lunedì 22 gennaio 2024

SILENT NIGHT: JOHN WOO SI RIMETTE IN GIOCO NEGLI USA

Dopo i risultati tutt'altro che apprezzabili ottenuti da Paycheck (2003) e l'esito opposto di produzioni asiatiche come La battaglia dei tre regni (Red Cliff, 2008), sembrava impossibile che John Woo tornasse a lavorare negli Stati Uniti, eppure il 2023 si è concluso con questo insperato miracolo. Le festività natalizie da poco concluse hanno visto la distribuzione di Silent Night, un action a basso costo diretto proprio dalla leggenda di Hong Kong a distanza di venti anni dalla sopracitata pellicola con Ben Affleck. Non potendo contare su una campagna di marketing massiccia come quella di un blockbuster o su un divo in grado di catturare l'interesse del pubblico generalista, il film ha ottenuto incassi modesti, seppur sicuramente tali da portare dei profitti alla casa di produzione, mentre la critica concorda in gran parte nel definirlo un episodio minore all'interno della filmografia di Woo.


Protagonista del lungometraggio è Brian (Joel Kinnaman), elettricista la cui vita viene distrutta quando nel corso di uno scontro a fuoco tra gang criminali un proiettile vagante colpisce a morte il figlio. Nel tentativo di inseguire gli assassini l'uomo viene colpito alla gola, perdendo per sempre la capacità di parlare. Nonostante le cure amorevoli di sua moglie Saya (Catalina Sandino Moreno), Brian non riesce a superare il lutto e dopo un periodo passato chiuso in se stesso trova un unico scopo per il quale continuare a vivere: la vendetta.


A circa 77 anni, con una carriera lunghissima alle spalle e alcuni stilemi ben definiti nell'immaginario collettivo, già solamente l'idea di vedere Woo cimentarsi nuovamente con gli States e addirittura in un contesto indipendente è sintomo di una vitalità artistica da giovane promessa, ma addirittura rinnovare il proprio registro espressivo da parte del cineasta asiatico costituisce una sorpresa persino per il suo estimatore più ottimista. Silent Night, infatti, dimostra fin da subito, complice sicuramente anche il budget piuttosto contenuto, un modus operandi dedito alla sottrazione ben distante dal gusto barocco, sia nell'azione che nella resa delle emozioni, a cui avevano abituato opere come A Better Tomorrow (1986) e sequel (A Better Tomorrow II, 1987). Non solo, grazie anche all'espediente della condizione fisica del protagonista, i dialoghi vengono quasi completamente eliminati ma anche tutti i topoi del cinema del regista vengono ridotti all'osso: i machiavellici e infidi villain diventano ombre di un mondo sempre più disumanizzato rispetto ai valori cavallereschi degli eroi dal volto di Chow Yun-Fat o Tony Leung, la bromance tra Brian e il detective interpretato da Kid Cudi viene solamente accennata e vive di soli sguardi complici. Persino l'heroic bloodshed, punto focale di tutta la poetica di Woo, dove i proiettili danzano in una frenesia spesso cristallizzata dal ricorso al ralenti per permettere all'eroe di riaffermare la preminenza dell'amore e dell'onore sul cinismo egoistico dei villain, trova la sua compiutezza in poche ed essenziali sequenze, dove la magniloquenza visiva cede il passo a uno stile più contemporaneo, con abbondanti long take e mdp a mano, incollata sul corpo di Kinnaman, quasi come se fosse questi a prendere il posto dell'effluvio di pallottole.


L'attore svedese interpreta con grande efficacia la completa discesa negli inferi di un uomo qualunque, cambiando gender a quella figura dell'angelo sterminatore muto che nella tradizione del rape and revenge è solitamente resa al femminile, come in L'angelo della vendetta di Abel Ferrara (Ms. 45, 1981), dando vita a una sorta di sintesi con un altro genitore afflitto dall'indicibile dolore della perdita di un figlio quale Sean Archer di Face/Off (John Woo, 1997). Stavolta però, a differenza di quanto accadeva al personaggio che indossava i volti sia di John Travolta che di Nicolas Cage, non vi è nessuna possibilità di redenzione o ritorno a una vita normale dopo aver aperto il proprio cuore alla vendetta. Brian allontana persino la sua amata Saya, forse nel tentativo di tenerla lontana dalla violenza come accadeva in The Killer (John Woo, 1989), altro film in cui la mancanza di uno dei cinque sensi giocava un ruolo determinante, ma probabilmente anche per la consapevolezza da parte del protagonista di non poter riuscire nella propria impresa mantenendo le ultime residue tracce della sua esistenza da comune padre di famiglia. In tal senso il crepuscolare epilogo, che cita esplicitamente Carlito's Way (Brian de Palma, 1993), appare l'unico possibile e di notevole impatto emozionale, stavolta in tutto e per tutto da Woo, per il quale quasi mai gli eroi ricevono il meritato premio in questa vita.


Hanno ragione dunque, soprattutto oltreoceano, a definire Silent Night un capitolo minore della grande storia cinematografica dell'autore di Bullet in the Head (1990)? Forse lo è, nel confronto con i capolavori del passato e per alcuni difetti, come la sequenza d'apertura poco credibile e fin troppo debitrice di un certo cinema action attuale, ma una pellicola di questo genere capace al contempo di divertire, commuovere e far riflettere sulle infinite armi a disposizione del dispositivo cinema poteva girarla solamente un maestro come Woo e in un panorama così povero di idee e ricercatezza è un diamante (grezzo) di cui avevamo davvero bisogno.


venerdì 19 gennaio 2024

PERFECT DAYS: POESIA DEL QUOTIDIANO O ISOLAMENTO VOLONTARIO?

Un nome come quello di Wim Wenders non necessita presentazioni, mentre per chi, magari tra gli appassionati di cinema più giovani, basti il consiglio di recuperare anche solamente un'opera immortale come Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987). A distanza di circa sei anni dal suo ultimo lungometraggio, accolto peraltro tiepidamente da critica e pubblico, torna nel corso del 2023 alla ribalta con Perfect Days. Nato come progetto documentaristico commissionato per ritrarre il mondo dei bagni pubblici giapponesi, il cineasta tedesco decide invece di passare alla fiction, con risultati eccezionali, dato che la pellicola viene acclamata universalmente prima al Festival di Cannes e successivamente in tutti i paesi in cui viene distribuita, tanto da essere una seria candidata per la vittoria della statuetta per la miglior produzione internazionale agli Academy Awards di quest'anno.

Il film ritrae la vita piuttosto semplice e abitudinaria di Hirayama (Koji Yakusho), uomo di mezz'età che si occupa delle pulizie delle toilette pubbliche della città di Tokyo. Dopo alcuni giorni in cui la propria routine viene presentata e ripetuta senza alcuna variazione, alcuni incontri, in particolare quello con la nipotina, la incrineranno parzialmente, approfondendo anche carattere e origini del personaggio.


Pur essendo girato nel 2023 è evidente, fin dalla prima sequenza, come Perfect Days risieda in uno spazio che vive a cavallo tra le dimensioni temporali. Esattamente come Hirayama, che ascolta solamente musicassette di artisti anni Settanta e non ha la minima idea di cosa sia Spotify, il film è ambientato nel presente e viene girato in digitale ma con una forma ben più vicina al mondo dell'analogico e di quel cinema moderno di cui Wenders è stato tra i maggiori esponenti teutonici. Il formato quadrangolare riporta alla mente, oltre agli esperimenti recenti di autori come David Lowery e Zack Snyder, il cinema delle origini, in particolare le vedute dei Lumière, che proprio come la macchina da presa di Wenders catturavano passaggi della quotidianità di persone comuni, senza le spettacolarizzazioni tipiche invece del classicismo americano. L'afflato estatico e contemplativo invece, insieme ovviamente all'ambientazione nipponica, evidenziano un riferimento alla filmografia di Ozu che è sempre stata presente nell'immaginario dell'autore di Paris, Texas (1984), al quale lo avvicina però anche una delle riflessioni più interessanti che la pellicola esplora nel corso della sua seconda metà.
Se inizialmente, persino quando lo scapestrato quanto ingenuo collega ne incrina la perfetta routine, il protagonista sembra vivere un'esistenza pienamente realizzata nella sua semplicità, quasi bucolica, rispetto a quella a cui abitua la società contemporanea, una serie di dettagli sempre più macroscopici (dal sentimento per la proprietaria di un ristorante all'incontro con la sorella) svelano una realtà emotiva ben più complessa, che mette in forte dubbio l'idea di un elogio quasi in stile Metastasio della vita lontana dal frastuono e dalla frenesia post-capitalista con cui molti critici lo hanno superficialmente definito. Girato con uno stile evidentemente più vicino alla poesia rispetto alla prosa, il film si rivela nel corso del minutaggio molto più ambiguo di quanto possa sembrare nelle prime sequenze, esattamente come lo è la vita reale di tutti noi, in special modo di chi, come Hirayama, sente di non riuscire ad aderire al mondo della maggioranza, come spiega in uno dei rarissimi momenti di loquacità alla nipote adolescente quando quest'ultima gli chiede come mai avesse smesso di avere rapporti con la madre.
La scena finale è in tal senso emblematica e riassume con una forza espressiva più unica che rara proprio il dilemma insito in ogni uomo e in questo caso su quanto ci sia di volontario e realmente felice nella scelta del protagonista.


Perfect Days è in definitiva un'opera di straordinaria dimostrazione delle possibilità di cui dispone il cinema per indagare l'uomo contemporaneo, che ci ricorda quanto presente e passato possano convivere nell'arte quando si trova tra le mani e lo sguardo di un grande autore. Nel caso qualcuno avesse dei dubbi, Wenders è davvero tornato alle vette liriche degli angeli silenziosi che vegliavano sull'umanità allo sbando della Berlino anni Ottanta.