mercoledì 25 agosto 2021

CAPONE: DECOSTRUIRE IL MITO CINEMATOGRAFICO CRIMINALE

Woody Allen ha dedicato uno dei suoi migliori lavori, Match Point (2005), all'importanza della sorte nella vita umana, a dispetto di qualunque talento o azione che possiamo perpetrare. Probabilmente oggi anche Josh Trank concorderebbe con gli assunti alleniani, barattando molto volentieri il suo innegabile talento per una bella botta di...fortuna. Dopo aver mostrato al mondo la possibilità di realizzare cinecomic senza budget miliardari con Chronicle (2012), il suo, apparentemente, radioso futuro lavorativo va a scontrarsi con l'ambiente dei grandi studios, che lo inghiottiscono per poi sputarlo via con le ossa rotte. Dopo aver disconosciuto pubblicamente il disastroso The Fantastic Four (2015) la sua carriera imbocca una parabola discendente, costellata unicamente da progetti naufragati ancor prima di iniziare. L'occasione del riscatto arriva nel 2020 con l'ambizioso Capone, del quale filma anche sceneggiatura e montaggio, con tanto di cast ricco di attori di notevole fama. Peccato che anche in questo caso il fato si dimostri poco amichevole con il regista: la pandemia di COVID impedisce al film di uscire in sala e la distribuzione on-demand, nonostante numeri discreti, ovviamente non riesce a rendere la produzione un successo economico, complice anche l'accoglienza piuttosto controversa riservatale dalla critica. Ma è davvero un disastro annunciato il suo ultimo lavoro?


La pellicola mostra l'ultimo anno di vita del leggendario boss Al Capone (Tom Hardy), contraddistinto dal rapido peggioramento della sua salute mentale a causa della sifilide. Incapace di ricordare dove avrebbe nascosto ben dieci milioni di dollari, pedinato dall'FBI e totalmente dipendente dalle cure della moglie (Linda Cardellini), l'uomo passa le sue giornate su una sedia a rotelle, fumando una carota che scambia per un sigaro e rivivendo nella propria mente alcuni dei misfatti commessi in gioventù.

Analizzare e giudicare Capone è un compito più arduo di quanto potrebbe sembrare. Una delle caratteristiche che in estetica viene ritenuta fondamentale da millenni per apprezzare un'opera d'arte è l'equilibrio, cuore pulsante di tutto il classicismo greco-romano e che influenza la nostra percezione ancora oggi. Il film in questione di equilibrio ne ha ben poco, sia a livello narrativo, specie per quanto concerne il ritmo, che formale, con i suoi picchi di violenza e realismo nel ritrarre il deterioramento fisico del protagonista. Eppure come si può pretendere moderazione, simmetria da una pellicola che racconta, per l'appunto, l'improvviso tracollo della salute di un uomo potente, astuto e ancora piuttosto giovane? Con coraggio e una certa cognizione di causa, Trank si spinge oltre i topoi del biopic, persino di quel sottogenere dello stesso legato a figure criminali o comunque moralmente esecrabili, a partire dal soggetto. Limitando la narrazione all'ultima fase di vita del gangster, quella contrassegnata quasi unicamente dalla malattia, il cineasta californiano decide di disfarsi dell'aura glamour che nei decenni ha investito la figura di Al Capone, divenuto l'essenza stessa dell'idea del fuorilegge spietato ma affascinante al tempo stesso. Senza di lui l'immaginario collettivo di numerose generazioni non avrebbe mai associato al mafioso il volto e le iconiche citazioni di Al Pacino in Scarface (Brian De Palma, 1983), a sua volta reinterpretazione dell'omonimo lungometraggio diretto da Howard Hawks nel 1932. Ebbene stavolta tutto ciò che lo spettatore immagina quando viene nominato il re del crimine di Chicago viene completamente scardinato, trovandosi ad assistere a scene di ordinaria malattia per tutte quelle persone che accudiscono parenti non autosufficienti, senza nascondere persino l'incapacità del protagonista di trattenere i propri bisogni fisiologici. Molti critici sembrano inorriditi dal vedere un uomo di quasi cinquant'anni bagnare la propria raffinatissima poltrona, senza neanche accorgersene, ma sono fin troppe le famiglie o gli operatori sanitari che riconoscono in tutto ciò stralci della loro quotidianità. Fonzo, come viene chiamato da parenti e amici, nelle mani dell'autore di Chronicle non è più il boss mitizzato dal cinema e neanche un semplice malato da compatire, come magari lo avrebbe dipinto un classico biopic revisionista, bensì un essere umano a trecentosessanta gradi, la cui cagionevole salute psichica ne accentua ancora di più i contrasti. Esemplare in tal senso è il rapporto con Mae, che, con forza di volontà e pazienza infinite, accudisce il marito dopo aver già sofferto per i suoi efferati crimini. Incapace di mantenere a lungo la lucidità, il protagonista passa nell'arco della stessa scena dal pronunciare parole estremamente amorevoli alla moglie per poi attaccarla con il più scurrile dei linguaggi, mostrando di non riconoscere neanche la propria interlocutrice.

La tragica condizione del gangster italoamericano viene sottolineata, cercando però di evitare il semplice patetismo, da una serie di sequenze ambientate nei suoi ricordi o in ciò che questi sono diventati in seguito all'insorgere della demenza. Frammenti del suo antico potere sulla società altolocata di Chicago si alternano a esplosioni di violenza che rammentano al pubblico che quell'ormai debole figura umana è stata davvero Al Capone, il terrore delle strade. Anche in questi casi Trank non distoglie lo sguardo della cinepresa neanche dinanzi a lunghe pile di cadaveri sui quali l'uomo si arrampica o quando uno dei suoi sgherri pugnala a ripetizione il collo di un presunto traditore, ma ben più potente a livello sia visuale che concettuale è l'espressione esterrefatta di Fonzo dinanzi alla sua immagine da giovane riflessa in uno specchio, di cui sembra non avere alcuna memoria certa. Non c'è momento di maggiore solitudine per una persona rispetto a quello in cui ci si specchia, figuriamoci quando l'immagine che ci restituisce la superficie riflettente non ci risulta neanche più familiare.

Il sopracitato ritmo cadenzato e una certa mancanza di approfondimento delle dinamiche interpersonali con il resto della famiglia impediscono a Capone di eccellere, nonostante ciò resta un film dotato di notevole fascino, grazie anche alle sue imperfezioni e all'interpretazione di un Tom Hardy ormai sempre più a suo agio con la recitazione coperta da maschere (in questo caso il pesante trucco impostogli dal ruolo). Nei soli occhi e nei movimenti appena accennati delle sue labbra è possibile vivere tutto il travaglio di un uomo che ha smesso finalmente di essere solo un personaggio di genere, premiando il coraggio di un autore che di sicuro non ha la sorte dalla propria parte.

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