mercoledì 11 agosto 2021

ONCE: RINASCERE ATTRAVERSO LA MUSICA

Parlare dello strettissimo rapporto tra cinema e musica ci porterebbe fino all'alba della sua nascita, a quelle prime immagini in movimento, prive di suono ma accompagnate sempre da qualche tipo di commento musicale, che fosse eseguito dal vivo o registrato. Prima ancora che la narrazione diventasse un elemento fondamentale del medium le melodie erano già presenti, dando vita a un connubio oggi vivo più che mai. Quante volte abbiamo visto anche registi dedicarsi alla musica o, viceversa, musicisti passare davanti o dietro la cinepresa? Quest'ultimo è il caso di John Carney, ex bassista che trova la propria vocazione più autentica nella settima arte, senza dimenticare mai il proprio passato. Non a caso il film che lo consacra alla ribalta internazionale vede la musica come suo cuore pulsante: Once, diretto nel 2006. Girato a bassissimo costo, con un gran numero di attori non professionisti, il lungometraggio si rivela un successo di pubblico e di critica, arrivando a competere persino ai Golden Globe e agli Academy Awards, dove si aggiudica la statuetta per la miglior canzone originale.

La pellicola, ambientata tra le strade di una Dublino ancora lontana dal suo recente boom economico, mette in scena l'incontro, del tutto fortuito, tra uno squattrinato musicista di strada (Glen Hansard), che per vivere ripara aspirapolveri con il padre, e una ragazza madre ceca (Markéta Irglova). Parlando della comune passione per la musica e iniziando anche a comporre delle canzoni insieme i due si avvicinano sempre più, fino a registrare, insieme ad altri musicisti ambulanti, un demo con i pezzi composti insieme.

Il chiaro punto di partenza per la narrazione di Once è la commedia romantica ma, come sanno i registi più fini, la forza dei generi si situa negli ampi spazi di manovra che i loro tratti più riconoscibili lasciano al singolo autore. Poche coordinate ben definite e una miriade di possibili declinazioni di tutto il resto. Carney, in questo caso, libera il canovaccio della romcom dall'alone glamour tipico delle sue versioni più hollywoodiane, focalizzandosi sui ceti più popolari di una città tutt'altro che modaiola e scegliendo due protagonisti assolutamente comuni, al punto da non dargli neanche un nome. Dei veri e propri avatar in cui milioni di spettatori possano trasferire il proprio vissuto, i propri sentimenti e la propria condizione di individui qualunque, né ricchi, né belli quanto lo star del cinema americano mainstream. Persino gli interpreti non sono realmente professionisti, bensì perlopiù cantanti o musicisti, sottolineando in tal senso le linee-guida dell'opera: musica e realismo. Ad accentuare quest'ultimo è, senza alcun dubbio, un registro formale costantemente votato alla sottrazione. Sfruttando quasi unicamente l'illuminazione naturale, ambienti non ricostruiti in studio e macchina a mano, la pellicola assume i contorni di un lavoro documentaristico, come conferma anche la tendenza della cinepresa a seguire i protagonisti alla stregua di quanto farebbe un reporter sul fronte per un documentario bellico. Tutto ciò inevitabilmente incrementa il coinvolgimento emotivo del pubblico nei confronti del crescente feeling tra i personaggi principali, quasi come se stesse spiando attraverso il buco della serratura i primi vagiti di una storia d'amore.

Una storia d'amore che non avrebbe alcun principio e che non risulterebbe tanto coinvolgente per il fruitore se non fosse per l'altro elemento cardine: la musica. Non solo i due si conoscono e iniziano a interagire per merito di questa comune passione ma entrambi scoprono di portare delle ferite, che sembrano poter essere lenite soltanto dalle sette note. Le delusioni, i cuori spezzati e gli stenti economici divengono semplice e impercettibile sottofondo quando la chitarra di lui e il piano di lei si incontrano e danno vita a una danza magica, capace di trasformare tutto il dolore in bellissime composizioni, sincere nella propria emotività almeno quanto le interpretazioni dei due non-attori e i sentimenti che i personaggi cominciano a provare l'uno per l'altro. Pur evitando deleteri spoiler per chi non avesse visto il lungometraggio, è fondamentale sottolineare, da questo punto di vista, quanto per Carney conti proprio la forza guaritrice dell'arte, l'incredibile sortilegio con cui convince due esistenze ormai rassegnate al grigiore a credere nuovamente nei rispettivi sogni, in ciò che li rendeva vivi prima dell'ennesimo schiaffo ricevuto dalla vita.

Come ribadito anche nel successivo Tutto può cambiare (Begin Again, 2013) qualche volta l'amore dura soltanto una manciata di istanti ma quello per la musica, per l'arte in genere, può cambiare completamente le prospettive di una vita intera, salvandoci dall'abisso in cui spesso i colpi del destino sembrano averci seppelliti.

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