sabato 2 novembre 2019

SUSPIRIA: L'ORRORE ESERCITATO DAL POTERE (AUTORITARIO)

Ogni volta che viene pronunciata la parola "remake" il cuore del cinefilo medio sussulta per il disgusto, dimenticando come la pratica di narrare nuovamente una storia già conosciuta sia insita nella natura stessa dell'uomo o anche semplicemente come il cinema abbia offerto, nel corso dei decenni, numerosi esempi di rifacimenti di elevata qualità (si pensi, per esempio, a quel The Thing diretto da John Carpenter del 1982). Nonostante questa remora culturale contemporanea di una consistente fetta di pubblico Luca Guadagnino, esperto nell'arte di dividere spettatori e critici, porta sugli schermi, nel 2018, il secondo remake della sua carriera: dopo A Bigger Splash (2015), riproposizione personale de La piscina (La Piscine, Jacques Deray), dirige Suspiria, ispirato all'omonimo capolavoro di Dario Argento risalente al 1977. Quasi superfluo sottolineare come la reazione alla pellicola sia divisa quasi equamente tra ammiratori e detrattori, nonostante alcuni premi ricevuti e una discreta performance al box office per una distribuzione molto limitata, dovuta alla produzione made in Amazon Prime.

Ambientato nel pieno dell'autunno caldo vissuto da Berlino nel 1977, il film, diviso in sei atti con epilogo, segue l'arrivo in città di Susie (Dakota Johnson), giovane proveniente dall'Ohio che intende entrare nella compagnia di danza guidata da Madame Blanc (Tilda Swinton). Grazie alla misteriosa scomparsa di una delle ballerina, Patricia (Chloë Grace Moretz), la ragazza riesce ad avere un posto nella compagnia ma diventa sempre più evidente la presenza di qualcosa di sordido all'interno della stessa.

Basterebbe anche una superficiale conoscenza delle filmografie di Guadagnino e Argento per capire quanto distanti siano i rispettivi percorsi cinematografici e, di conseguenza, capire perché i due Suspiria siano così distanti l'uno dall'altro, escludendo ovviamente gli elementi più basilari dell'intreccio come l'arrivo in Germania della giovane protagonista americana, la scuola di danza e il mito delle Tre madri. Da autore profondamente conscio del proprio percorso artistico ma anche della grandezza dell'opera di riferimento, il regista siciliano modifica quanto più possibile il lavoro del collega romano per adattarlo al proprio stile e ai temi a lui cari e così, fin dai titoli di testa e dalla prima sequenza ecco che il gusto per i colori antinaturalistici e violentemente accesi di Argento cedono il passo a una tavolozza completamente priva di colori primari, così come la non riconoscibilissima Friburgo viene sostituita da una Berlino totalmente immersa nel periodo storico scelto e che diventa co-protagonista. Se il director di Inferno (1980) aveva immerso la propria opera in un'atmosfera e una narrazione di stampo fiabesco e in cui, di conseguenza, i riferimenti all'attualità divenivano tracce che venivano solamente suggerite, l'autore di Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name, 2017) esplicita tutti quei sottotesti eliminando del tutto la componente appena menzionata e creando, invece, un duplice percorso, strettamente intrecciato, tra la storia socio-politica della attuale capitale tedesca nel 1977 e la trama fantastica legata alla scuola di danza creata dalle streghe.
Pur nella ricchezza di suggestioni culturali, filosofiche e morali (dalla maternità fino a una tutt'altro che superficiale riflessione metacinematografica) la rilettura di Guadagnino del classico del cinema horror nostrano affonda continuamente i denti in una precisa direzione, ossia quella dell'esplorazione del tema del potere e in particolare delle conseguenze del suo uso autoritario. La scelta di ambientare il racconto in un momento storico di grande subbuglio sociale e politico, di enorme divisione non solo tra le due metà della città ma, soprattutto, tra la generazione dei genitori, colpevoli di aver assecondato gli orrori del nazismo, e i figli marchiati a fuoco da questa genealogia, da questo peccato originale, è soltanto una delle innumerevoli prove che sostengono la lettura della pellicola attraverso questo filtro. Proprio come era accaduto negli anni Trenta con l'ascesa di Hitler, anche all'interno della congrega di streghe che domina il Markos Tanzgruppe vi è una lotta intestina tra due fazioni dalla quale, approfittando del caos generato da un evidente vuoto di potere, esce vincitrice una leader legittimata unicamente dalla violenza e dal sangue e che utilizza i medesimi metodi per governare nel proprio microambiente. Allo stesso modo anche nella Repubblica Federale di Germania i disordini causati dalla ribellione giovanile e a Berlino dalla innaturale e sofferta ripartizione, simboleggiata da quel muro che non a caso si trova proprio nei pressi della scuola di danza, portano a un inasprimento della repressione da parte delle forze dell'ordine dei diritti civili alla libera espressione di dissenso della popolazione. Un'ulteriore manifestazione di abusi da parte della classe dirigente al potere all'insegna della violenza che rendono limpida la connessione con quanto accade nella congrega esoterica.
Attraverso questo tipo di lettura trovano un senso pienamente compiuto altre due scelte divergenti rispetto al film originale: l'importanza rivestita dalla danza e l'epilogo. Nella versione del 1977 la coreutica e l'ambiente della compagnia di danza restavano quasi sempre sullo sfondo, offrendo certamente degli spunti estetici o tematici ma senza mai conquistare la scena. Guadagnino, al contrario, dona ai movimenti dei corpi, alle coreografie espressioniste e allo statuto stesso della compagnia di artisti un rilievo centrale, rendendo la coreutica lo strumento attraverso cui le streghe danno forma ai propri incantesimi. Attraverso questo espediente il regista palermitano riesce non solo a dare vita a sequenze di grandissima potenza estetica e orrorifica, come ad esempio quella in cui Susie tortura involontariamente una sua collega semplicemente danzando, bensì sottolinea la corrispondenza tra le streghe e le vittime di persecuzioni politiche di ogni epoca, tra quelle donne che per secoli sono state arse vive da una società violentemente maschilista e i diversi che, in ogni dove e in ogni quando, rischiano la vita solamente per l'incapacità o la non-volontà di allinearsi alle direttive di autorità sanguinarie e dittatoriali. In linea con questa associazione sia estetica che di pensiero si trovano così sia il grandguignolesco pre-finale, in cui il sabba delle streghe si confonde con un numero di danza e finalmente l'usurpatrice del potere viene punita dalla legittima detentrice, che l'epilogo vero e proprio, nel quale Mater Suspiriorum dimostra che l'esercizio del dominio può e deve avvenire in primo luogo attraverso l'amore e la compassione. I due sentimenti che vincono lo spazio e il tempo nell'ultima inquadratura, in tutto il cinema di Guadagnino e forse anche nella vita reale.

P.s. Per coloro che possono pensare a una incapacità del regista di A Bigger Splash di creare momenti di genuino orrore non posso che consigliare la visione della sopracitata sequenza del sabba: un magistrale omaggio all'indimenticabile rosso dell'originale Suspiria unito alla tipica cura per la composizione delle inquadrature di Guadagnino e persino alle derive gore e surreali al tempo stesso di una figura di spicco dell'horror contemporaneo quale Rob Zombie, regista non a caso di un'altra pellicola di fusione tra musica e stregoneria (Le streghe di Salem, The Lords of Salem, 2012).

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