lunedì 24 luglio 2017

SPLIT: IL SUPERPOTERE DELLA DIVERSITÀ

In seguito a numerose delusioni sia a livello commerciale che di critica, proprio nel momento più buio della propria parabola discendente M. Night Shyamalan ha dato un importante segnale di ripresa con l'ottimo horror a basso costo The Visit (da me analizzato qui) nel 2015. A questo punto era lecito aspettarsi un banco di prova che potesse confermare l'effettiva rinascita dell'ex prodigio di Hollywood e così l'anno seguente arriva in sala Split, un altro prodotto a basso costo finanziato dalla Blumhouse di Jason Blume ma soprattutto un successo strepitoso di pubblico molto ben recensito in tutto il mondo. Un trionfo che rilancia definitivamente una carriera che sembrava ormai distrutta per sempre.

Come in ogni opera dell'autore de Il sesto senso (1999) dilungarsi troppo sulla trama priverebbe la visione di una percentuale molto alta e quindi tutto ciò che trovo congruo rivelare è che a centro della narrazione si trova il rapimento improvviso di tre adolescenti, tra cui la problematica ma acuta Casey (Anya Taylor-Joy), da parte di Kevin (James McAvoy), un uomo affetto da un grave disturbo dissociativo dell'identità che lo ha portato a farsi contenitore di ben ventitré (almeno inizialmente) diverse persone.

Se esiste un filo rosso che collega ogni singola pellicola diretta da Shyamalan è la volontà di scardinare dall'interno gli stereotipi e potremmo definire Split il punto di arrivo di questa ricerca. Uno dei concetti chiave del cinema americano, fin dai tempi della Hollywood classica, è il genere e proprio per questo viene pesantemente attaccato sbeffeggiato, tanto da trovare all'interno dell'opera continui salti dal thriller al drama, dall'horror al grottesco passando persino per una sequenza musicale volutamente ridicola. Il cineasta di origini indiane dopo aver sovvertito ogni regola narrativa e formale degli horror found footage proprio dal loro cuore, ossia la Blumhouse, ha esteso insomma la portata del proprio attacco, probabilmente con un certo risentimento verso tutti coloro che avevano tentato di intrappolarlo all'interno delle rigide regole del thriller.

Eppure non resta soltanto metacinematografica la critica espressa, anzi diventa ancor più efficace e toccante per un pubblico di qualsiasi età e istruzione nel momento in cui gli stereotipi presi di mira sono quelli della vita di tutti i giorni, con particolare attenzione per la visione che la società odierna ha di coloro che sono affetti da disturbi mentali. In un mondo come il nostro, basato sulla brama di successo individuale, sul narcisismo spasmodico e sui privilegi di pochi a discapito di molti i diversi divengono nient'altro che appestati, sottouomini da rilegare all'interno di ghetti, talvolta persino fisici, e chi è più diverso dal nostro concetto di normalità del malato? La malattia non costituisce un semplice momento di fragilità, bensì un vero e proprio marchio di infamia e ovviamente quello maggiormente infamante appartiene ai disturbi psicologici a causa della loro natura sfuggente e spesso ancora oscura persino ai ricercatori più avanguardisti. In un clima di tanta diffusa diffidenza nei confronti di chi è affetto da tali patologie assume i contorni di una rivoluzione totale l'esistenza stessa di Kevin, un uomo capace di adattare il proprio fisico a tutto ciò che elabora la sua mente con tanto di conferme scientifiche da parte della propria terapista. Capacità simili accomunano il giovane uomo a nessun altro suo simile poiché nella nostra conoscenza del mondo chi altri può avere tanto potere (spesso il personaggio sottolinea la propria potenza) se non un semidio e nel nostro mondo contemporaneo, soprattutto cinematografico, le forze divine che meglio conosciamo sono i supereroi dei fumetti. Tutto ciò che per gli antichi sono stati Achille, Eracle, Bellerofonte e tutti gli altri semidei del mito oggi è incarnato da personaggi come Superman e in fondo Kevin non è molto diverso dalle riletture maggiormente noir e sofferte di molti personaggi dei comics americani.
La coraggiosa scelta di rendere quasi divina la figura di un uomo disturbato a tal punto da uccidere il prossimo non è che la rottura attraverso la quale il regista di Signs (2002) dichiara la sua posizione affettuosa verso chiunque si senta diverso o venga trattato come tale, un voler trasformare la menomazione in pregio unico con una tenerezza che ricorda gli inizi carriera di Tim Burton.
Da un punto di vista formale la regia non fa che sottolineare la poetica del suo autore attraverso inquadrature fisse che esaltano la similitudine tra gli spazi chiusi e claustrofobici in cui vive l'uomo dalle ventitré personalità e la mente di quest'ultimo, come sottolinea verso il finale il passaggio agli esterni nel momento in cui raggiunge la piena consapevolezza del potere della propria psiche. Altrettanto degna di nota è l'interpretazione di McAvoy, capace di trasformare completamente mimica, gestualità e voce a seconda della personalità che si trova "sotto la luce" al punto da rendere ancora più evidente la componente metacinematografica della pellicola.

In conclusione Split non solo rappresenta la conferma del ritorno sulla strada maestra di un autore unico nel cinema statunitense ma è anche, a tutti gli effetti, uno dei migliori film dell'anno e se fruito insieme al precedente Unbreakable (2000) forma un dittico straordinariamente originale sul mito dei supereroi.

lunedì 17 luglio 2017

LA COLLINA DEI PAPAVERI: L'ADOLESCENZA DEL GIAPPONE ATTRAVERSO UNA COPPIA COMUNE

In seguito al non esaltate esordio alla regia con I racconti di Terramare (2006) Goro Miyazaki necessitava di un lavoro che ne affermasse finalmente il talento, cosa tutt'altro che semplice per chiunque abbia un genitore così ingombrante come Hayao, e così nel 2011 dirige La collina dei papaveri. Scritto proprio dal padre il lungometraggio convince appieno critica e fan dello Studio Ghibli, con particolari meriti riservati proprio alla capacità dell'autore di distanziarsi dallo stile paterno trovando quella quadratura del cerchio che era mancata nell'opera prima.

Protagonista delle vicende narrate è Umi, una studentessa sedicenne della Yokohama del 1963 (l'anno successivo si sarebbero svolte le Olimpiadi di Tokyo) che vive insieme alla nonna in un ex-ospedale trasformato in locanda, della quale per altro si occupa quasi interamente la ragazza. La sua vita scorre in maniera piuttosto semplice, scandita da una routine che comincia e finisce ogni giorno con dei segnali nautici che la giovane manda attraverso una bandiera davanti casa. Un giorno a scuola si scontra, in tutti i sensi, con il diciassettenne Shun, studente che si occupa del giornale della scuola. Il loro incontro cambierà le vite di entrambe e persino il futuro dell'edificio storico in cui si riuniscono i club scolastici.

In questo secondo lungometraggio Goro Miyazaki abbandona totalmente le atmosfere fantasy e fiabesche dell'esordio e sembra averne giovato sia narrativamente che formalmente. Sebbene La collina dei papaveri abbondi di elementi estremamente noti agli appassionati di animazione giapponese non può non affascinare e far riflettere la sensibilità, anche intellettuale, con la quale viene ricreato un periodo fondamentale nella storia del paese del sol levante: quei primi anni '60 che hanno visto la rinascita economica del paese in seguito al tragico epilogo del secondo conflitto mondiale. Anni di grande fermento segnati da una nuova speranza in un futuro positivo per le nuove generazioni insomma, eppure funestato da un conflitto fortissimo proprio tra questa voglia di futuro e quel passato intriso di tradizioni e storia. Un passato che aveva effettivamente prodotto mostri, come l'imperialismo e le conseguenti guerre sfociate nel disastro atomico, ma anche secoli di cultura e arte da preservare. Esattamente all'interno di questa dialettica futuro/tradizione si muovono i ragazzi della scuola frequentata dai protagonisti e sarà proprio Shun a dettare la linea vincente per il Giappone, con un intervento durante un'assemblea al limite della rissa nel quale afferma l'impossibilità di costruire un futuro senza la storia.

Il fascino innegabile di questa riflessione si intreccia con notevole perizia al rapporto di amicizia (e poi d'amore) che nasce tra  Umi e Shun, capace di diventare così forte da riuscire a superare persino alcune scioccanti scoperte sul passato di uno dei due, il tutto restando sempre in un registro quotidiano che rende i sentimenti dei due ragazzi estremamente vicini ai trascorsi di ognuno di noi. La love story non si snoda mai attraverso sequenza in cerca di un pathos fasullo tipico di tanta commedia romantica, bensì resta all'interno di quelle esperienze piuttosto banali tipiche dell'adolescenza che in seguito diventano mitiche attraverso il filtro del ricordo. Parlando proprio di adolescenza non può non risultare evidente il ricorso alla sineddoche da parte del regista nel momento in cui ambienta proprio nel 1963 l'affair tra i due giovani, visto che il periodo descritto in precedenza può essere a pieno diritto considerato l'equivalente dell'adolescenza umana per il Giappone moderno, una fase di transizione tra gli orrori dell'infanzia (Hiroshima e Nagasaki) e il benessere economico dell'età adulta.

In definita La collina dei papaveri riesce nell'ardua impresa di intrattenere e commuovere lo spettatore di ogni tipo senza rinunciare a una finezza intellettuale come l'accomunare la Storia (quella delle classi egemone, dei grandi avvenimenti politico-militari) alla storia delle persone comuni, attraverso la poesia del racconto, degli splendidi colori in ogni inquadratura e della colonna musica, vero gioiello di semplicità.

venerdì 14 luglio 2017

SI SENTE IL MARE: L'AMORE ADOLESCENZIALE TRA LIRISMO E SEMPLICITÀ

Nato come primo (e ultimo) esperimento televisivo del celebre Studio Ghibli con alla regia un giovane animatore, Si sente il mare viene mandato in onda in Giappone nel 1993 e alcuni mesi dopo distribuito nelle sale cinematografiche. L'opera diretta da Tomomi Mochizuki non riuscì nell'intento di avviare una serie di prodotti televisivi della casa di produzione a basso budget, proprio a causa dell'aumento imprevisto dei costi di produzione, ma ha ottenuto nel corso degli anni un ottimo riscontro critico che ha portato i distributori italiani a doppiarlo e, finalmente, renderlo reperibile nel nostro paese lo scorso anno.

Il film esplora, attraverso vari salti temporali in entrambe le direzioni, il triangolo sentimentale che viene a crearsi in maniera quasi involontaria tra studenti delle superiori: il protagonista Morisaki, il suo migliore amico Matsuno e la nuova arrivata a scuola Muto. Inizialmente è Matsuno a invaghirsi della ragazza arrivata da Tokyo, tanto da assillare spesso l'amico con le tipiche paranoie dei giovani amori, eppure durante una gita scolastica ad avvicinarsi sempre più sono gli altri due componenti di questo triangolo, superando le maschere che indossano davanti alla maggior parte delle persone ma non senza tensioni e incomprensioni.

Appare più che lapalissiano quanto il lungometraggio non inventi assolutamente nulla da un punto di vista prettamente narrativo, anzi piuttosto non fa niente per nascondere l'aderenza a certi canoni dello studio giapponese. A compensare la mancanza di originalità è, cosa tutt'altro che banale, il tono generale con il quale l'autore affronta un tema esplorato in lungo e in largo come la scoperta dell'amore e il passaggio dall'adolescenza all'età adulta: non ci sono momenti di sensazionalismo o presunte esplosioni ormonali tipiche di tanta narrativa "coming of age", bensì piccoli frammenti di vita quotidiana, esperienze che tutti noi abbiamo potuto esperire senza dargli inutili e pesanti toni epici o melodrammatici. Sequenze come la notte in hotel passata da Morisaki e Muto sono piccoli gioielli di semplicità emotiva, di onestà nella scrittura che non possono non riesumare ricordi lontani nella mente di qualsiasi spettatore.

Ovviamente non sarebbe possibile ottenere tanta delicata potenza emotiva senza una cura formale degna di questo nome. La qualità di disegni e animazioni si avvicina molto ai migliori prodotti di Isao Takahata, nonostante il budget minore, così come la scelta di inquadrature fisse ricche di giochi prospettici e con una durata spesso prolungata, una dilatazione dei tempi che permette una maggiore riflessione e reminiscenza nel pubblico. Tutt'altro che casuali sono le numerose vedute del mare, una presenza costante per tutta la durata del film che assume molteplici valenze simboliche, come la mutevolezza che accomuna le onde e le emozioni umane.
Si sente il mare si può considerare, in definitiva, un'esperienza filmica tutt'altro che mediocre o dimenticabile come molti giudizi italiani l'hanno definita; piuttosto la definirei una di quelle piccole gioie vissute durante gli anni della scuola e che con il passare del tempo, attraverso il costante lavoro della memoria, diventa un ricordo capace di farci sorridere.

martedì 11 luglio 2017

COME UN TUONO: TRAGEDIA ATTICA AL TEMPO DELLA PICCOLA PROVINCIA AMERICANA

Reduce dal fortunatissimo Blue Valentine (2010) Derek Cianfrance scrive e dirige due anni dopo The Place Beyond the Pines, o in Italia Come un tuono, un vero e proprio banco di prova per la sua carriera. Nonostante le reazioni non siano state universalmente entusiastiche come per il precedente lavoro il film ha ricevuto il plauso della critica e i favori del pubblico, specie per l'interpretazione di Ryan Gosling.

L'arco narrativo può essere suddiviso in tre atti, quasi autoportanti come veri e propri mediometraggi all'interno di una trilogia. Il primo ha per protagonista proprio il personaggio interpretato da Gosling, un motociclista chiamato Luke che si esibisce in una sorta di circo itinerante come stuntman. Una sera dopo lo spettacolo scopre di avere un figlio con una sua precedente amante (Eva Mendes), così abbandona la carriera per stabilirsi nella cittadina in cui vivono i due e trova lavoro come meccanico. Non riuscendo a guadagnare abbastanza da mantenere quella che vorrebbe far diventare una vera e propria famiglia inizia a darsi alle rapine in banca. Il secondo atto inizia nel momento in cui il destino del bel motocilista si incrocia con quello di Avery Cross (Bradley Cooper), poliziotto con poca esperienza ma grande ambizione, il quale eredita i panni del protagonista e di eroe del proprio distretto, un luogo in cui la corruzione dilaga a sua insaputa. Infine l'ultimo atto, del quale non rivelo i protagonisti causa spoiler, chiude il cerchio.

Fin dal breve sunto della trama appare chiara l'ambizione insita in questa terza fatica del giovane cineasta statunitense e la marcata ispirazione al teatro tragico attico, un mondo in cui nessuno è prettamente buono o solamente cattivo e nel quale l'unica legge vigente è quella del fato, monarca assoluto che punisce senza pietà chiunque abbia peccato. Non importa quanto un uomo cerchi di rimediare alla sua colpa, nella visione tragica della vita questi non potrà sottrarsi al castigo divino. Non c'è alcuna traccia di libero arbitrio o redenzione in Come un tuono, chi sbaglia paga e non solo lui ma persino le generazioni successive ne ereditano il peccato originale (unico principio cristiano presente nell'opera) senza però poter annullarlo attraverso il rito del battesimo.

Una mancanza, quella della libertà dell'individuo, sottolineata a più riprese dalla macchina da presa di Cianfrance, come sottolinea il meraviglioso quanto conturbante (in senso freudiano) piano sequenza iniziale, durante il quale la camera segue da una distanza così ravvicinata Luke da sembrare quasi uno spettro alle sue costole e lo stunt all'interno di una sfera metallica sembra essere il simbolo dell'intera vicenda narrata: una storia di uomini in gabbia, schiavi di dinamiche ben più grandi di loro. Certo all'interno di questa cella il giovane corre e si diletta con il proprio talento ma finisce per schiantarsi irrimediabilmente, proprio come un tuono. Sintomi e prove di questa chiave di lettura dell'epica costruita dall'autore di Blue Valentine sono anche le numerose trasgressione che si concede rispetto ai codici dei generi americani che, soprattutto nel western e nell'action, privilegiano figure di uomini-titani capaci di ergersi contro una sorte avversa risultandone vincitori, in pieno rispetto del sogno americano del self-made man. Non in questo caso.

In conclusione consiglio la visione di The Place Beyond the Pines non solo a chi era rimasto folgorato dalla precedente pellicola del suo regista ma a chiunque abbia l'ostinazione di cimentarsi con un'opera tanto amara quanto elegantemente realizzata, capace di rendersi memorabile grazie proprio ai suoi azzardi.