Riprendendo le fila dell'epilogo del prequel, la pellicola mostra Bond felicemente impegnato con Madeleine (Lèa Seydoux), libero dalle missioni per il governo e alle prese con una vacanza in Italia, con la quale intende anche mettere un punto al proprio passato. Purtroppo per la coppia la SPECTRE torna ad attentare alla sua vita, alimentando i sospetti dell'uomo nei confronti della compagna, che decide di lasciare con una certa brutalità. Cinque anni dopo l'ormai ex 007 viene contattato dalla spia americana Felix Leiter (Jeffrey Wright) per aiutarlo a recuperare una pericolosissima arma di distruzione di massa dalle grinfie della sopracitata organizzazione criminale. Scoperta l'origine dell'arma stessa James accetta di collaborare con l'amico, persino a discapito dei piani di M (Ralph Fiennes), direttore dell'MI6, venendo a scoprire, però, di una minaccia ancor più insidiosa della SPECTRE, che lo riporterà anche a incrociare la strada della donna che non ha mai smesso di amare.
Pur orfano della regia di Sam Mendes, No Time to Die non solo continua la svolta prettamente orizzontale impostata a partire da Skyfall (2012), bensì la porta fino alle estreme conseguenze. Sebbene già i precedenti Casino Royale (Martin Campbell, 2006) e Quantum of Solace (Marc Forster, 2008) fossero ben più connessi narrativamente rispetto al passato, è innegabile come i due episodi diretti dal regista nato a Reading insieme a quello in analisi costituiscano una vera e propria trilogia, per certi versi accostabile all'operazione nolaniana in ambito Batman. Se nel primo capitolo 007 era quasi morto per poter risorgere e acquisire gran parte di quelle caratteristiche che lo hanno reso riconoscibile nel corso di decenni, fungendo di fatto da nuova origin story, nel seguito diretto ha dovuto affrontare le conseguenze della perdita dell'unica famiglia che avesse mai posseduto, fino a conoscere un nuovo amore, in grado di riscaldare il suo cuore dopo la perdita di Vesper. In tale ottica, chiaramente improntata a una versione contemporanea dell'immortale viaggio dell'eroe campbelliano, l'opera diretta da Fukunaga assurge la funzione di epilogo, atto a chiudere tutti i fili del racconto intrecciatisi dopo la presunta dipartita del protagonista nell'incipit di Skyfall.
Evitando spoiler che mai come in questo caso potrebbero rovinare parzialmente l'esperienza spettatoriale, la celeberrima spia si trova ad affrontare tutti i demoni del proprio passato e persino quelli legati maggiormente alle persone a cui tiene maggiormente, dando persino la propria benedizione all'agente scelta per sostituirlo. Tutto ciò si traduce in un coinvolgimento emotivo da parte del pubblico raramente riscontrato all'interno persino di una saga così amata, reso evidentemente possibile dall'impronta seriale totalizzante summenzionata, capace di far affezionare i fruitori ai personaggi a livelli molto più simili a quelli tipici della serialità televisiva fortemente orizzontale che domina il panorama audiovisivo attuale. Certamente concorre a questa forza emozionale la prova attoriale eccellente da parte dell'intero cast, a partire da un Daniel Craig sempre eccezionale nel comunicare più con la mimica facciale che non con la dialettica, ma niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza una continuity tanto ferrea. A ciò si aggiunge, proprio come nei precedenti episodi post-2006, una caratterizzazione di Bond ben più umana ed empatica rispetto a quelle esasperatamente larger than life di Sean Connery o Roger Moore: ancora una volta lo 007 contemporaneo mostra tutti i suoi limiti di uomo spesso fin troppo succube dei suoi sentimenti, di paure che tutti noi comuni spettatori conosciamo e comprendiamo e pronto a rinunciare al brivido dell'avventura, della conquista sessuale fine a se stessa pur di abbracciare un amore che colmi il vuoto lasciatogli da un'infanzia da orfano.
Un lungometraggio, dunque, che mostra più cuore di quasi tutti i prequel, senza rinunciare, al contempo, a marchi di fabbrica della saga, come le location sparse per tutto il globo o il vodka martini, e persino una dose di ironia che ricorda in parte l'epoca Brosnan. Da questo punto di vista spicca la sequenza ambientata a Cuba, dove il breve minutaggio di Ana de Armas nei panni di una combattiva quanto naif spia della CIA ruba la scena anche a momenti ben più centrali per la narrazione più ampia. Anche visivamente rappresenta uno dei picchi di un'opera che trova il suo fiore all'occhiello nelle spettacolari sequenze d'azione, tra le quali spicca un lungo piano sequenza che non può non ricordare quanto fatto da Fukunaga nel corso della prima stagione di True Detective (Nic Pizzolatto, 2014-). Pur mancando l'eleganza nella composizione di Mendes o la furia cinetica di Campbell e Forster, la regia mostra momenti di grande perizia formale, mostrando invece il fianco per quanto concerne la qualità del racconto. Pur risultando efficace grazie alla dimensione emotiva fin qui descritta, la sceneggiatura lascia spesso a desiderare nella gestione dei molteplici spunti tematici innestati e, soprattutto, nel ritratto del villain, che spreca il talento di Rami Malek per un personaggio solamente abbozzato nel suo rapporto sia con Bond che con Madeleine.
No Time to Die, in definitiva, non raggiunge a mio parere le vette rappresentate da Casino Royale e Skyfall, probabilmente anche a causa di una gestazione piuttosto turbolenta, ma chiude con notevole coraggio l'era più umana dell'epopea bondiana, rafforzando il posto nel cuore di ogni fan riservato agli occhi azzurri e dolenti di Daniel Craig.
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