lunedì 17 agosto 2020

IL FANTASMA DEL PALCOSCENICO: ISTITUZIONALIZZAZIONE E MORTE DI UN SOGNO D'AMORE

 Quando si parla di New Hollywood o dei fenomenali anni Settanta per il cinema americano uno dei primi nomi a cui si pensa è senza dubbio quello di Brian De Palma. Dopo i primi lungometraggi di matrice godardiana il cineasta di Newark raggiunge la fama mondiale proprio in questo decennio, in special misura tramite pellicole sospese tra il thriller e l'horror come Le due sorelle (Sisters, 1973) e Carrie - Lo sguardo di Satana (Carrie, 1976). In mezzo a questi successi, che lo trasporteranno nel centro della rinascente Hollywood, il regista americano filma anche una delle sue opere più singolari e incomprese dai contemporanei: Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise, 1974). Pur potendo contare su un budget notevole, messogli a disposizione da una major come 20th Century Fox, e fattori di richiamo come la presenza, nella doppia veste di attore-compositore di Paul Williams, il film si rivela un fiasco al botteghino, deriso anche da buona parte della critica. Il mix di generi ideato da De Palma finisce nell'occhio del ciclone dei giudizi, inaugurando l'altalenante rapporto tra i lavori scritti e diretti dal regista e il pubblico.


Il lungometraggio, chiaramente ispirato a classici letterari e teatrali (nonché alle rispettive trasposizioni cinematografiche) quali Il ritratto di Dorian Gray o Il fantasma dell'opera, segue la parabola discendente del geniale cantautore Winslow Leach (Willian Finley), autore di una magnifica opera pop ispirata al Faust goethiano che viene derubata dal potente produttore Swan (Paul Williams) con l'inganno. Nonostante i tentativi del protagonista di contattare quest'ultimo, l'impresario non solo rifiuta ogni contratto con l'autore delle musiche, bensì se ne libera facendolo condannare per possesso di stupefacenti. In carcere Winslow viene sottoposto a un programma odontoiatrico finanziato dallo stesso Swan che lo priva dei denti, sostituiti da una protesi metallica, mentre la sua opera viene completamente trasformata per inaugurare il Paradiso, locale del perfido produttore. Superando la debolezza finora messa in mostra, lo sfortunato musicista riesce a evadere dal penitenziario e a distruggere i nastri con le registrazioni dei suoi pezzi, eseguiti da una band surf rock di basso livello al posto di Phoenix (Jessica Harper), ragazza conosciuta da Winslow durante le audizioni per lo spettacolo che aveva dimostrato grande talento canoro, tanto da conquistare il cuore del giovane. Durante l'evasione il protagonista rimane gravemente sfigurato e dato per morto dalla polizia ma, nel corso delle prove per Faust, si presenta al Paradiso, dove, con un eccentrico costume, fa esplodere una bomba. L'evento convince Swan a incontrare il compositore per dare vita a un sodalizio artistico, ufficializzato da un sinistro contratto firmato con il sangue dai due. 


Fin dal prologo, con la voce fuori campo di Rod Serling e la successiva esibizione Juicy Fruits, Il fantasma del palcoscenico mette subito in chiaro la propria multiforme natura, sempre in bilico tra diversi generi ma perlopiù divisa tra il musical e l'orrore, con una certa dose di humour nero. Scavalcando costantemente i confini tra un genere e l'altro, De Palma realizza una pellicola in cui anche le barriere tra fiction e reale si assottigliano: un meccanismo a scatole cinesi in cui l'operetta composta dal protagonista non solo cita uno dei più celebri lavori teatrali di sempre (sia nella versione di Marlowe che in quella di Goethe), ma finisce per rappresentare in maniera estremamente fedele il triangolo di Eros e Thanatos che si instaura con Phoenix e Swan, con tanto di patti demoniaci firmati con il proprio plasma. Un sottile intreccio che sembra anticipare tutti gli stilemi della narrativa per immagini postmoderna, con la sua tipica tendenza a utilizzare la citazione come strumento ludico, la confusione tra i generi classici e la natura evidentemente metatestuale del racconto.

All'interno di questo lungometraggio intriso di postmodernità ante-litteram, il regista di Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) mette in scena una tribolata love story che viaggia su due binari, prima paralleli ma destinati a incrociarsi. Il secondo riguarda il sentimento che lega Winslow alla cantante che gli ruba il cuore fin dal primo incontro, come da tradizione del musical classico americano, ma il primo, quello ancor più centrale per la narrazione e che influenza anche quello appena descritto, percorre le vie del più alto e sacro amore per l'arte e la musica in particolare. Il protagonista si mostra immediatamente come il perfetto esempio di artista romantico, tutto dedito alle proprie creazioni e ignaro delle trappole che gli riserva la socialità meschina della società umana, rappresentata in pieno dall'egoismo senza freni di Swan. Un simbolo della perdizione, della ricerca del successo personale a discapito della morale e, più nello specifico, delle brutture a cui l'arte viene costretta dagli interessi dell'economia di mercato. Attraverso una rielaborazione del secolare mito faustiano e delle istanze romantiche inaugurate proprio da Goethe con I dolori del giovane Werther, De Palma allestisce una tragica e sagace critica al mondo dell'industria dell'intrattenimento, capace di trasformare in freddo e spietato profitto qualsiasi forma di bellezza, persino quella più pura o indomabile. La scelta di ricorrere per questa parabola a un'opera rock sottolinea proprio la volontà di denunciare la deriva subita da quella musica che, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, aveva guidato la voce della ribellione giovanile verso i rigidi schemi etico e sociali delle generazioni precedenti. Tramite l'appropriazioni indebita da parte di Swan della perfetta sintesi tra classicismo e gusto contemporaneo creata da Winslow, l'autore rappresenta, dunque, la fine del sogno di libertà costituito dalla controcultura, proprio come aveva fatto, seppur con simboli e mezzi estetici ben diversi, Wes Craven con L'ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, 1972).


Per mettere in mostra un tale apologo sulla sacralità dell'arte e dell'amore rispetto ai meschini interessi economici della società borghese, De Palma sfodera una poderosa sintesi tra il suo cinema degli esordi e quello stile più sofisticato ed estetizzante degli anni successivi. Alle isteriche riprese con camera a mano durante l'evasione di Winslow, il regista abbina alcuni di quelli che diventeranno veri e propri marchi di fabbrica della forma dei suoi lavori più maturi, a cominciare dalle celeberrime citazioni hitchcockiane. Nel tentativo di impedirgli di cantare al posto di Phoenix, il protagonista sorprende il ruvido cantante Beef mentre si trova sotto la doccia in una sequenza che agisce come allucinata parodia dell'omicidio di Marion in Psyco (Psycho, Alfred Hitchcock, 1960), tanto da utilizzare persino le medesime angolazioni per le inquadrature ma con uno sturalavandini al posto del coltello. Ancor più depalmiane risultano però le due lunghe sequenze in split-screen, strumento preferito dal regista per ottenere un potente effetto di suspense, e le soggettive reiterate di protagonista e antagonista, che sembrano sottolineare i punti di contatto tra due figure caratterialmente agli antipodi ma accomunati dalla maledizione costituita dalla passione per l'arte e la bellezza.


Pur avendo raggiunto in tempi recenti lo status di cult movie, Il fantasma del palcoscenico risulta ancora una pellicola ben distante dalla popolarità di Scarface (Brian De Palma, 1983) o Gli intoccabili (The Untouchables, Brian De Palma, 1987), per questo vi invito a riscoprire una perla all'interno della sempre interessante filmografia di un maestro, finito purtroppo ai margini dell'industria hollywoodiana (si veda il caso Domino, diretto dallo stesso nel 2019).

domenica 2 agosto 2020

BURNING - L'AMORE BRUCIA: L'INEFFABILE REALTÀ CONTEMPORANEA

Pur non essendo il prototipo della prolificità artistica, Lee Chang-dong rappresenta indubbiamente uno dei registi più apprezzati all'interno del vivace panorama cinematografico coreano, tanto da aver trovato un buon numero di appassionati anche in Occidente. Dopo ben otto anni dall'osannato Poetry (2010) presenta in concorso al Festival di Cannes Burning (2018), lungometraggio liberamente tratto da una storia breve del romanziere giapponese Haruki Murakami. Pur senza portare a casa alcun premio dalla rassegna francese il film ottiene il plauso unanime da parte della critica, finendo persino in numerose classifiche dei migliori film dell'anno o del decennio. Con circa un anno di ritardo l'opera arriva anche in Italia, confermando un costante incremento dell'interesse del nostro paese nei confronti di realtà filmiche lontane da Hollywood.

La pellicola segue il fortuito incontro che riporta nella vita di Jong-uu (Yoo Ah-in), neolaureato con ambizioni da scrittore, la coetanea Hae-mi (Jeon Jong-seo), sua amica d'infanzia. I due vivono una breve frequentazione, che culmina in un rapporto sessuale il giorno immediatamente precedente alla partenza della ragazza per l'Africa. Il protagonista accetta di badare al gatto dell'amica durante la sua assenza e, proprio mentre si trova nel suo appartamento, riceve una telefonata da Hae-mi, che gli chiede di venirla a prendere in aeroporto. Ad attendere il giovane, però, si trova un'ulteriore persona, Ben (Steven Yeun). I tre finiscono per uscire insieme in varie occasioni, nonostante l'evidente gelosia di Jong-su, fino a quando, mentre il terzetto fuma dell'erba a casa del protagonista, il misterioso Ben non confessa di incendiare ogni due mesi delle serre abbandonate. Questo insolito e pericoloso hobby lascia turbato lo scrittore alle prime armi, in special misura dal momento in cui Hae-mi sparisce senza lasciare alcuna traccia di sé.

Analizzando la sola superficie dell'opera, Burning potrebbe essere considerato la prima incursione nel cinema di genere da parte di Lee Chang-dong, dato che la sparizione del personaggio interpretato, con sorprendente sensibilità dall'esordiente Jeon Jong-seo, segna la comparsa di elementi da giallo all'interno del racconto. In fondo l'industria coreana è famosa in tutto il mondo proprio per l'alto livello professionale e artistico delle proprie produzioni di genere, da cui sono spesso transitati autori affermatisi nei più prestigiosi festival e dunque non costituirebbe una grossa sorpresa vedere anche il regista di Secret Sunshine sperimentare con questo tipo di narrazione. Una visione maggiormente accorta rivela però come, in realtà, gli inserti da mystery thriller che caratterizzano soprattutto la seconda metà del film svolgano un ruolo ben più coerente con la poetica del cineasta asiatico e con le tematiche sottese all'opera in questione. Adattando a un contesto più radicato nella cultura e nella storia, anche politica, della Corea del Sud la lezione dell'Antonioni di Blow-Up (1966), il director di Taegu utilizza una decostruzione del whodunit per mettere in luce l'impossibilità per l'uomo di comprendere a pieno la condizione contemporanea, specie attraverso i soli strumenti della razionalità. Proprio come il fotografo dal volto di David Hemmings, Jong-su si trova suo malgrado circondato da eventi misteriosi e apparentemente inconciliabili tra loro, a cominciare dalla presunta esistenza del gatto Boil fino ai numerosi indizi che collegano Ben alla scomparsa di Hae-mi. Tutto ciò che coinvolge quest'ultima sembra avvolto da una fitta coltre di possibili menzogne (si pensi alla storia del pozzo), mentre l'altro vertice del triangolo amoroso viene, non a caso, definito un "Gatsby coreano" per il connubio di ricchezza e mistero di cui si ammanta. Una comparazione che, oltre a giocare sulle influenze letterarie presenti nella pellicola e nella storia originale di Murakami, conferma ulteriormente la volontà del regista di mettere in scena una realtà inafferrabile, fantasmatica, in cui, come nel romanzo di Fitzgerald e nel capolavoro di Antonioni, un giovane protagonista lotta con tutte le forze per riuscire a scovarne un senso ultimo, finendo per fallire miseramente.
La cinepresa di Lee Chang-dong accentua proprio l'incapacità di Jong-su di capire cosa realmente accada attorno a sé attraverso sinuosi long take in cui i personaggi risultano essere sempre troppo distanti gli uni dagli altri per potersi toccare, per poter percepire l'essenza del prossimo. Le opprimenti architetture di Seul enfatizzano la perdita di coordinate ben definite da parte dei personaggi, così come l'apparente calma bucolica della casa in campagna del protagonista si rivela un'ennesima gabbia, legata in questo caso al turbolento rapporto dello stesso con i genitori. In questo quadro così disumanizzante l'unica, vera traccia di ritorno a una vita degna di tale nome sembra essere riservato a un unico momento: la dionisiaca danza, ripresa attraverso uno struggente piano sequenza, di Hae-mi davanti al tramonto, sulle note di Miles Davis. Un episodio di pura, sensuale evasione dalle maglie della civilizzazione che verrà punita con la scomparsa della ragazza, forse arsa da Ben o forse semplicemente evaporata come il protagonista di Blow-Up.

Con un'eleganza formale a cui raramente si assiste sui nostri schermi, Burning mette in scena le idiosincrasie su cui si fonda interamente la realtà che circonda l'uomo contemporaneo, focalizzando per di più questa indagine sul microcosmo della gioventù in un paese ricco di contraddizioni come la Corea del Sud.