venerdì 25 novembre 2016

ANT-MAN: L'IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI

In seguito a una gestazione iniziata addirittura prima che nascesse l'ormai miliardario Marvel Cinematic Universe (MCU) nel 2015 è giunto finalmente nelle sale Ant-Man, diretto dal mestierante Peyton Reed (Yes Man, 2008). Le cause del lunghissimo lasso temporale impiegato per dare alla luce la pellicola sono numerosi e in fondo non credo che siano poi così interessanti come molti credono; certamente aver perso per strada un regista di talento, oltre che ideatore dell'intera operazione, come Edgar Wright (Shaun of the Dead, 2004; Hot Fuzz, 2007) che sembrava nato per dirigere questa pellicola è stato un colpo non facile da incassare per la riuscita di Ant-Man, così come l'obbligo di adattarlo alle direttive artistiche e narrative dell'universo gestito da Kevin Feige non può non aver fatto perdere alla sceneggiatura parte della sua originalità ma ciò che lo spettatore si trova a poter vedere oggi è un film nonostante tutte queste impervie assolutamente interessante e dalla spiccata personalità.

La pellicola in analisi si rivela essere una origin story il cui protagonista, interpretato con una verve irresistibile da Paul Rudd, è tutt'altro che un eroe convenzionale; Scott Lang è infatti un ladro appena uscito dal carcere e che, nonostante il tanto decantato master in ingegneria, incapace di trovare un lavoro con cui pagare gli alimenti alla ex moglie e alla amata figlia. L'occasione per potersi finalmente riscattare e diventare il padre ideale per la sua bambina gli viene data dalla tuta in grado di miniaturizzarsi inventata dall'ex scienziato dello S.H.I.E.L.D. Hank Pym (Michael Douglas), il quale affida all'ex galeotto la sua preziosa creazione per poter impedire a Darren Cross (Corey Stoll), una volta suo allievo, di vendere agli spietati uomini dell'HYDRA (un piccolo ripasso delle puntate precedenti dell'MCU è richiesto anche in questo caso) la tecnologia alla base della tuta stessa. 
A una lettura superficiale potrebbe sembrare folle la decisione della mente (definire Feige un semplice produttore è molto riduttivo) dietro tutti lungometraggi Marvel di affidare alle avventure di uno dei meno noti tra i supereroi a disposizione la chiusura della "fase due", soprattutto in seguito alle critiche ricevute per lo più proprio dai fan nei confronti del film più costoso e importante della suddetta fase, il secondo me ingiustamente bistrattato Avengers: Age of Ultron (Joss Whedon, 2015). Persino nei piani iniziali della produzione stessa Ant-Man doveva essere parte della "terza fase", ma con l'abilità dimostrata finora dal deus ex machina dell'MCU questi ha compiuto una drastica virata proprio per fronteggiare le critiche piovute sulla "fase due" (escludendo il capolavoro Captain America: The Winter Soldier diretto da Anthony e Joe Russo nel 2014) chiudendola con un prodotto agli antipodi del gigante d'argilla che si è rivelato essere il secondo capitolo dedicato agli Avengers, come a voler ammettere che era stata calcata troppo la mano e che una ventata di aria nuova era fin troppo necessaria per non perdere la fedeltà del pubblico.

A questo punto la domanda che sorge spontanea è se Ant-Man rappresenti davvero e con una certa qualità la redenzione per i cinecomics Marvel. Proprio nella parola redenzione si cela al risposta a tale quesito poiché uno dei temi principali dell'opera di Reed è proprio il riscatto, quell'occasione che capita raramente nella vita a chi da sempre è stato un perdente, un eterno secondo e proprio per questo quasi mai viene buttata nel cestino dei rifiuti. Sommerso da tanti altri film più grandi, più spettacolari e con protagonisti ben più famosi il lungometraggio che oggi vi propongo non avrebbe mai potuto spiccare il volo se non in questa congiunzione astrale così particolare, proprio come il protagonista Scott Lang non avrebbe mai avuto modo di risvegliare il buono dentro di sé e ritrovare la propria famiglia senza un evento tanto impossibile come ricevere una tuta in grado di rimpicciolirlo per salvare il mondo e così neanche Hank avrebbe mai potuto fare pace con sua figlia e superare il senso di colpa per la morte di sua moglie senza Scott. Alla base di questo gioco a metà tra realtà e diegesi basato sulla redenzione si trova ciò che ho citato nel titolo del post in corso, ovvero l'importanza dell'essere piccoli: per troppo tempo il gigantismo, la volontà di creare qualcosa di sempre più grande, più costoso, più serio, insomma la ricerca del macro a tutti costi nel mondo del cinema basato sui fumetti ha continuato a dettare legge fino ad esasperarne i toni, divenuti esagerati nella propria ostentazione. Il film con Paul Rudd rappresenta invece la rivincita del mini, la rivalsa dei budget più contenuti, dei toni smorzati, dell'autoironia che ormai era andata persa. Sequenze come la lotta tra l'uomo formica protagonista e Falcon (Anthony Mackie) e soprattutto la battaglia finale tra l'eroe e Cross in dimensioni minuscole in mezzo ai giocattoli della figlia di Scott rappresentano delle esilaranti ma al tempo stesso inequivocabili accuse parodie degli epici scontri tra supereroi più blasonati che avevano ormai raggiunto toni che sono più congeniali a Dragon Ball Z (Akira Toriyama, 1989-1996) che non ai cinecomic.

Nel mettere in ridicolo le altre pellicole tratte da fumetti americani e nell'affrontare il tema della redenzione delle seconde scelte la pellicola diretta dall'autore di Yes Man si concede alcune sequenze visivamente straordinarie (si pensi al combattimenti finale appena citato) e inquadrature molto originali, come ad esempio le soggettive del protagonista in miniatura o quelle delle sue compagne formiche, al netto però di una sceneggiatura ricca di alti e bassi, rappresentati soprattutto da un ottimo humour e alcuni personaggi ben scritti oscurati da sequenze emotive piatte e uno svolgimento dell'intreccio piuttosto modesto. La colonna musica non spicca mai purtroppo, nonostante si basi proprio su una canzone riprodotta per caso una delle sequenze visivamente meglio riuscite (mi riferisco a quella che coinvolge i The Cure), mentre il cast spesso sopperisce alle mancanze di inventiva registica, come dimostra l'estro con cui interpreta un ladruncolo tutt'altro che sveglio Michael Pena.
In conclusione Ant-Man probabilmente non si è rivelato il film geniale che sarebbe potuto essere nelle mani di Edgar Wright ma allo stato attuale rappresenta un ottimo prodotto di intrattenimento che ben si rapporta con i propri tempi, mica male al giorno d'oggi. Fatemi sapere cosa ne pensate.


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