sabato 8 settembre 2018

THE END? L'INFERNO FUORI: L'APOCALISSE ROMANA

A confermare la lenta ma innegabile rinascita del cinema di genere in Italia, o quanto meno un'apertura sempre maggiore del mercato mainstream verso pellicole horror, thriller o cinecomic nostrani, arriva in questa estate The End? L'inferno fuori, opera prima di Daniele Misischia prodotta dai Manetti Bros, strenui difensori della cinematografia di genere italiana fin dagli anni '90, probabilmente il periodo più buio per questo tipo di produzioni. Certamente il solo fatto di essere stato distribuito in sala costituisce un motivo di grande orgoglio per un regista esordiente come il pupillo dei fratelli autori di Ammore e malavita (2017) ma a mio avviso la ricezione sia da parte del pubblico che dalla critica si sta rivelando fin troppo severa verso questo film, specie se confrontata con le lodi sciorinate nei confronti di tanti prodotti indipendenti anglofoni, spesso distribuiti da Netflix, sicuramente notevoli ma quasi mai superiori rispetto al film in analisi.

Il primo lungometraggio diretto da Misischia ruota completamente attorno a Claudio (Alessandro Roja), un giovane e altezzoso manager alle prese con un'importante giornata di lavoro nella Roma affascinante e caotica al tempo stesso che noi italiani conosciamo fin troppo bene. Dopo aver dimostrato il proprio carattere egoista e sferzante con delle sfuriate verso il proprio autista, la sua ex amante e la moglie (alla quale presta la voce Carolina Crescentini) il protagonista resta bloccato in ascensore. Un imprevisto che si rivelerà una fonte di salvezza per l'uomo nel momento in cui la capitale viene falcidiata da un'epidemia che trasforma uomini e donne in feroci essere antropofagi.

Esattamente come nel caso dei suoi mentori è impossibile non riconoscere all'autore di The End? L'inferno fuori una conoscenza non solo enciclopedica dell'horror e in particolare del filone zombie ma anche una consapevolezza profonda dei topoi dello stesso e di quei meccanismi narrativi, formali e strutturali che lo caratterizzano. L'apocalisse messa in scena dal giovane cineasta recupera dal pioniere dello zombie movie George Romero il ricorso a una sola location e la claustrofobia provocata dall'assedio al quale viene costretto il protagonista eppure è evidente come le creature della pellicola siano ben più simili ai famelici e scattanti infetti visti nei più recenti 28 giorni dopo (28 Days Later, Danny Boyle, 2002) e L'alba dei morti viventi (Dawn of the Dead, Zack Snyder, 2004). Sarebbe possibile addirittura rintracciare degli echi provenienti da pellicole quali Buried (Rodrigo Cortés, 2010) o l'italiano Mine (Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, 2016) nella scelta di mettere al centro della narrazione il solo protagonista impossibilitato a lasciare un luogo circoscritto a pochi metri quadrati, invischiato suo malgrado in una situazione che lo costringerà non solo a lottare per la sopravvivenza ma anche a riflettere sul proprio modo di agire e dunque a crescere da un punto di vista morale. Possiamo dunque liquidare il lungometraggio come un buon remix di successi del passato più o meno recenti in ambito horror e thriller? Non credo, specie se consideriamo fattori tutt'altro che convenzionali come l'assenza quasi totale di gore, limitata solamente ad alcune uccisioni peraltro corredate da un ottimo utilizzo di effetti speciali artigianali, e l'efficace sovrapposizione tra il punto di vista della macchina da presa e quello di Claudio, le cui numerose soggettive racchiuse tra gli sportelli bloccati dell'ascensore aumentano la tensione e accentuano la natura satirica del film, il quale in maniera piuttosto sottile mette così in mostra il voyeurismo alla base dell'esperienza spettatoriale orrorifica. Proprio come il pubblico che assiste alla proiezione di un horror il superbo yuppie interpretato da Roja non può fare altro che osservare ciò che accade all'esterno dell'ascensore con una certa partecipazione emotiva ma anche con il distacco provocato dalla consapevolezza di non poter essere ucciso in quel locus irraggiungibile persino per gli zombie. A questo sostrato metacinematografico si aggiunge inoltre una possibile lettura sociale originata dall'ambientazione peculiare della pellicola: la scelta di ambientare un'apocalisse zombie a Roma non solo ribalta il cliché delle catastrofi localizzate sempre negli Stati Uniti ma aggiunge quel fascino unico tipico della Città eterna e soprattutto una chiara attualizzazione della critica sociale romeriana alle condizioni del tutto particolare della capitale, simbolo delle contraddizioni nelle quali vessa l'Italia odierna.

Possiamo parlare allora di un capolavoro horror? Probabilmente no ma relegare questo The End? L'inferno fuori all'etichetta di filmetto artigianale (tanto cara alla critica nostrana fin dai tempi di maestri come Mario Bava, Riccardo Freda e Lucio Fulci) mi pare piuttosto ingeneroso e dunque direi che merita non solo un plauso in quanto debutto di grande qualità ma anche come ulteriore tassello nella precedentemente menzionata resurrezione del cinema di genere italiano.

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