martedì 22 gennaio 2019

FIRST REFORMED: TRA IMMANENZA E TRASCENDENZA

Paul Schrader probabilmente non è riconosciuto e mai sarà riconosciuto un maestro come l'amico Martin Scorsese eppure resta innegabile il suo apporto alla New Hollywood e al cinema contemporaneo, sia nelle vesti di sceneggiatore che di regista e persino di avido conoscitore della settima arte, che indaga con molto più acume di molti saggisti e critici. Nonostante una certa diffidenza verso i suoi ultimi lavori l'autore di American Gigolò continua ad andare dritto per la propria strada, lontana dai fasti produttivi di Hollywood e oggi mi preme spendere qualche parola per First Reformed (First Reformed - La creazione a rischio, 2017), ultima pellicola scritta e diretta da Schrader, capace dopo molti anni di riconquistare proprio quella critica che aveva annientato per esempio The Canyons (2013) alla sua presentazione, in concorso, al Festival di Venezia.

La flebile traccia narrativa del film in questione vede il pastore Ernst Toller (Ethan Hawke) alle prese con una vita di privazioni e solitudine dopo la morte del figlio in guerra, la fine del rapporto con sua moglie e la decisione di abbandonare la posizione di reverendo dell'esercito per accettare di occuparsi di una storica chiesa di Snowbridge, visitata più dai turisti che dai fedeli. La sua abituale routine viene modificata da due eventi, la scelta di redigere un diario personale e l'incontro con Mary (Amanda Seyfried), giovane donna molto devota che chiede aiuto al ministro di Dio per suo marito Michael, attivista ambientalista che non riesce ad accettare la gravidanza della moglie a causa delle gravi condizioni nelle quali versa il nostro pianeta. Sebbene il primo incontro di Toller con l'uomo sembri creare un certo legame di fiducia tra i due, Michael decide di suicidarsi, innescando un shock psicologico ed etico nel cuore e nella mente del protagonista.

Sia piano più prettamente narratologico che su quello formale First Reformed si configura come un lavoro molto distante dalle influenze noir del predecessore Cane mangia cane (Dog Eat Dog, 2016) e in generale da qualunque prodotto di genere, rivelando immediatamente le influenze esplicitamente dichiarate di autori quali Dreyer, Bresson o Bergman, eppure non appena entra in scena il personaggio magistralmente interpretato dal mai troppo lodato Ethan Hawke il film mostra di essere del tutto aderente alla poetica di Schrader. Il regista opta in questo caso per un registro formale estremamente rigoroso, costituito da lunghe inquadratura del tutto o quasi scevre da movimenti di macchina, perfettamente impostato sul piano compositivo e inoltre rinuncia ai convenzionali formati panoramici in luogo di un 4:3 ispirato a Ida di Pawel Pawlikowski (2013), non a caso altro lungometraggio con protagonista una figura religiosa. Tutti questi precisi riferimenti e la espressa motivazione dietro l'utilizzo di un aspect ratio così agli antipodi con le attuali convenzioni rispecchiano la natura più pulsante, intima e vera della pellicola, ossia quella volontà di indagare l'inconoscibile, l'irrappresentabile, l'ignoto della trascendenza attraverso il simbolo stesso del suo opposto, l'immanenza: il corpo. L'insistenza sui primi piani di Toller, i piani sequenza in cui il reverendo diventa il punto di fuga delle linee forza costituite dalle architetture della chiesa-prigione First Reformed ma soprattutto la psichedelica scena nella quale l'uomo e Mary si sdraiano l'uno sopra l'altro, in un gioco proprio di ricerca del massimo contatto tra due corpi, diviene evidente come quell'oggetto della mortificazione da parte di secoli di riflessione cristiana si trasformi per il cineasta statunitense nell'unico e più autentico veicolo di conoscenza della propria essenza, di quella altrui e persino un mezzo di possibile redenzione, di ascesa dalla dannazione all'illuminazione. L'enigmatico finale lascia certamente interdetti ma al contempo non fa che confermare la natura ibrida, ossimorica o meglio misterica del film, misterica come lo è Dio, unico e trino insieme proprio come la pellicola risulti immanente e trascendente allo stesso tempo, materiale e spirituale, verosimile e onirica. L'intero impianto estetico voluto da Schrader, così rigoroso, privo di movimenti di macchina, di commenti musicali invadenti e poi capace in alcune sequenze di librarsi verso momenti di autentica negazione di aderenza al reale dimostrano proprio la pregnanza del mistero insito nella fede al suo interno, finendo per creare nello spettatore un effetto straniante che rimanda ai territori del sogno o persino dell'incubo. Incubo come quello di un pianeta, della creazione più grandiosa di Dio violata senza alcun ritegno dall'uomo; come quello di un padre che non ha il coraggio di dare alla luce una figlia destinata a vivere all'inferno; come quello di un uomo di fede che, novello Abramo, ha sacrificato il proprio Isacco senza che un angelo accorresse per fermarne la mano.

Saranno anche passati più di quarant'anni da quando la coppia Schrader-Scorsese indagava i meandri dell'inferno sulla Terra creato dall'uomo attraverso le sudicie strade di New York e gli occhi di un reduce del Vietnam ma questo First ReformedSilence (Martin Scorsese, 2016) dimostrano che ancora oggi questa coppia continua ad affascinare milioni di spettatori con le proprie riflessioni su quella dimensione che esiste al di là del nostro piccolo mondo concreto.

Nessun commento:

Posta un commento