domenica 10 ottobre 2021

MALIGNANT: RIVISITAZIONE LUDICA DEL GIALLO ALL'ITALIANA

Pur senza possedere la riconoscibilità divistica di colleghi quali Quentin Tarantino o Christopher Nolan, James Wan è indubbiamente una miniera d'oro per Hollywood, capace di generare centinaia di milioni di dollari, sia con i budget più risicati che attraverso i fastosi mezzi dei blockbuster. Forte di tale credito, il regista di origini malesi porta a compimento, dopo alcuni anni passati saltando tra un franchise e l'altro, un progetto più personale, di cui firma anche soggetto e sceneggiatura: Malignant. Distribuito come quasi tutte le attuali produzioni di Warner Bros in contemporanea sia in sala che in streaming, il film non sta confermando gli abituali riscontri commerciali fin qui decantati, mentre buona parte della critica sembra apprezzarlo, seppur con qualche riserva sulla qualità della scrittura.

Dopo un flashback ambientato in un ospedale psichiatrico del 1993, la pellicola si concentra sulle vicende di Madison (Annabelle Wallis), alle prese con una nuova gravidanza e i fin troppo consueti scatti d'ira del marito. Dopo l'ennesimo litigio la donna perde anche questo figlio ma, nel corso della medesima notte, l'uomo viene ucciso da una figura sconosciuta. Nei giorni successivi la protagonista si trova sempre più coinvolta in una serie di terribili morti, tutte connesse al suo oscuro passato di bambina adottata e a quello che sembrerebbe essere stato il suo amico immaginario, Gabriel. Divenuta la sospettata numero uno dei crimini, l'unica a continuare a credere alla sua innocenza è la sorella Sydney (Maddie Hasson), la quale capisce che l'unico modo per scagionare Madison risiede nel fare luce su misterioso periodo della sua vita precedente l'adozione.

Dopo quasi due decenni sulla cresta dell'onda, principalmente nel genere horror, l'idea fortemente postmoderna del cinema di Wan è ormai ben nota, specie per quanto concerne il recupero di topoi estetici e narrativi di film divenuti classici per modellarli secondo le coordinate poetico-formali care al regista. Malignant non fa eccezione a tale modus operandi, aggiungendovi però una chiave di lettura altamente ironica, del tutto assente in lavori come The Conjuring (James Wan, 2013), che pare invece ereditata dalle esperienze acquisite con i più divertiti Fast and Furious 7 (Furious 7, James Wan 2015) e Aquaman (James Wan, 2018). Nel corso del lungometraggio, infatti, esplodono costanti ammiccamenti a due delle maggiori fonti di ispirazioni dell'autore australiano: il Giallo all'italiana e i lavori di Dario Argento e Mario Bava. A partire dal ricorso costante, spesso totalmente ingiustificato dagli avvenimenti diegetici, a colori antinaturalistici tipici dello stile dei succitati director, Wan infarcisce il film di elementi cardine di quel filone a cavallo tra horror e thriller salito alla ribalta nel Belpaese a partire dalla fine degli anni Sessanta. Un assassino del quale non viene mai inquadrato il volto, vestito di nero e caratteristici guanti; le indagini delle forze dell'ordine che si alternano a quelle di un "detective" non professionista; il twist nel finale che rivela l'identità del villain e un movente indissolubilmente legato a un trauma del passato. Impossibile negare le continue strizzate d'occhio al genere e, in particolare, al suo capostipite, Sei donne per l'assassino (Mario Bava, 1964), del quale il regista cita apertamente anche numerose soluzioni visive, dalle tonalità tendenti al viola fino al taglio identico di numerose inquadrature. A ciò si aggiungono la caratterizzazione psicologica del killer, le armi da taglio che utilizza per massacrare le proprie vittime e una mostruosità fisica che riportano alla mente Phenomena (1985) di Argento, dal quale il film prende in prestito anche l'uso leitmotivico di un particolare tema musicale.

Ci troviamo dunque dinanzi a un'opera prettamente citazionista e indirizzata solamente ai cinefili più accaniti? Non proprio. Certamente Malignant non disdegna il gioco del riconoscimento delle numerose strizzate d'occhio ma, da regista ormai esperto qual è, Wan rielabora i riferimenti al passato per adattarli ai suoi riconoscibili movimenti di macchina, sempre eleganti e funzionali al racconto, persino quando adottano l'ipertrofia cinetica vista nei piani sequenza di Aquaman. Anche da un punto di vista strettamente narrativo la pellicola vive a metà tra la dimensione onirica ereditata dal regista di Suspiria (Dario Argento, 1977) e uno straniamento umoristico che rendono del tutto incomprensibili le critiche verso la plausibilità dell'intreccio. Tralasciando il puro gusto soggettivo con cui può essere giudicata l'efficacia del plot twist circa l'identità del killer, è assolutamente oggettiva la volontà del regista di sovvertire completamente le più strette connessioni al realismo, giocando, come un demiurgo filmico, con tutte le armi messe a disposizione dai due generi a lui più cari, prendendo in prestito anche gli strumenti più trash a essi legati.
Probabilmente si potrebbe, dunque, considerare l'ultima fatica del regista di Insidious (2010) un divertissement, un omaggio al cinema della propria gioventù che non si preoccupa mai di prendersi sul serio ma, in fondo, è davvero un problema quando è girato con così tanta perizia?

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