martedì 11 ottobre 2016

THE CELL: L'IMMAGINIFICO VIAGGIO NEL SUBCONSCIO

Nell'ormai lontano anno 2000 trova un non indifferente spazio nella programmazione delle sale mondiali il debutto alla regia nel mondo del cinema di Tarsem Singh (The Fall, 2006; Immortals, 2011), precedentemente noto per aver diretto l'acclamato videoclip di Losing My Religion dei R.E.M. Il lungometraggio che lo introduce alla settima arte si intitola The Cell, in apparenza un thriller facente parte di quel filone inaugurato da Seven (David Fincher; 1995) ma che in realtà si presenta come una commistione di più generi al servizio dell'impressionante gusto visuale di Tarsem. La pellicola ottiene un riscontro di pubblico notevole ma divide la critica, la quale, soprattutto negli Stati Uniti, resta affascinata dalla regia e dallo stile visivo generale dell'opera ma ne lamenta al contempo la banalità per quanto concerne la sceneggiatura.

La tanto bistrattata trama di The Cell ruota attorno a due poli narrativi che verso la metà della sua durata si incontrano: da un lato viene presentata la macchina sperimentale che permette all'assistente sociale Catherine (Jennifer Lopez) di entrare nel subconscio di un bambino ridotto in uno stato catatonico a causa di una forma rarissima di schizofrenia, dall'altra parte invece la caccia al serial killer Carl Stargher (un Vincent D'Onofrio particolarmente ispirato) operata dagli agenti federali Peter Novak (il Vince Vaughn che più spesso ogni cinefilo vorrebbe ritrovare) e Ramsey (Jake Weber). Queste due linee narrative apparentemente agli antipodi anche dal punto di vista visivo (le esplorazioni di Jennifer Lopez nella mente altrui vengono rese su schermo attraverso fantastici scenari ricchi di colori, mentre il thriller con protagonista Vince Vaughn risulta molto più legato ai capisaldi del genere con i suoi ambienti bui e sporchi) si intrecciano nel momento in cui il killer viene finalmente acciuffato ma risulta trovarsi in uno stato di incoscienza simile a quello del bambino affidato a Catherine così, essendo l'uomo l'unico a sapere dove si trova l'ultima ragazza da lui rapita, gli uomini dell'FBI si affidano proprio alla tecnologia da lei usata per poter carpire l'informazione.

Persino da questa breve sinossi appare chiaro quanto sia superficiale ridurre la pellicola diretta dal cineasta indiano a una copia sbiadita del già citato Seven o Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs; Jonathan Demme; 1991). La ricerca di un serial killer sulla base del suo profilo psicologico risulta soltanto una minuscola componente del film, quasi uno specchietto per le allodole in modo da poter aumentare il bacino di utenza da un punto di vista economico e un pretesto per poter arrivare al cuore reale dell'opera: il viaggio nei meandri della psiche di uno psicopatico. La seconda metà della pellicola si svolge per la maggior parte del tempo nel subconscio di Stargher permettendo al director indiano di dare libero sfogo al suo sconfinato gusto per l'estetica. Ogni passo dell'assistente sociale interpretata dalla Lopez nella mente altrui la trasporta in mondi diversi che si adattano al carattere del "proprietario", cosa che porta l'esplorazione dell'inconscio del serial killer a diventare un vero e proprio tour dell'orrore ricco di riferimenti religiosi e artistici intervallati dai ricordi dell'infanzia tormentata dell'uomo. La ricostruzione dei traumi subiti dal personaggio portato sullo schermo da Vincent D'Onofrio appare tutt'altro che banalmente stereotipata grazie alla ricchezza di dettagli che richiamano l'immaginario ebraico-cristiano così come l'apparato immaginifico del mostro che infesta la sua mente si può dire degno dei peggiori incubi (anche qui i riferimenti all'arte figurativa così come al cinema horror sono finissimi).

In conclusione ciò che rende una visione realmente valida The Cell è l'unione di un patrimonio visuale tanto raffinato quanto conturbante a una attenzione per i meandri più nascosti della mente umana, senza pregiudizi morali o stereotipi psicologici da cinema classico. Con le sue sperimentazioni visive e sulle codifiche dei generi la pellicola di Tarsem Singh può essere considerata un'esponente assolutamente interessante dell'utilizzo del noir da parte del cinema contemporaneo come linguaggio per analizzare la complessità del vissuto attuale.

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