sabato 11 maggio 2024

THE BEAR: LA DERIVA INTERIORE CONTEMPORANEA ATTRAVERSO I FORNELLI

Tra i tanti classici del passato e una pletora di produzioni attuali dolorosamente fordiste Disney+ riserva fortunatamente alcune sorprese, tra le quali spicca The Bear, serie ideata da Christopher Storer nel 2022 per FX. Una produzione nata ben lontana dal versante più mainstream della serialità contemporanea ma in grado di trovare un riscontro favorevole sia tra il pubblico, sia tra la critica, sancito dai trionfi agli Emmy Awards e ai Golden Globes.


Protagonista dell'opera, in questo momento attesa da una terza stagione che dovrebbe essere distribuita in estate, è Carmy (Jeremy Allen White), chef stellato che riceve, inaspettatamente, in eredità, in seguito al suicidio del fratello Michael (Jon Bernthal), la paninoteca di famiglia, gestita fino a quel frangete con infinite difficoltà dall'amico d'infanzia Richie (Ebon Moss-Bachrach). Il nuovo proprietario del The Original Beef of Chicagoland cercherà, tra mille ostacoli, di trasformarlo in un vero ristorante di successo, grazie anche all'aiuto di Sydney (Ayo Edebiri), sous-chef appassionata e talentuosa.


Piccolo schermo e cucina formano un sodalizio ormai inossidabile ma nessuno prima di The Bear aveva saputo riflettere su di esso per dare vita a un prodotto di qualità e in grado di mettere in scena le coordinate emotive del nostro tempo. Storer, sceneggiatore e regista di gran parte degli episodi in entrambe le stagioni, prende in prestito un soggetto ormai ai limiti del logoro per gli spettatori, quello del cuoco da cucina gourmet che tenta di risollevare le sorti di un locale "vernacolare", ma in questo caso il milieu culinario diventa, proprio grazie alla quotidianità di cui gode sia nella vita reale del pubblico che in quella diegetica, lo strumento con cui raccontare un gruppo di personaggi simbolo del nostro presente.


Carmy, nonostante il successo ottenuto nell'ambito della cucina di caratura internazionale, vive ogni giorno soffocato da pressioni costanti e difficoltà nel rapportarsi con gli altri dopo essere cresciuto in una famiglia altamente disfunzionale, con la morte di Michael che serpeggia lungo ogni singolo episodio come un trauma mai davvero superato. Il protagonista non è però l'unico a dover affrontare fantasmi onnipresenti, anzi l'intero gruppo che lavora nel diroccato locale, vero e proprio simbolo del baratro da cui ognuno di loro cerca di uscire, si trova a fare i conti con un'esistenza perennemente sull'orlo del disfacimento, ognuno per motivi diversi ma accomunati in toto da quegli affanni del quotidiano con cui lo spettatore può identificarsi immediatamente. Magistrale da questo punto di vista è la scelta formale di mettere al centro della scena l'incessante colonna sonora (in quanto insieme di suoni e rumori come la definiva Sergio Miceli), con la pluralità di voci che si sovrappongono a un ritmo indiavolato l'una con l'altra, seguendo la lezione di maestri del cinema moderno europeo e americano quali Godard e Cassavetes che utilizzavano tale mezzo espressivo assolutamente anticlassico per donare maggiore realismo al racconto e, soprattutto, rimarcare la frenesia folle della società postcapitalista. Ancora da quella stagione della settima arte Storer eredita anche l'ampio ricorso al piano sequenza, che prevedendo l'eliminazione degli stacchi di montaggio diventa perfetto per mettere in risalto l'assenza di qualsivoglia momento di pausa, di respiro in un mondo che costringe l'individuo a una ininterrotta corsa per non finire ai margini del sistema socioeconomico. Chiaramente anche da un mero punto di vista estetico i quasi venti minuti di long take di Review, settima puntata della prima stagione, o quelli del finale della seconda stagione costituiscono pezzi di bravura da applausi a scena aperta ma la profonda connessione tra forma e poetica alla loro base rendono evidenti i motivi per cui il mondo si è innamorato di The Bear, che in questi anni in cui tutti noi rischiamo di annegare ci fa sentire meno soli.