venerdì 24 febbraio 2017

THE STRANGERS: LA VIOLENZA PRIVA DI VOLTO, PRIVA DI RAGIONE

All'ormai lontano 2008 risale l'esordio da regista e sceneggiatore dell'americano Bryan Bertino, una new entry nell'ormai piuttosto affollato sottogenere horror detto home invasion intitolata The Strangers. A fronte di un budget piuttosto esiguo per gli standard statunitensi il film ottiene un ottimo successo commerciale, grazie al quale ottiene anche una distribuzione in Italia, pubblicizzata con forza a un anno di distanza. Nonostante un buon riscontro di pubblico anche in Europa a restare ben più fredda è la critica, soprattutto quella d'oltreoceano, concentrata soprattutto sulle somiglianze della trama con altri esponenti dello stesso genere (ad esempio quel Them diretto nel 2006 dai francesi David Moreau e Xavier Palud) più che sull'apporto stilistico del suo autore, il lato che più di ogni altro conta nel cinema definibile di genere.

Il lungometraggio si apre con un criptico incipit che soltanto alla fine si scoprirà essere un flashforward, al termine del quale vengono finalmente introdotta la coppia protagonista: James (Scott Speedman) e la sua ragazza Kristen (la mai deludente Liv Tyler). I due sono in piena crisi dopo che la donna ha rifiutato la proposta di matrimonio del compagno e si trovano a raggiungere la casa dei genitori di lui senza avere neanche la forza di guardarsi negli occhi. Durante un tentativo di riavvicinarsi bussa alla porta una ragazzina chiedendo di una certa Tamara. James le dice di aver sbagliato ma la misteriosa giovane si congeda con un inquietante "ci vediamo più tardi". Come preannunciato la ragazza busserà altre volte al portone della casa, venendo raggiunta da altri due personaggi mascherati con i quali trasforma la nottata, già molto negativa, dei protagonisti in un incubo.

Risulta evidente persino da una breve sinossi come la mia quanto The Strangers si affidi a molti degli elementi cardine del proprio genere di appartenenza come gli aggressori mascherati, la coppia interrotta durante l'intimità o la casa sperduta ma, come ho ribadito in altri post, in un prodotto fieramente di genere lo stile è ciò che lo contraddistingue e che ne determina la riuscita. Una delle scelte più personali di Bertino è quella di limitare più possibile i momenti di violenza grafica per concentrarsi sulla creazione di un clima di tensione, una operazione che lo porta a concentrarsi per almeno metà film sul burrascoso rapporto d'amore tra i personaggi principali e in seguito sul senso di pericolo in agguato nato dalle ripetute apparizioni della misteriosa ragazzina. A rendere davvero palpabile questo clima è proprio la regia del cineasta americano, il quale utilizza con intelligenza la steadycam per creare una lunga serie di false soggettive aventi l'effetto di aumentare la carica voyeristica della pellicola, così come in alcune riuscitissime inquadrature (si pensi alla prima apparizione dell'uomo mascherato) sfrutta la profondità di campo. Altrettanto fondamentale risulta l'apporto di un montaggio tutt'altro che banale, capace di creare momenti di grande qualità estetica (i sinistro incipit) ma anche di asciugare il racconto, eliminano ogni pericolo di prolissità e donandogli una naturalezza spesso sconosciuta agli horror a stelle e strisce. Indiscutibilmente affascinante, cosa che non si può dire di molte produzioni simili, si dimostra la fotografia, la quale esalta soprattutto il contrasto tra il buio della notte in una casa sperduta e i colori caldi dati da fonti di luce diegetiche così come da altri elementi di colore rosso, come ad esempio i petali sparsi da James.

Proprio i petali di rosa disseminati nella camera da letto dal protagonista per una sorpresa andata male introduce quello che a mio parere risulta essere il tema alla base dell'intero film: la violenza. Il rosso domina cromaticamente per tutta la sua durata e non a caso, dato essa è contraddistinta da episodi di violenza di natura diversa. Se l'assedio e la tortura, prima psicologica e poi fisica, inferta dalle figure mascherate si rivela la più palese non bisogna relegare in secondo piano quelle più subdole ma altrettanto dolorose messe in scena precedentemente. Questa diversa tipologia di violenza si potrebbe definire emotiva e può essere sintetizzata in quelle che si infliggono a vicenda James e Kristen, attacchi fatti di piccole meschinità che non fanno altro che incrinare il loro amore, come la scelta della donna di rifiutare la proposta per paure ingiustificate o la messa in discussione dell'intera relazione da parte del compagno. Nonostante la diversa origine e oggettivazione i due tipi di violenza appena espressi condividono la medesima mancanza di razionalità: così come gli aggressori negano in ogni modo un reale movente al loro comportamento (il"perché eravate in casa" diventa quanto mai eloquente) alla stessa stregua la coppia di innamorati si ferisce continuamente nella prima metà della pellicola ma senza un reale motivo razionale (esemplare la bugia sulle presunte battute di caccia), proprio come la paura, il sentimento più lontano dal raziocinio, spinge il giovane inesperto di armi a colpire fatalmente il suo migliore amico.

Cosa distingue allora in profondità il male inflitto fisicamente da quello inflitto al cuore? Il volto può farlo; infatti mentre sappiamo benissimo chi sia il soggetto dietro le ripicche tra i protagonisti nessuno sa chi ci sia realmente dietro le torture perpetrate. I tre villain utilizzano quasi sempre delle maschere tanto semplici quanto terrorizzanti ma a renderli davvero privi di identità è la macchina da presa di Bertino, la quale nega allo spettatore la visione delle loro facce persino quando le scoprono inquadrandone i piedi, allo stesso modo dell'ombra quando la più giovane del gruppo bussa per la prima volta alla porta delle future vittime.
Chiaramente il lungometraggio non ricerca una indagine sociologica stratificata quanto quella di Funny Games (Michael Haneke, 1997), eppure il ripetuto diniego di elementi empatici nei confronti degli assassini non può non far riflettere sulla banalità e l'irrazionalità del male.
Alla luce delle mie brevi riflessioni consiglio, soprattutto agli appassionati di horror, quanto meno un paio di visioni di The Strangers, un prodotto tutt'altro che esente da critiche ma altrettanto ben realizzato e interessante per essere un esordio assoluto per il proprio autore.

lunedì 20 febbraio 2017

INSOMNIA: TEMPO E MORALITÀ DOVE IL SOLE NON TRAMONTA

Sulla scia dell'enorme clamore provocato dal precedente Memento (2000) Christopher Nolan nel 2002 si occupa per la prima volta di una grande produzione hollywoodiana dirigendo Insomnia. La pellicola, remake omonimo del film norvegese del 1997 realizzato da Erik Skjoldbjærg, si avvale di un cast di grande richiamo mondiale e ottiene così un ottimo successo commerciale, così come recensioni estremamente positive. Con il passare degli anni e l'incremento esponenziale della fama del cineasta britannico il lungometraggio ha subito una ridicola (non potrei definirla altrimenti) campagna denigratoria, una di quelle idee poco sensate ma che diventano dogmi grazie al web per la quale debba essere considerato come il momento minore nella filmografia dell'autore di Inception (2010) a causa della sua natura di rifacimento e dello script non accreditatogli neanche in parte. Tralasciando la questione non del tutto chiara sugli interventi del cineasta sulla sceneggiatura tra poco individuerò sinteticamente alcuni spunti estremamente interessanti del film, oltretutto tipicamente nolaniani.

Al centro delle vicende narrate si trova l'ormai navigato detective della polizia di Los Angeles Will Dormer (Al Pacino), il quale viene mandato insieme al suo partner Hap Eckhart (Martin Donovan) in un piccolo centro dell'Alaska per aiutare la polizia locale a risolvere un caso di omicidio. Ad essere stata assassinata è una ragazza ancora minorenne appassionata di gialli scritti da un romanziere locale, tale Walter Finch (Robin Williams). Ad aiutare i due esperti poliziotti agisce soprattutto la giovane ma acuta Ellie (Hilary Swank). Will capisce immediatamente che il principale sospettato, il ragazzo della vittima, nonostante la picchiasse spesso non poteva essere il colpevole e fiuta la presenza di un altro uomo con cui la ragazza portava avanti uno strano rapporto ma è costretto a fare i conti con la decisione del proprio partner di patteggiare con gli affari interni, i quali stavano indagando senza sosta sui due. Nel momento in cui il protagonista riesce a mettere in trappola il presunto assassino la situazione degenera e, tratto (forse) in inganno dalla nebbia, colpisce mortalmente con la pistola di riserva il Hap, il quale prima di morire lo accusa di averlo voluto ammazzare con premeditazione. A questo punto l'uomo decide di non raccontare la verità e fa ricadere la colpa sull'assassino della diciassettenne, che però assiste all'accaduto e inizia a ricattare il poliziotto, ormai sempre meno lucido a causa dell'insonnia.

Persino da questa riduttiva sinossi è possibile riscontrare molti topoi della filmografia nolaniana, nonostante non sia errato definire Insomnia il suo primo lavoro su commissione e il soggetto sia una pellicola altrui. Il protagonista rispecchia in tutto e per tutto l'uomo al centro della sua riflessione, diviso tra il dovere verso le persone a cui ha dedicato tutta la propria vita (in questo caso le tantissime famiglie protette dalla polizia a cui spesso si fa riferimento) e una perdita del proprio io, una condizione di costante insicurezza nei confronti di quella visione razionale del mondo che permette di capire cosa sia reale e cosa non lo sia, cosa sia giusta e cosa sbagliato. Il personaggio interpretato da Al Pacino, esattamente come Leonard o Dom Cobb, si mostra estremamente meticoloso nel proprio lavoro ma dilaniato nell'interno da scelte passate che non possono essere cancellate e che condizionano il presente al punto da alterare completamente la percezione stessa che ha del mondo. L'impossibilità di dormire, dovuta ai rimorsi, provoca nell'uomo una perdita di lucidità resa ancor più potente dall'assenza del buio, dovuta a quel periodo dell'anno in cui in Alaska il sole non tramonta mai. L'insonnia diventa dunque una manifestazione fisica dei tormenti interiori di Will, il quale non riesce più a distinguere chiaramente il bene dal male proprio come non riesce più a capire quando sia notte e quando sia giorno.

In una situazione molto simile si trova Finch, che nelle chiamate effettuate al detective forestiero sottolinea quanto i due si somiglino a causa della loro incapacità di dormire e di tornare indietro una volta provato cosa significhi togliere la vita a un altro essere umano. Anche l'assassino si dimostra un uomo per natura estremamente razionale (si pensi alla sua attività di scrittore di gialli o all'escamotage del registratore) ma ormai in preda a una perdita delle proprie certezze, come ben si evince nel momento in cui racconta a Will ciò che accadde tra lui e la sua vittima.
A mettere in luce le debolezze e i tormenti dell'insonne protagonista è, proprio come nel successivo Inception, la giovane talentuosa presa sotto la propria ala, in questo caso la poliziotta portata sullo schermo da Hilary Swank. La donna, esattamente come Arianna, inizialmente nutre una ammirazione profonda per il proprio mentore ma con lo svolgersi della vicenda si rende conto dei segreti che nasconde e infine ne svela i peccati.

L'intera atmosfera di incertezza e indefinitezza percettiva/morale è resa ancor più palpabile dalle scelte cromatiche di Nolan, la cui mdp si concentra spesso sul bianco della neve, i grigi della nebbia e dei corsi d'acqua quasi ghiacciati o delle solitarie strade dell'Alaska. Altrettanto potenti risultano le visioni del protagonista sull'inquinamento delle prove in un suo precedente caso, rese magistralmente attraverso flashback enigmatici fatti di brevissime inquadrature al limite del subliminale che man mano diventano più chiare, al punto di venire esplicate totalmente durante la conversazione tra l'uomo e la proprietaria dell'hotel in cui alloggia, che per altro confessa di essersi trasferita in questa piccola cittadina proprio per sfuggire al passato ("due tipi di persone vivono in Alaska: quelli che ci sono nati e quelli che arrivano qui per scappare da qualcosa. Io non ci sono nata.").
Con un cast di star come quello del film in analisi non posso esimermi dal dedicare ad esso un piccolo spazio: Al Pacino offre una delle sue migliori performance del terzo millennio grazie alla combinazione tra il suo tipico carisma e una certa misura nel rendere la stanchezza del suo personaggio; più divertita è l'interpretazione di Robin Williams ma di sicuro impatto con l'espressione luciferina nel suo volto. Più in ombra appare Hilary Swank ma soprattutto per merito del gigantismo dei suoi colleghi, capaci di mettere in ombra chiunque diretti da un regista talentuoso come il cineasta inglese.
Arrivato al momento di tirare le somme mi congedo semplicemente consigliando a chiunque non l'abbia ancora visto il recupero di Insomnia, diffidando di certi giudizi superficiali che infestano il web 2.0. A tutti coloro che invece l'avessero già visto, beh pellicole come queste meritano sempre un'ennesima visione, soprattutto alla luce del percorso successivo del proprio autore sono molti gli elementi da riscoprire analizzando con cura ogni singola inquadratura.

martedì 14 febbraio 2017

IN THE MOOD FOR LOVE: LA TENSIONE VERSO UN SENTIMENTO MANCATO

Anno 2000. Il terzo millennio si apre con quello che sarebbe divenuto il film maggiormente noto in Europa di Wong Kar-wai, ossia In the Mood for Love. La pellicola incontra da subito una ricezione universalmente positiva da parte della critica, con tanto di premio per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes, e successivamente è stata inserita in numerose classifiche dei migliori film asiatici e non solo dalle più importanti riviste del settore.

Le vicende narrate si svolgono nella Hong Kong degli anni 60, nel pieno della decolonizzazione, e hanno per protagonisti la segretaria Su Li-zhen (Maggie Cheung) e il giornalista Chow Mo-wan (Tony Leung). I due si trasferiscono lo stesso giorno in due appartamenti adiacenti con i rispettivi compagni ma si trovano a passare gran parte del loro tempo a lavoro e poi da soli nelle proprie camere. A causa di alcuni piccoli indizi notati da entrambi questi si rendono conto che le persone da loro amate hanno in realtà una relazione extraconiugale, una scoperta che porta l'uomo e la donna traditi a passare molto tempo insieme per capire come possa essere nata tale storia. Nonostante Chow e la signora Chan arrivino al massimo ad abbracciarsi nasce tra i due un fortissimo sentimento.
Ammetto quanto sia pretenzioso parlare esaustivamente di un'opera come In the Mood for Love in poche righe, per questo mi soffermerò su alcuni aspetti che hanno suscitato il mio interesse e che credo possano spingervi a scoprirla o a riassaporarla.

Da un punto di vista puramente visivo non è possibile esimersi dal restare incantati dall'eleganza dei movimenti di macchina effettuati dal cineasta cinese, sempre morbidi e sinuosi, così come la posizione della stessa che molto spesso si trova a creare inquadrature parzialmente coperte, come se la mdp si identificasse con lo sguardo di uno spettatore che osserva il tutto dal buco della serratura. Al virtuosismo (tutt'altro che ingiustificato, come spiegherò tra poco) della regia fa eco una fotografia caratterizzata dall'abbondanza di colori caldi, soprattutto il rosso, filtrati però per gran parte del film da una patina che sembra dissolverli rendendoli meno definiti: un effetto dovuto in alcune sequenze al fumo di sigaretta o in altre alla pioggia ma che risulta costante e che si collega ai temi principali del lungometraggio.

Vi chiederete quali siano questi temi che esplodono fin dall'incipit con la voce narrante e la risposta a mio avviso è meno banale di quanto sembri. Gran parte della critica si è concentrata, anche in maniera corretta se si conosce la filmografia di Wong Kar-wai, sul tempo e la sua ineluttabilità. L'intera vicenda narrata viene raccordata da un montaggio che lavora attraverso un'estrema sottrazione, tanto che molte volte il passare dei giorni o delle stagioni viene segnato solamente dai cambi d'abito della signora Chan; la nitidezza dei colori caldi scelti per gli ambienti e i costumi diviene soffusa e i partner fedifraghi non vengono mai mostrati, come se fossero rimossi dalla memoria. Ecco la parola chiave: l'intero film viene narrato come una serie di ricordi-lampo rivissuti nella mente dei protagonisti e a confermarlo è l'emblematico discorso finale del narratore, il quale rende esplicita le similarità tra ciò a cui lo spettatore ha assistito e i ricordi stessi. Entrambi possono essere goduti attraverso la vista ma mai attraverso il tatto poiché ormai sono lontani, o meglio irraggiungibili.
Irraggiungibile è non solo il passato ma lo è per Chow e Su Li-zhen soprattutto l'amore. I due inizialmente si frequentano come per elaborare la paradossale situazione nella quale si sono ritrovati ma pian piano finiscono per non poter più fare a meno dell'altro. Spesso arrivano a sfiorare l'uno la mano dell'altro, in un paio di sequenze si abbracciano eppure il loro amore, che pure risulta evidente dagli sguardi e da tanti silenzi quanto mai eloquenti, non si tramuta mai in un rapporto fisico, sia per poter mantenere le distanze da ciò che hanno subito dai propri partner, sia per non incorrere nei giudizi moralisti della società cinese dell'epoca. In questo modo il sentimento in questione resta una specie di miraggio, un inarrivabile orizzonte a cui si può tendere e basta, cosa che fa sì che i due si trovino in quello stato preparatorio al sentimento vero e proprio, ossia il mood del titolo occidentale scelto dal director asiatico. Proprio questo secondo me risulta essere, insieme alla riflessione sul tempo, il tema portante dell'intero film che spesso è stato poco considerato, nonostante venga confermato persino dal più evidente degli elementi di una pellicola.

Meriterebbero ampio spazio anche le prove attoriali di Maggie Cheung, di una bellezza raffinatissima che tenta di mascherare la grande solitudine che la sovrasta, e Tony Leung, tormentato quasi quanto un antieroe da noir, così come la colonna musica ( si pensi all'utilizzo leitmotivico di Yumeji's Theme) ma ho preferito concentrarmi maggiormente sulle connessioni tra lo strabordante stile visuale e la poetica espressa.
In conclusione In the Mood for Love riesce nell'arduo compito di abbagliare l'occhio con la cura per lo stile e allo stesso tempo di emozionare in maniera intelligente e sincera, il tutto con quella magia che travalica le forme propria della poesia.

mercoledì 8 febbraio 2017

HANA-BI: RINASCERE DALLE PROPRIE CENERI, DALLA MORTE

Nell'ormai lontano 1997 (incredibile ma vero ben venti anni fa) l'ex comico televisivo Takeshi Kitano, conosciuto anche con il nome d'arte Beat Takeshi con cui si firma nella veste di attore, dirige, scrive e monta quello che è considerato ancora oggi il suo magnum opus: Hana-bi, conosciuto in Italia come Hana-bi - Fiori di fuoco. La pellicola viene presentata in anteprima al Festival di Venezia dove si aggiudica il Leone d'Oro, premio che funge da preludio all'enorme successo critico ricevuto in seguito, tale da lanciare definitivamente il suo autore nell'Olimpo del cinema autoriale mondiale.

Protagonista del film è lo stesso Kitano, il quale interpreta un ex poliziotto violento e indebitato con la yakuza distrutto dalla leucemia incurabile della moglie. Durante una visita all'ospedale un poliziotto viene ucciso durante un agguato, mentre l'altro suo collega Horibe resta paralizzato e viene abbandonato da moglie e figlia. A questo punto le vite dei due intraprendono due strade separate per poter affrontare le proprie sconfitte: Nishi (Beat Takeshi) compie una rapina per poter fare un'ultima vacanza con la moglie, risarcire la famiglia del poliziotto morto e donare tutto l'occorrente per dipingere a Horibe; quest'ultimo inizialmente tenta il suicido ma in seguito si dedica interamente all'arte.

All'apparenza il settimo lungometraggio del regista di Sonatine (1993) potrebbe rientrare all'interno del genere yakuza movie, lo stesso con cui aveva esordito il suo autore, eppure risulta fin troppo chiaro quanto le regole del genere gli stiano strette, quanto esse siano soltanto un tassello di un mosaico ben più complesso. Da un punto di vista squisitamente narrativo non mancano richiami ai topoi dell'action giapponese, come gli scontri tra forze dell'ordine e malavita, l'ambiente urbano o la violenza grafica per niente edulcorata ma ognuno di essi viene stravolto e accostato a elementi in grande contrasto, tra cui spiccano le lunghe digressioni intimiste, i giochi tra il protagonista e sua moglie e la passione per la pittura sviluppata dal poliziotto paralizzato. Il fulcro dell'intera vicenda narrata diventa insomma non l'azione, come dovrebbe essere in un vero yakuza movie, bensì la ricerca di riscatto nei confronti della depressione, addirittura della morte. I due personaggi principali si trovano entrambi nel punto più misero e oscuro della propria vita, durante il quale anelano una liberatoria cessazione della vita poiché non può definirsi tale un'esistenza in cui si viene privati dell'unico elemento di distinguo tra gli esseri umani e le bestie (simboleggiate dagli anonimi e stupidi sgherri della malavita), ovvero l'amore. La risposta alla depressione in cui cadono i due non si rivela essere la stessa e a differenza di molti altri Kitano non privilegia nessuna delle due, anzi le rende entrambe romantiche e condivisibili allo stesso modo attraverso la poesia delle immagini.

Eccoci dunque all'aspetto che innalza a livelli assoluti la pellicola in analisi, ossia quello visivo. Mai come in questa occasione la macchina da presa del cineasta giapponese evita il più possibile movimenti esasperati preferendo dei long take fissi, rigidi e stretti nella morsa di quel male oscuro che pervade i personaggi inquadrati. All'immobilità della mdp risponde un montaggio estremamente prezioso, il cui alternare le vicende di Nishi a quelle di Horibe crea dei forti legami tra le emozioni dei due uomini, così come l'alternanza tra paesaggi reali e dipinti offre non solo delle suggestioni visive di fascino indiscusso (si pensi agli alberi di ciliegio e al relativo quadro) ma anche un impatto emotivo puramente lirico, come dimostrano le numerosi inquadrature del mare.
A rendere maggiormente incisivo il carattere poetico del lavoro del regista sono le strepitose musiche di Joe Hisaishi, vere e proprie trasposizioni in note delle suggestioni visive, e l'interpretazione proprio del director, il quale rende palese la natura fortemente autobiografica del lungometraggio attraverso i suoi silenzi, i gesti, i piccoli momenti di intimità emotiva con la consorte. Persino la fissità nel volto dell'artista, che diventa una vera e propria maschera, non solo rispecchia quel mistero del cinema che si fa vita (parte della faccia di Beat Takeshi è rimasta immobilizzata in seguito a un grave incidente, lo stesso che lo ha portato a un lungo periodo di depressione dal quale è uscito soltanto grazie alla pittura) ma risulta quanto mai consona a un uomo che ormai sa di essere arrivato all'ultimo gradino del proprio percorso.

In conclusione Hana-bi potrebbe risultare per alcuni di voi una visione non così semplice visti si suoi ritmi e l'ampio utilizzo di figure retoriche molto sottili, eppure trovo che difficilmente riuscirete a non emozionarvi di fronte a tanta bellezza e tanta vita reale in un'unica poesia multimediale.

lunedì 6 febbraio 2017

SPIDER-MAN 2: IL CINECOMIC D'AUTORE SECONDO RAIMI

Se è vero che nel nostro presente i cosiddetti cinecomic sembrano spuntare come funghi in ogni periodo dell'anno bisogna anche ricordare che basta tornare indietro di una decina di anni o poco più per ritrovare un mercato completamente diverso. Agli inizi del terzo millennio di pellicole tratte da fumetti più o meno famosi ne erano state girate già tante, con tanto di pietre miliari quali Superman (Richard Donner, 1978) o Batman (Tim Burton, 1989), eppure, come potete notare dai due esempi citati, la qualità media era sempre stata tarata verso il basso, soprattutto per le opere più recenti. A costituire un'eccezione e a dimostrare quanto ancora avesse da dire la commistione cinema/fumetto furono X-Men (Bryan Singer, 2000) e Spider-Man (Sam Raimi, 2002). Oggi ho deciso di proporre alla vostra attenzione il sequel del fortunatissimo blockbuster basato sul personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko: Spider-Man 2, diretto nel 2004 ancora una volta da Raimi con la conferma di gran parte del cast che aveva segnato il successo del prequel. Il lungometraggio, nonostante la storica difficolta dei seguiti a ripetere la qualità del primo episodio, si rivela un altro enorme successo al botteghino e ottiene un'accoglienza eccezionale dalla critica, che addirittura lo reputa superiore al film del 2002.

La trama si svolge circa due anni dopo quelle narrate nel prequel e vede Peter Parker (Tobey Maguire) costretto a destreggiarsi, con ben poca dimestichezza, tra i problemi della vita quotidiana e la sua attività di vigilante. A complicare ulteriormente il precario equilibrio raggiunto dal ragazzo si aggiungono il risentimento nei confronti di Spider-Man manifestato con sempre maggior rabbia dal suo migliore amico Harry (James Franco), la storia d'amore negata con Mary Jane (Kirsten Dunst) e l'incidente occorso al geniale scienziato Otto Octavius (Alfred Molina), che lo trasforma nel terribile Doctor Octopus.

Spesso i seguiti si limitano a riprendere la struttura portante dell'episodio precedente aumentando le dosi di ogni suo componente, esattamente come affermava Randy nella celeberrima sequenza di Scream 3 (Wes Craven, 2000) in cui elenca le regole di ogni trilogia, ma Spider-Man 2 non è diretto da un regista qualunque. La mente dietro la trilogia di Evil Dead sceglie di non limitarsi al compitino; al contrario applica al film con maggiore vigore il suo inconfondibile stile, ormai conscio di poter osare con successo nonostante i rischi comportati da un budget sterminato, rendendo il prodotto ben più personale rispetto al già ottimo predecessore. In fondo basterebbe constatare la struttura generale della pellicola per rendersi conto delle sue peculiarità: mentre quasi tutti i sequel, specie nel genere action, aumentano a dismisura le sequenze di lotta e di pari passo l'uso di effetti speciali in questo caso il cineasta statunitense si sofferma maggiormente sui problemi personali del protagonista, dando quindi più risalto all'introspezione rispetto all'azione, che in fin dei conti resta, seppur nella sua spettacolarità, relegate ad alcuni densi momenti. Raimi sceglie coraggiosamente di porre al centro dell'intero lungometraggio la scelta e i dubbi che la accompagnano all'interno del percorso umano di Peter, un ragazzo che si conferma ancora una volta in tutto e per tutto simile ai suoi coetanei di ogni dove, se soltanto non gravasse su di lui il peso di quei grandi poteri da cui derivano grandi responsabilità. Un peso che a un certo punto della narrazione finisce persino per schiacciarlo e fargli scegliere di abbandonare il supereroismo a favore di soddisfazioni più personali. In fondo chi potrebbe biasimare la sua scelta? Chi di noi non ha mai mollato? Tutti noi, soprattutto in quei momenti di passaggio da una fase all'alta della nostra vita, siamo caduti, abbiamo arrancato e proprio nel momento di maggior buio abbiamo trovato la luce, proprio come il personaggio interpretato da Tobey Maguire che si conferma uno dei supereroi più umani e quello più vicino al mondo dei giovani adulti.

Allo stesso modo risulta impossibile non provare una certa empatia anche con personaggi sul filo del rasoio morale come Harry e Octavius, entrambi alle prese con il dubbio proprio come il protagonista. Il giovane Osborn diventa sempre più assetato di vendetta nei confronti di Spider-Man eppure continua a considerare Peter un fratello, tanto che anche nel momento in cui scopre la sua seconda identità rinuncia alla vendetta. Lo scienziato interpretato da Alfred Molina appare inizialmente come un uomo passionale, innamorato del suo lavoro e ancor più di sua moglie ma nel momento in cui applica su di sé i tentacoli meccanici viene sopraffatto dalla loro intelligenza artificiale, che lo rende spietato; soltanto alla fine dell'ultimo scontro con Peter recupera la propria individualità e si trova anch'egli a dover scegliere tra la strada più semplice ma errata e quella giusta ma dura, proprio come il suo antagonista.

Come accennato in precedenza anche stilisticamente l'autore di Darkman (1990) opta proprio come i suoi personaggi per la strada più complicata ma vincente. Avendo ormai preso possesso dei mezzi tecnici adatti a destreggiarsi tra effetti speciali digitali e grandi dispieghi di mezzi il regista si permette di inserire molti dei suoi tocchi personali, a cominciare dall'immancabile quanto esilarante cameo dell'amico Bruce Campbell, e utilizzare la macchina da presa come meglio preferisce, regalando allo spettatore momenti di puro godimento estetico e cinefilo come la sequenza del risveglio in ospedale di Doctor Octopus, esemplare per movimenti di macchina, soggettive impossibili ad alta velocità e grado di violenza, tutti elementi che richiamano le pellicole horror di Raimi. A momenti quasi a cinema dell'orrore come quello appena descritto si avvicendando altri estremamente comici (basti pensare alla sequenza in ascensore) in grado di non stonare mai con il tono generale del film, altro carattere peculiare dello stile del cineasta del Michigan, il quale fin dal suo film d'esordio ha sempre saputo creare originali commistioni tra violenza e grottesca comicità.
Assolutamente di rilievo la prova di tutto il cast, specie le interpretazioni di Tobey Maguire, James Franco e J. K Simmons, che trova maggior spazio per dare sfogo alle strabordanti doti comiche del suo J. Jonah Jameson, così come sempre efficaci risultano le musiche composte da Danny Elfman, il cui stile resta inconfondibile ma anche adatto alla pellicola.
Tirando le somme Spider-Man 2 resta ancora oggi uno degli esiti più interessanti dell'incontro tra logiche produttive da blockbuster e autorialità, specie per il pubblico odierno abituato a decine di produzioni basate su supereroi cartacei che però hanno in gran parte rinunciato alla personalità che potrebbe dargli un autore conscio del proprio stile e della propria poetica, purtroppo anche per colpa di un pubblico pronto a punire severamente coloro che provano a osare.

venerdì 3 febbraio 2017

ROOM: DALLA CRONACA NERA ALLA FIABA

Reduce dall'ottimo responso critico di Frank (2014) Lenny Abrahamson dirige nel 2015 Room, tratto dall'omonimo romanzo scritto da Emma Donoghue, la quale si occupa in prima persona dell'adattamento realizzando la sceneggiatura del film. La pellicola diventa un vero e proprio fenomeno all'interno dei festival e conquista a tal punto la critica da portarla a vincere numerosi premi, tra cui un Golden Globe e un Academy Award (entrambi destinati all'attrice protagonista).

L'intera vicenda narrata viene rappresentata dal punto di vista di Jack (Jacob Tremblay), un bambino che ha appena compiuto cinque anni e che ha sempre vissuto rinchiuso in una stanza insieme alla giovane madre (Brie Larson). Per proteggere il figlio dalla durissima verità dietro la loro segregazione Joy (o Ma, come viene chiamata dal piccolo) gli ha fatto credere che fuori non ci sia niente di reale e che la vita inizi e finisca tra quelle quattro mura. In seguito al quinto compleanno la donna decide finalmente di rivelare la verità sul mondo esterno, su "stanza" e sul perché si trovino prigionieri: a non farli uscire è l'uomo che il bambino conosce come Old Nick, il quale ingannò e segregò Joy sette anni prima e grazie a una porta con una serratura elettronica risulta essere l'unico a poter entrare ed uscire dalla suddetta stanza. Durante questi sette anni l'aguzzino ha abusato ogni notte della co-protagonista, portando alla nascita del bimbo. Ormai esasperata la giovane madre elabora un piano per permettere a Jack di uscire e chiamare aiuto fingendosi morto. La strategia si rivela vincente e la polizia riesce a trarre in salvo i due reclusi ma il passaggio alla vita libera non si rivela semplice.

Certamente un motivo come quello di una ragazza segregata e violentata per anni non può che smuovere la sensibilità di qualsiasi essere umano degno di tale appellativo e quindi sarebbe stato molto facile per il regista realizzare un prodotto sensazionalista, colmo di momenti atti a sconvolgere e indignare lo spettatore, un po' come succede in tanti talk show. Abrahamson dimostra ancora una volta di essere un artista di grande spessore e quindi non si limita a evitare questa strada ma addirittura la critica apertamente in una delle sequenze più riuscite, il momento in cui Ma viene intervistata da una conduttrice televisiva che fa di tutto per metterla in difficoltà e mostrarne le presunte colpe nella tragedia capitata a lei e al figlio.
Sarebbe stato più semplice inoltre raccontare la storia scegliendo il punto di vista della donna, esattamente come accade in ogni resoconto di cronaca nera che ci capita di leggere sui giornali o vedere in televisione, ma il cineasta irlandese sconvolge tutti utilizzando come vero protagonista Jack, cosa che trasforma completamente il film sia narrativamente che stilisticamente. Il piccolo ha una visione di ciò che accade condizionata pesantemente dalla bizzarra educazione ricevuta dal genitore, cosa che gli fa vedere la stanza come un intero e sconfinato mondo pieno di magia e giochi da fare, tanto che lo spettatore nei minuti iniziali si ritrova spiazzato da ciò che vede e percepisce soltanto piccoli indizi dell'orrore che vi si cela. L'intera vicenda filtrata attraverso la percezione del bambino, che si esprime addirittura direttamente attraverso brevi monologhi, assume la dimensione della fiaba, di quel viaggio avventuroso affrontato da un giovane per conoscere sé stesso e la vita attraverso il superamento di ostacoli tutt'altro che banali. Una volta acquisita quest'ottica risulta semplice individuare i numerosi riferimenti alle più note fiabe che hanno accompagnato l'infanzia di tutti noi, come il viaggio all'interno del tappeto che richiama Aladino, e assume un valore emotivo ancora più potente la seconda parte della pellicola, nella quale il piccolo eroe si carica sulle spalle ancora una volta il salvataggio di sua madre, minacciata da un nuovo orco, ben più subdolo e sfuggente: la depressione. Proprio un espediente fiabesco, i capelli di Jack in cui secondo lui si trova la fonte della propria forza, riesce a salvare dal baratro la sua amata Ma.

Come ho anticipato poche righe fa l'inedito punto di vista assunto si ripercuote anche sull'aspetto visuale del lungometraggio; le inquadrature si trovano sempre o quasi all'altezza del piccolo protagonista e sottolineano con estrema precisione gli sconvolgimenti e lo stupore che prova persino per le situazioni più comuni. Tutt'altro che la tipica regia a cui siamo abituati per temi tanto cupi, cosa che rende sicuramente i personaggi più umani e vicini alla nostra emotività. Effetto reso incredibilmente efficace dalle strepitose interpretazioni di Brie Larson e Jacob Tremblay, mai eccessive, improntate alla sottrazione e all'interiorizzazione di traumi quasi inimmaginabili per molti di noi.
Alla luce di questa breve analisi spero che chi di voi non abbia mai visto Room possa dargli una chance, soprattutto chi ama il cinema bello esteticamente e ricco allo stesso tempo di emozioni da regalare allo spettatore ma anche per tutti coloro che sono stanchi dell'ipocrisia di chi spettacolarizza i drammi altrui e vuole conoscere il male dal punto di vista più innocente che esista: quello di un bambino.