventi e fa di tutto per isolarsi, almeno fino a quando non viene convocato dal mago Shazam (Djimon Hounsou) nel suo tempio. L'anziano stregone sceglie il ragazzo come suo erede e così gli conferisce tutti i propri poteri magici, rendendolo capace di trasformarsi in un supereroe adulto (Zachary Levi) dotato di forza straordinaria, grande velocità e altre capacità sovrumane che Billy sperimenta insieme a Freddy. Quello che sembra solo un gioco ai due viene interrotto dalla minaccia costituita dal dottor Sivana (Mark Strong), uno scienziato che da bambino non riuscì a superare la prova postagli dal mago Shazam ma che, dopo aver liberato i demoni dei sette peccati capitali, possiede adesso poteri simili a quelli dell'eroe ma motivazioni opposte.

Sebbene la prima sequenza mostri toni notturni e oscuri non molto distanti da quelli dell'esordio al lungometraggio di Sandberg, risulta evidente fin dai primi minuti come Shazam! prenda nettamente le distanze dai precedenti prodotti dell'universo cinematografico DC, specialmente da quelli diretti da Zack Snyder. Confermando la straordinaria capacità del cinecomic di potersi ibridare quasi con qualsivoglia altro genere cinematografico classico o contemporaneo, la prima pellicola non horror dell'autore di Lights Out (Lights Out - Terrore nel buio, 2016) nasconde sotto il vistoso costume indossato da Zachary Levi e alcune ottime sequenze d'azione il cuore di un vero e proprio racconto di formazione a tema natalizio, alla stregua di alcune icone del cinema anni Ottanta quali I Goonies (The Goonies, Richard Donner, 1985) e Gremlins (Joe Dante, 1984). L'intero percorso impostato dalla sceneggiatura verte sulla ricerca da parte del protagonista di quella famiglia che non ha mai avuto, sebbene in apparenza questi ostenti una diffidenza totale nei confronti di chiunque cerchi di stargli accanto. Dietro ogni fuga da qualsiasi famiglia affidataria o alle bravate tipiche della sua età si cela, in realtà, la speranza mai sopita del ragazzo di ritrovare quella madre che ricorda con grande affetto ma che poi si rivelerà solamente una ex ragazza madre immatura, incapace di prendersi cura di un bambino da sola e non abbastanza coraggiosa da resistere alla tentazione di abbandonare il figlio. Una tentazione verso la strada più facile che si ripresenta costantemente nella pellicola come vero ostacolo da superare per poter crescere: il dottor Sivana perde la possibilità di ereditare i poteri di Shazam poiché cede alle lusinghe dei sette peccati e lo stesso Billy rischia di provocare la morte di molte persone utilizzando i propri poteri come semplici mezzi economici. Dunque si potrebbe definire l'intera struttura narratologica come una strada dall'infanzia alla maturità, dalla solitudine all'accettazione dell'importanza delle persone amate per essere felici, percorsa in parallelo da eroe e antagonista fino a quando i loro percorsi non prendono deviazioni diverse. Il quindicenne, una volta messo dinanzi alla verità su sua madre e alla possibilità di perdere la sua prima e vera famiglia, sceglie di non chiudersi in se stesso e di conseguenza condivide con fratelli e sorelle persino i propri poteri, mentre il mad scientist si affida a una "famiglia" distorta che lo aiuta solamente a covare odio per l'intero genere umano e ad allontanare chiunque lo avesse ferito con la violenza. 
Come i suoi succitati modelli il lungometraggio diretto da Sandberg non vive soltanto di crescita dei suoi personaggi o di insegnamenti etici ma trova in un umorismo volutamente schietto un'arma davvero vincente. La coppia formata da Billy e Freddy, sia che il primo indossi i panni del supereroe o del semplice adolescente, danno vita a un crescendo di gag irresistibili per un pubblico di qualsiasi età, rese però ancora più esilaranti dai tantissimi riferimenti agli altri personaggi DC, specialmente Superman, rivale editoriale di Capitan Marvel a causa anche degli evidenti punti in comune tra i due e quindi scelto come vittima preferita delle battute dei ragazzini (anche se l'intervento più caustico si trova nella seconda scena post-credit e chiama in causa l'eroe più cool del momento in casa Warner). Certamente è difficile non notare come il regista si trovi maggiormente a suo agio, da un punto di vista estetico-formale, con i momenti più dark e assimilabili all'horror. Le stragi perpetrate dai sette peccati capitali mostrano la grande immaginazione di Sandberg e la sua abilità nell'utilizzo dei giochi chiaroscurali, così come i movimenti di macchina più interessanti avvengono tra le sinistre grotte che celano il tempio di Shazam, ma è innegabile anche la verve con cui la cinepresa segue le strampalate imprese di Levi e Grazer, specialmente nel piccolo videoclip nel quale il supereroe testa le sue abilità al ritmo di Don't Stop Me Now dei Queen.

Shazam! rappresenta dunque un'ulteriore ventata di novità all'interno dei prodotti DC e dei cinecomic in genere, non una pietra miliare della settima arte ma la conferma di quanto sia possibile spaziare all'intero di questo post-genere. Una lezione che, a mio avviso, in casa Marvel pare essere stata dimenticata dopo gli exploit dei soli Gunn, Russo e Waititi.