mercoledì 8 febbraio 2017

HANA-BI: RINASCERE DALLE PROPRIE CENERI, DALLA MORTE

Nell'ormai lontano 1997 (incredibile ma vero ben venti anni fa) l'ex comico televisivo Takeshi Kitano, conosciuto anche con il nome d'arte Beat Takeshi con cui si firma nella veste di attore, dirige, scrive e monta quello che è considerato ancora oggi il suo magnum opus: Hana-bi, conosciuto in Italia come Hana-bi - Fiori di fuoco. La pellicola viene presentata in anteprima al Festival di Venezia dove si aggiudica il Leone d'Oro, premio che funge da preludio all'enorme successo critico ricevuto in seguito, tale da lanciare definitivamente il suo autore nell'Olimpo del cinema autoriale mondiale.

Protagonista del film è lo stesso Kitano, il quale interpreta un ex poliziotto violento e indebitato con la yakuza distrutto dalla leucemia incurabile della moglie. Durante una visita all'ospedale un poliziotto viene ucciso durante un agguato, mentre l'altro suo collega Horibe resta paralizzato e viene abbandonato da moglie e figlia. A questo punto le vite dei due intraprendono due strade separate per poter affrontare le proprie sconfitte: Nishi (Beat Takeshi) compie una rapina per poter fare un'ultima vacanza con la moglie, risarcire la famiglia del poliziotto morto e donare tutto l'occorrente per dipingere a Horibe; quest'ultimo inizialmente tenta il suicido ma in seguito si dedica interamente all'arte.

All'apparenza il settimo lungometraggio del regista di Sonatine (1993) potrebbe rientrare all'interno del genere yakuza movie, lo stesso con cui aveva esordito il suo autore, eppure risulta fin troppo chiaro quanto le regole del genere gli stiano strette, quanto esse siano soltanto un tassello di un mosaico ben più complesso. Da un punto di vista squisitamente narrativo non mancano richiami ai topoi dell'action giapponese, come gli scontri tra forze dell'ordine e malavita, l'ambiente urbano o la violenza grafica per niente edulcorata ma ognuno di essi viene stravolto e accostato a elementi in grande contrasto, tra cui spiccano le lunghe digressioni intimiste, i giochi tra il protagonista e sua moglie e la passione per la pittura sviluppata dal poliziotto paralizzato. Il fulcro dell'intera vicenda narrata diventa insomma non l'azione, come dovrebbe essere in un vero yakuza movie, bensì la ricerca di riscatto nei confronti della depressione, addirittura della morte. I due personaggi principali si trovano entrambi nel punto più misero e oscuro della propria vita, durante il quale anelano una liberatoria cessazione della vita poiché non può definirsi tale un'esistenza in cui si viene privati dell'unico elemento di distinguo tra gli esseri umani e le bestie (simboleggiate dagli anonimi e stupidi sgherri della malavita), ovvero l'amore. La risposta alla depressione in cui cadono i due non si rivela essere la stessa e a differenza di molti altri Kitano non privilegia nessuna delle due, anzi le rende entrambe romantiche e condivisibili allo stesso modo attraverso la poesia delle immagini.

Eccoci dunque all'aspetto che innalza a livelli assoluti la pellicola in analisi, ossia quello visivo. Mai come in questa occasione la macchina da presa del cineasta giapponese evita il più possibile movimenti esasperati preferendo dei long take fissi, rigidi e stretti nella morsa di quel male oscuro che pervade i personaggi inquadrati. All'immobilità della mdp risponde un montaggio estremamente prezioso, il cui alternare le vicende di Nishi a quelle di Horibe crea dei forti legami tra le emozioni dei due uomini, così come l'alternanza tra paesaggi reali e dipinti offre non solo delle suggestioni visive di fascino indiscusso (si pensi agli alberi di ciliegio e al relativo quadro) ma anche un impatto emotivo puramente lirico, come dimostrano le numerosi inquadrature del mare.
A rendere maggiormente incisivo il carattere poetico del lavoro del regista sono le strepitose musiche di Joe Hisaishi, vere e proprie trasposizioni in note delle suggestioni visive, e l'interpretazione proprio del director, il quale rende palese la natura fortemente autobiografica del lungometraggio attraverso i suoi silenzi, i gesti, i piccoli momenti di intimità emotiva con la consorte. Persino la fissità nel volto dell'artista, che diventa una vera e propria maschera, non solo rispecchia quel mistero del cinema che si fa vita (parte della faccia di Beat Takeshi è rimasta immobilizzata in seguito a un grave incidente, lo stesso che lo ha portato a un lungo periodo di depressione dal quale è uscito soltanto grazie alla pittura) ma risulta quanto mai consona a un uomo che ormai sa di essere arrivato all'ultimo gradino del proprio percorso.

In conclusione Hana-bi potrebbe risultare per alcuni di voi una visione non così semplice visti si suoi ritmi e l'ampio utilizzo di figure retoriche molto sottili, eppure trovo che difficilmente riuscirete a non emozionarvi di fronte a tanta bellezza e tanta vita reale in un'unica poesia multimediale.

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