mercoledì 20 novembre 2019

STORIA DI UN FANTASMA: UN GRANELLO TRA LE SABBIE DEL TEMPO CHIAMATO UOMO

Trovare all'interno del panorama americano contemporaneo un regista, sotto i quarant'anni, capace compiere il grande salto dall'indipendenza alla Disney per poi tornare nuovamente a lavorare con budget ridotti e grande libertà creativa è una vera impresa, eppure un nome c'è: David Lowery. Il magnifico Senza santi in paradiso (Ain't Them Bodies Saints) gli aveva aperto, nel 2013, le porte di quella che è attualmente la più grande major al mondo ma, nonostante ciò, nel 2017 è tornato a un cinema di dimensioni produttive ridotte con Storia di un fantasma (A Ghost Story). Pur senza, ovviamente, gli introiti milionari da blockbuster la pellicola si è rivelata un ottimo successo economico, specie a dispetto del basso budget, ma soprattutto un nuovo trionfo a livello critico, persino in Italia dove la distribuzione ha per l'ennesima volta ignorato o quasi un'eccellente opera firmata Lowery e A24.

Il lungometraggio segue la vita di coppia, costellata da momenti di tipica quotidianità, di un uomo (Casey Affleck) e di una donna (Rooney Mara), dei quali vengono rivelati solamente le lettere C ed M all'interno dei credits. La loro normale convivenza fatta di attimi di tenerezza e passione per la musica viene bruscamente interrotta da un incidente in auto, nel quale C perde la vita. Mentre la compagna si trova a dover convivere con un lutto tanto inatteso, l'uomo incredibilmente si ripresenta sotto forma di fantasma, coperto da un lenzuolo bianco con due fori per gli occhi. Incapaci di proferire parola o di essere visto dagli umani, lo spettro torna a casa.

Dopo secoli di letteratura e cinema gotico ognuno di noi associa immediatamente l'idea di spettro all'horror, alla paura ma in questo Storia di un fantasma non vi è alcuna traccia di orrore. Vi sono elementi tipicamente gotici e la paura è un tema tutt'altro che secondario ma stavolta non ci troviamo nel campo dei vari The Conjuring (James Wan, 2013) o The Grudge (Takashi Shimizu, 2006). Per il film in analisi Lowery utilizza la figura del fantasma, dotandola addirittura di quell'aspetto ai limiti del ridicolo che di solito i bambini gli attribuiscono, e alcuni topoi del genere gotico (il legame tra il soprannaturale e l'ambiente domestico, i rumori notturni ecc.) per raccontare una storia, ben definita in tre atti, estremamente umana: un legame amoroso che si spezza a causa della morte e le conseguenze del lutto. Lo scheletro narrativo della pellicola segue i canonici tre segmenti in cui una situazione di equilibrio iniziale viene infranto da un evento inatteso e solamente dopo una serie di disavventure il protagonista riesce a riassestare l'instabilità creatasi. Un percorso classico dunque che, proprio avendo nel ruolo di eroe un defunto, potrebbe richiamare il campione d'incassi Ghost (Jerry Zucker, 1990) ma che trova una sua strada, assolutamente anticlassica, sia nello stile che nell'intreccio. A differenza dell'elegante ma, sostanzialmente, conservatore nella forma lungometraggio con Patrick Swayze, l'opera del cineasta di Milwaukee si distingue per un approccio stilistico dal rigore estremo, quasi completamente privo di movimenti di macchina e scandito da una serie di piani sequenza di notevole durata, tra i quali ne spicca, per minutaggio e straziante forza emotiva, quello in cui una M distrutta dal lutto cerca invano di mangiare un intero dolce da sola. Le lunghissime e statiche inquadrature assumono dunque i tratti quasi di una serie di fotografie o diapositive montate in sequenza. Un effetto reso ancor più efficace dalla scelta di girare il film in un insolito formato di 1.33:1 (simile ai 4:3 dei televisori a tubo catodico) che aumenta il senso di staticità delle immagini e sembra imprigionare letteralmente i personaggi all'interno del quadro. Figure umane (o ex umane) già ingabbiate nel corpo e nello spirito dalla nostalgia, dal lutto o da una condizione esistenziale che non permette loro di abbandonare un luogo in cui una volta erano state felici.

All'interno di questo assetto stilistico all'insegna della stasi e della dilatazione temporale proprio la dimensione cronologica, il tempo diventa, minuto dopo minuto, l'altro centro della riflessione operata dal director. Come viene a un certo punto espletato da un delirante monologo di uno dei partecipanti a una festa tenuta nella casa nella quale vivevano C e M, il lutto vissuto dalla coppia senza nome diventa un'occasione per riflettere, amaramente, su quanto gli uomini cerchino di superare la finitezza della vita mortale attraverso opere, azioni o composizioni che li rendano immortali, che lascino un segno della loro presenza nel futuro. Una volontà che accomuna il più umile degli esseri umani ai geni come Beethoven ma che, in tutti i casi, è destinata solamente al fallimento poiché ogni prodotto dell'ingegno umano, per quanto meraviglioso sia, è destinato inevitabilmente all'oblio, vicino o lontano nello spazio o nel tempo ma ineluttabile. In questo contesto filosofico anche il tempo diegetico subisce una inesorabile mutazione, perdendo ogni connotazione lineare e mostrando così come l'essenza di un fantasma risieda più che nell'assenza di vita nella mancanza di limiti spazio-temporali. Nell'avvicinamento a quell'oblio che la natura umana tenta disperatamente di rimandare.

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