venerdì 19 gennaio 2024

PERFECT DAYS: POESIA DEL QUOTIDIANO O ISOLAMENTO VOLONTARIO?

Un nome come quello di Wim Wenders non necessita presentazioni, mentre per chi, magari tra gli appassionati di cinema più giovani, basti il consiglio di recuperare anche solamente un'opera immortale come Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987). A distanza di circa sei anni dal suo ultimo lungometraggio, accolto peraltro tiepidamente da critica e pubblico, torna nel corso del 2023 alla ribalta con Perfect Days. Nato come progetto documentaristico commissionato per ritrarre il mondo dei bagni pubblici giapponesi, il cineasta tedesco decide invece di passare alla fiction, con risultati eccezionali, dato che la pellicola viene acclamata universalmente prima al Festival di Cannes e successivamente in tutti i paesi in cui viene distribuita, tanto da essere una seria candidata per la vittoria della statuetta per la miglior produzione internazionale agli Academy Awards di quest'anno.

Il film ritrae la vita piuttosto semplice e abitudinaria di Hirayama (Koji Yakusho), uomo di mezz'età che si occupa delle pulizie delle toilette pubbliche della città di Tokyo. Dopo alcuni giorni in cui la propria routine viene presentata e ripetuta senza alcuna variazione, alcuni incontri, in particolare quello con la nipotina, la incrineranno parzialmente, approfondendo anche carattere e origini del personaggio.


Pur essendo girato nel 2023 è evidente, fin dalla prima sequenza, come Perfect Days risieda in uno spazio che vive a cavallo tra le dimensioni temporali. Esattamente come Hirayama, che ascolta solamente musicassette di artisti anni Settanta e non ha la minima idea di cosa sia Spotify, il film è ambientato nel presente e viene girato in digitale ma con una forma ben più vicina al mondo dell'analogico e di quel cinema moderno di cui Wenders è stato tra i maggiori esponenti teutonici. Il formato quadrangolare riporta alla mente, oltre agli esperimenti recenti di autori come David Lowery e Zack Snyder, il cinema delle origini, in particolare le vedute dei Lumière, che proprio come la macchina da presa di Wenders catturavano passaggi della quotidianità di persone comuni, senza le spettacolarizzazioni tipiche invece del classicismo americano. L'afflato estatico e contemplativo invece, insieme ovviamente all'ambientazione nipponica, evidenziano un riferimento alla filmografia di Ozu che è sempre stata presente nell'immaginario dell'autore di Paris, Texas (1984), al quale lo avvicina però anche una delle riflessioni più interessanti che la pellicola esplora nel corso della sua seconda metà.
Se inizialmente, persino quando lo scapestrato quanto ingenuo collega ne incrina la perfetta routine, il protagonista sembra vivere un'esistenza pienamente realizzata nella sua semplicità, quasi bucolica, rispetto a quella a cui abitua la società contemporanea, una serie di dettagli sempre più macroscopici (dal sentimento per la proprietaria di un ristorante all'incontro con la sorella) svelano una realtà emotiva ben più complessa, che mette in forte dubbio l'idea di un elogio quasi in stile Metastasio della vita lontana dal frastuono e dalla frenesia post-capitalista con cui molti critici lo hanno superficialmente definito. Girato con uno stile evidentemente più vicino alla poesia rispetto alla prosa, il film si rivela nel corso del minutaggio molto più ambiguo di quanto possa sembrare nelle prime sequenze, esattamente come lo è la vita reale di tutti noi, in special modo di chi, come Hirayama, sente di non riuscire ad aderire al mondo della maggioranza, come spiega in uno dei rarissimi momenti di loquacità alla nipote adolescente quando quest'ultima gli chiede come mai avesse smesso di avere rapporti con la madre.
La scena finale è in tal senso emblematica e riassume con una forza espressiva più unica che rara proprio il dilemma insito in ogni uomo e in questo caso su quanto ci sia di volontario e realmente felice nella scelta del protagonista.


Perfect Days è in definitiva un'opera di straordinaria dimostrazione delle possibilità di cui dispone il cinema per indagare l'uomo contemporaneo, che ci ricorda quanto presente e passato possano convivere nell'arte quando si trova tra le mani e lo sguardo di un grande autore. Nel caso qualcuno avesse dei dubbi, Wenders è davvero tornato alle vette liriche degli angeli silenziosi che vegliavano sull'umanità allo sbando della Berlino anni Ottanta.

2 commenti:

  1. Più semplice è lo script e maggiore può essere l'impatto con lo spettatore, questo vale anche per registi monumentali ma fuori dai soliti contesti Hollywoodiani.

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    1. Assolutamente, soprattutto quando si dirige un'opera estranea ai meccanismi di genere e in questo caso il soggetto è proprio agli antipodi della spettacolarizzazione americana

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