lunedì 17 settembre 2018

MAPS TO THE STARS: LA MORTE DI HOLLYWOOD E DELL'OCCIDENTE

All'interno del mio intervento su A Dangerous Method ho sottolineato come, inesorabilmente, con l'avvento del terzo millennio David Cronenberg abbia abbandonato la massiccia fisicità tipica del suo cinema precedente per continuare a indagare il rapporto tra l'umano e l'artificiale, il lato oscuro del progresso e della società post-capitalista attraverso storie e messe in scena maggiormente rarefatte e lontane dal cosiddetto body horror. Il culmine di questo processo è stato probabilmente raggiunto con Cosmopolis (2012), pellicola compressa in un abitacolo adibito a rappresentazione fisica dell'interiorità del protagonista e del subdolo mondo nel quale vive, ma l'ultimo lungometraggio girato dal cineasta canadese si pone come epiteto proprio della filmografia dello stesso, nonostante un titolo vagamente romantico quale Maps to the Stars. Diretto nel 2014 il film, l'unico girato negli Stati Uniti all'interno dell'ampia produzione di Cronenberg, viene presentato al Festival di Cannes dove riceve un premio per l'interpretazione di Julianne Moore ma al momento della distribuzione nelle sale divide critica e fan del regista, rivelandosi un flop al botteghino.

La flebile storia alla base del lungometraggio ruota attorno alla discesa nel baratro di alcuni figure che ruotano attorno al dorato mondo di Hollywood: Havana Segrand (Julianne Moore), un'attrice in crisi che lotta per ottenere la parte nel remake di un film recitato dalla madre defunta che ha accusato pubblicamente di reiterati abusi sessuali; Benjie Weiss, star adolescente di un franchise cinematografico appena uscito dal tunnel della droga ma messo nuovamente in crisi dal suo caratteraccio e dall'invidia per la co-star del suo ultimo film; Agatha Weiss (Mia Wasikowska), sorella del giovane appena arrivata a Los Angeles dopo aver passato anni in una clinica psichiatrica dopo aver dato fuoco alla casa di famiglia e aver fatto ingerire alcune pasticche al fratellino; Stafford e Christina Weiss (John Cusack e Olivia Williams), genitori dei due impegnati soprattutto ad arricchirsi sfruttando il prossimo (il primo è uno psicanalista che si atteggia a guru in televisione e che si occupa anche di Havana, la seconda lavora come agente del figlio). Le tragedie personali e familiari di queste figure si intrecceranno proprio con l'arrivo nella città degli angeli di Agatha, sotto lo sguardo che tenta in ogni modo di tenersi estraneo di Jerome (Robert Pattinson), autista di limousine e aspirante attore/scrittore.

Tentare di estrapolare in poche righe le complessità di un prodotto come Maps to the Stars risulta un compito estremamente arduo, se non impossibile, ma ciò che risalta fin dalla prima visione dello stesso è la crescente ferocia con la quale Cronenberg ritrae un piccolo estratto di un microcosmo che in qualche modo diventa sineddoche dell'intera società occidentale odierna. Se Cosmopolis affrontava di petto la questione del degrado etico attuale criticando senza molti giri di parole la mostruosità del capitalismo, la disumanizzazione della classe dirigente rappresentata dal giovane annoiato magnate interpretato da Pattinson, il film in analisi sceglie come di focalizzarsi su un obiettivo più ristretto per portare un attacco simile al precedente. Hollywood e lo showbiz in generale costituiscono oggi, in tempi di crisi economica oltre che morale, un sogno ancora più scintillante e dannato al tempo stesso rispetto a quanto visto in altre pellicole incentrate su questo ambiente quali Mulholland Drive di David Lynch (2001) arrivando a diventare una sorta di Olimpo da raggiungere a ogni costo, un Eden dal quale evitare di essere espulsi persino a discapito della propria umanità. In questo senso l'ultimo lavoro del regista canadese potrebbe essere paragonata ad altri lavori che descrivono il medesimo milieu come il recente The Canyons (Paul Schrader, 2013) o il classico Sunset Boulevard (Billie Wylder, 1950) ma a distinguerlo e renderlo appieno un prodotto della mente dell'autore di Videodrome (1983) è l'indagine psicanalitica tipica della sua filmografia post-2000 che sfocia in una vera e propria decisione di uccidere anche l'ultimo baluardo di bellezza all'interno di un mondo squallido e grottesco nella sua amoralità: il cinema. Con una sequenza realmente paradigmatica nella sua efficacia semantica Cronenberg mostra quella che sembrerebbe essere una soggettiva di Havana mentre viene accoltellata a morte da Agatha, la quale colpisce più volte la sua datrice di lavoro guardando direttamente in macchina. Proprio lo sguardo diretto all'obiettivo della cinepresa e la copiosa fuoriuscita di sangue dal medesimo punto a ogni fendente appare come un chiaro riferimento all'omicidio della settima arte da parte del meneur de geste dell'intera vicenda e dunque simbolo dell'intera umanità malata che popola lo star system e l'Occidente in toto. Non credo che sia un caso che il cineasta di Toronto non abbia girato più alcun lungometraggio e che anzi pare sia in procinto di abbandonare questo formato in favore della serialità targata Netflix: Maps to the Stars rappresenta, almeno a oggi, la lapide scolpita dal proprio autore per il cinema, un arte non più in grado di contribuire a migliorare la realtà e dunque divenuta ormai solamente uno spettro, proprio come quelli che popolano le menti vicine al collasso dei personaggi che popolano quest'opera. Proprio per questo il director rinuncia completamente a conferire una forma coesa e dotata di una propria personalità alla pellicola e opta per uno stile asettico ai limiti della sciattezza che sottolinea ancora una volta la fine della settima arte.

Probabilmente molti di voi potrebbero non digerire del tutto un lavoro come questo Maps to the Stars ma una visione attenta rivela quanto del suo autore vi sia all'interno, persino il suo sconfinato amore per quel cinema che adesso considera, con evidente dolore, solamente un'ombra sbiadita.

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