domenica 24 ottobre 2021

NO TIME TO DIE: L'EPILOGO ALLA SVOLTA ORIZZONTALE DI 007

Scelto, tra l'immancabile scetticismo dei fan più oltranzisti, per uno dei ruoli più iconici della storia del cinema nell'ormai lontano 2006, Daniel Craig torna a impersonare, per un ultimo volta, James Bond con No Time to Die, diretto, in seguito all'addio di Danny Boyle, da Cary Joji Fukunaga. Distribuito finalmente nel corso di questo autunno, dopo aver subito numerosi rinvii a causa della pandemia da COVID-19, il film sembra aver convinto sia la critica che il pubblico, dando vita anche a un animato dibattito sulla rete circa il sostituto dell'attore britannico e anche la direzione narrativa che intraprenderà il prossimo, inevitabile episodio di una saga davvero immortale.

Riprendendo le fila dell'epilogo del prequel, la pellicola mostra Bond felicemente impegnato con Madeleine (Lèa Seydoux), libero dalle missioni per il governo e alle prese con una vacanza in Italia, con la quale intende anche mettere un punto al proprio passato. Purtroppo per la coppia la SPECTRE torna ad attentare alla sua vita, alimentando i sospetti dell'uomo nei confronti della compagna, che decide di lasciare con una certa brutalità. Cinque anni dopo l'ormai ex 007 viene contattato dalla spia americana Felix Leiter (Jeffrey Wright) per aiutarlo a recuperare una pericolosissima arma di distruzione di massa dalle grinfie della sopracitata organizzazione criminale. Scoperta l'origine dell'arma stessa James accetta di collaborare con l'amico, persino a discapito dei piani di M (Ralph Fiennes), direttore dell'MI6, venendo a scoprire, però, di una minaccia ancor più insidiosa della SPECTRE, che lo riporterà anche a incrociare la strada della donna che non ha mai smesso di amare.

Pur orfano della regia di Sam Mendes, No Time to Die non solo continua la svolta prettamente orizzontale impostata a partire da Skyfall (2012), bensì la porta fino alle estreme conseguenze. Sebbene già i precedenti Casino Royale (Martin Campbell, 2006) e Quantum of Solace (Marc Forster, 2008) fossero ben più connessi narrativamente rispetto al passato, è innegabile come i due episodi diretti dal regista nato a Reading insieme a quello in analisi costituiscano una vera e propria trilogia, per certi versi accostabile all'operazione nolaniana in ambito Batman. Se nel primo capitolo 007 era quasi morto per poter risorgere e acquisire gran parte di quelle caratteristiche che lo hanno reso riconoscibile nel corso di decenni, fungendo di fatto da nuova origin story, nel seguito diretto ha dovuto affrontare le conseguenze della perdita dell'unica famiglia che avesse mai posseduto, fino a conoscere un nuovo amore, in grado di riscaldare il suo cuore dopo la perdita di Vesper. In tale ottica, chiaramente improntata a una versione contemporanea dell'immortale viaggio dell'eroe campbelliano, l'opera diretta da Fukunaga assurge la funzione di epilogo, atto a chiudere tutti i fili del racconto intrecciatisi dopo la presunta dipartita del protagonista nell'incipit di Skyfall.
Evitando spoiler che mai come in questo caso potrebbero rovinare parzialmente l'esperienza spettatoriale, la celeberrima spia si trova ad affrontare tutti i demoni del proprio passato e persino quelli legati maggiormente alle persone a cui tiene maggiormente, dando persino la propria benedizione all'agente scelta per sostituirlo. Tutto ciò si traduce in un coinvolgimento emotivo da parte del pubblico raramente riscontrato all'interno persino di una saga così amata, reso evidentemente possibile dall'impronta seriale totalizzante summenzionata, capace di far affezionare i fruitori ai personaggi a livelli molto più simili a quelli tipici della serialità televisiva fortemente orizzontale che domina il panorama audiovisivo attuale. Certamente concorre a questa forza emozionale la prova attoriale eccellente da parte dell'intero cast, a partire da un Daniel Craig sempre eccezionale nel comunicare più con la mimica facciale che non con la dialettica, ma niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza una continuity tanto ferrea. A ciò si aggiunge, proprio come nei precedenti episodi post-2006, una caratterizzazione di Bond ben più umana ed empatica rispetto a quelle esasperatamente larger than life di Sean Connery o Roger Moore: ancora una volta lo 007 contemporaneo mostra tutti i suoi limiti di uomo spesso fin troppo succube dei suoi sentimenti, di paure che tutti noi comuni spettatori conosciamo e comprendiamo e pronto a rinunciare al brivido dell'avventura, della conquista sessuale fine a se stessa pur di abbracciare un amore che colmi il vuoto lasciatogli da un'infanzia da orfano. 
Un lungometraggio, dunque, che mostra più cuore di quasi tutti i prequel, senza rinunciare, al contempo, a marchi di fabbrica della saga, come le location sparse per tutto il globo o il vodka martini, e persino una dose di ironia che ricorda in parte l'epoca Brosnan. Da questo punto di vista spicca la sequenza ambientata a Cuba, dove il breve minutaggio di Ana de Armas nei panni di una combattiva quanto naif spia della CIA ruba la scena anche a momenti ben più centrali per la narrazione più ampia. Anche visivamente rappresenta uno dei picchi di un'opera che trova il suo fiore all'occhiello nelle spettacolari sequenze d'azione, tra le quali spicca un lungo piano sequenza che non può non ricordare quanto fatto da Fukunaga nel corso della prima stagione di True Detective (Nic Pizzolatto, 2014-). Pur mancando l'eleganza nella composizione di Mendes o la furia cinetica di Campbell e Forster, la regia mostra momenti di grande perizia formale, mostrando invece il fianco per quanto concerne la qualità del racconto. Pur risultando efficace grazie alla dimensione emotiva fin qui descritta, la sceneggiatura lascia spesso a desiderare nella gestione dei molteplici spunti tematici innestati e, soprattutto, nel ritratto del villain, che spreca il talento di Rami Malek per un personaggio solamente abbozzato nel suo rapporto sia con Bond che con Madeleine.

No Time to Die, in definitiva, non raggiunge a mio parere le vette rappresentate da Casino Royale e Skyfall, probabilmente anche a causa di una gestazione piuttosto turbolenta, ma chiude con notevole coraggio l'era più umana dell'epopea bondiana, rafforzando il posto nel cuore di ogni fan riservato agli occhi azzurri e dolenti di Daniel Craig.

domenica 10 ottobre 2021

MALIGNANT: RIVISITAZIONE LUDICA DEL GIALLO ALL'ITALIANA

Pur senza possedere la riconoscibilità divistica di colleghi quali Quentin Tarantino o Christopher Nolan, James Wan è indubbiamente una miniera d'oro per Hollywood, capace di generare centinaia di milioni di dollari, sia con i budget più risicati che attraverso i fastosi mezzi dei blockbuster. Forte di tale credito, il regista di origini malesi porta a compimento, dopo alcuni anni passati saltando tra un franchise e l'altro, un progetto più personale, di cui firma anche soggetto e sceneggiatura: Malignant. Distribuito come quasi tutte le attuali produzioni di Warner Bros in contemporanea sia in sala che in streaming, il film non sta confermando gli abituali riscontri commerciali fin qui decantati, mentre buona parte della critica sembra apprezzarlo, seppur con qualche riserva sulla qualità della scrittura.

Dopo un flashback ambientato in un ospedale psichiatrico del 1993, la pellicola si concentra sulle vicende di Madison (Annabelle Wallis), alle prese con una nuova gravidanza e i fin troppo consueti scatti d'ira del marito. Dopo l'ennesimo litigio la donna perde anche questo figlio ma, nel corso della medesima notte, l'uomo viene ucciso da una figura sconosciuta. Nei giorni successivi la protagonista si trova sempre più coinvolta in una serie di terribili morti, tutte connesse al suo oscuro passato di bambina adottata e a quello che sembrerebbe essere stato il suo amico immaginario, Gabriel. Divenuta la sospettata numero uno dei crimini, l'unica a continuare a credere alla sua innocenza è la sorella Sydney (Maddie Hasson), la quale capisce che l'unico modo per scagionare Madison risiede nel fare luce su misterioso periodo della sua vita precedente l'adozione.

Dopo quasi due decenni sulla cresta dell'onda, principalmente nel genere horror, l'idea fortemente postmoderna del cinema di Wan è ormai ben nota, specie per quanto concerne il recupero di topoi estetici e narrativi di film divenuti classici per modellarli secondo le coordinate poetico-formali care al regista. Malignant non fa eccezione a tale modus operandi, aggiungendovi però una chiave di lettura altamente ironica, del tutto assente in lavori come The Conjuring (James Wan, 2013), che pare invece ereditata dalle esperienze acquisite con i più divertiti Fast and Furious 7 (Furious 7, James Wan 2015) e Aquaman (James Wan, 2018). Nel corso del lungometraggio, infatti, esplodono costanti ammiccamenti a due delle maggiori fonti di ispirazioni dell'autore australiano: il Giallo all'italiana e i lavori di Dario Argento e Mario Bava. A partire dal ricorso costante, spesso totalmente ingiustificato dagli avvenimenti diegetici, a colori antinaturalistici tipici dello stile dei succitati director, Wan infarcisce il film di elementi cardine di quel filone a cavallo tra horror e thriller salito alla ribalta nel Belpaese a partire dalla fine degli anni Sessanta. Un assassino del quale non viene mai inquadrato il volto, vestito di nero e caratteristici guanti; le indagini delle forze dell'ordine che si alternano a quelle di un "detective" non professionista; il twist nel finale che rivela l'identità del villain e un movente indissolubilmente legato a un trauma del passato. Impossibile negare le continue strizzate d'occhio al genere e, in particolare, al suo capostipite, Sei donne per l'assassino (Mario Bava, 1964), del quale il regista cita apertamente anche numerose soluzioni visive, dalle tonalità tendenti al viola fino al taglio identico di numerose inquadrature. A ciò si aggiungono la caratterizzazione psicologica del killer, le armi da taglio che utilizza per massacrare le proprie vittime e una mostruosità fisica che riportano alla mente Phenomena (1985) di Argento, dal quale il film prende in prestito anche l'uso leitmotivico di un particolare tema musicale.

Ci troviamo dunque dinanzi a un'opera prettamente citazionista e indirizzata solamente ai cinefili più accaniti? Non proprio. Certamente Malignant non disdegna il gioco del riconoscimento delle numerose strizzate d'occhio ma, da regista ormai esperto qual è, Wan rielabora i riferimenti al passato per adattarli ai suoi riconoscibili movimenti di macchina, sempre eleganti e funzionali al racconto, persino quando adottano l'ipertrofia cinetica vista nei piani sequenza di Aquaman. Anche da un punto di vista strettamente narrativo la pellicola vive a metà tra la dimensione onirica ereditata dal regista di Suspiria (Dario Argento, 1977) e uno straniamento umoristico che rendono del tutto incomprensibili le critiche verso la plausibilità dell'intreccio. Tralasciando il puro gusto soggettivo con cui può essere giudicata l'efficacia del plot twist circa l'identità del killer, è assolutamente oggettiva la volontà del regista di sovvertire completamente le più strette connessioni al realismo, giocando, come un demiurgo filmico, con tutte le armi messe a disposizione dai due generi a lui più cari, prendendo in prestito anche gli strumenti più trash a essi legati.
Probabilmente si potrebbe, dunque, considerare l'ultima fatica del regista di Insidious (2010) un divertissement, un omaggio al cinema della propria gioventù che non si preoccupa mai di prendersi sul serio ma, in fondo, è davvero un problema quando è girato con così tanta perizia?