Nonostante una carriera principalmente votata al neo-noir e alla fantascienza, spesso mescolando entrambi i generi all'interno dello stesso lungometraggio, Christopher Nolan non è nuovo alla ricostruzione storica, come dimostra Dunkirk (2017), eppure mai si era misurato con la biografia di un grande della Storia. Almeno fino all'estate del 2023, che vede l'uscita di Oppenheimer, che segna anche la sua separazione ufficiale da Warner Bros dopo decenni di fruttuosa collaborazione, dato che a produrre il film è Universal. Divenuta un fenomeno ancora prima di arrivare in sala grazie al fenomeno virale a base di meme dovuto alla contemporanea distribuzione in gran parte del mondo con Barbie (Greta Gerwig, 2023), la pellicola sta ottenendo un enorme successo commerciale, tanto da avvicinarsi alle cifre della trilogia nolaniana dedicata a Batman, così come l'unanime plauso della critica, persino quella solitamente più distante dal cinema del regista.
La narrazione si dipana attraverso due diversi punti di vista, contrassegnati anche da una diversa scelta cromatica, sulla vita di J. Robert Oppenheimer (Cillian Murphy), a partire dai suoi studi universitari fino al Progetto Manhattan e al susseguente impegno per il controllo sull'escalation nucleare, che gli provoca numerosi problemi di tipo politico. In particolare il potente Lewis Strauss (Robert Downey Jr.) ne mette in ombra il prestigio ottenuto attraverso l'atomica facendolo accusare, per vie traverse, di comunismo nel pieno della caccia alle streghe maccartista.
Aspettarsi da Christopher Nolan un classico biopic, in cui il protagonista viene raccontato come un eroe predestinato a raggiungere la grandezza in pieno rispetto dell'American dream, sarebbe quantomeno ingenuo e infatti Oppenheimer, nonostante una maggiore e apparente classicità rispetto al resto della sua filmografia (cosa che deve aver tratto in inganno alcuni dei pochi detrattori), mantiene gran parte delle coordinate poetiche e formali del suo cinema. Il film da un lato rispetta con maniacale attenzione ai dettagli la veridicità storica, evitando nella stragrande maggioranza di piegare quanto realmente accaduto ai bisogni della finzione, ma dall'altro trasforma l'obiettivo della macchina da presa in una pressoché costante rappresentazione del punto di vista dello scienziato, a cui si contrappone una diversa prospettiva, segnalata dal bianco e nero, che vive in bilico tra la tipica ripresa oggettiva del classicismo hollywoodiano e il punto di vista di Strauss, novello Salieri di formaniana memoria. La scelta di filtrare ogni evento tramite la soggettività del protagonista permette al cineasta britannico di saltare, in maniera proustiana, da un ricordo all'altro senza dover necessariamente seguire la fabula, tanto da arrivare fin dalle prime sequenze a interrompere il naturalismo del racconto con flash e visioni di "Oppie". Questi momenti onirici, talvolta formati da una manciata di frame rapidi come immagini subliminali, altre volte invece rappresentati da inserti grafico-sonori che si innestano (verbo caro a Nolan) all'interno del reale, mostrano in gran parte stelle ed esplosioni atomiche, introducendo dunque fin dai primi minuti del lungometraggio il tema dei sentimenti che il "distruttore di mondi" nutre nei confronti della propria creatura, che diventa una sorta di mistero da decifrare lungo tutta la pellicola.
Una sfaccettatura da thriller che, insieme agli elementi da legal drama, non solo legano l'opera alla filmografia dell'autore di Inception (2010), ma che, soprattutto, pongono l'accento sul vero fulcro della stessa: l'alone di mistero che circonda il vero pensiero di un uomo geniale sì, ma altrettanto colpevole di aver dato vita a un'era in cui l'uomo è potenzialmente in grado di autodistruggersi. Proprio per questo Nolan lascia spesso da parte il linguaggio filmico tipico del period drama e del biopic per tessere un tesissimo thriller, che trova la sua definitiva consacrazione in due scene, anche piuttosto distanti tra loro. La prima è quella della realizzazione di Trinity, il primo ordigno nucleare esploso in New Mexico, costruita con un dosaggio così massiccio di suspense da divenire a tutti gli effetti la perfetta concretizzazione di quella definizione data da Alfred Hitchcock di tale meccanismo narratologico nel corso della celeberrima conversazione con Truffaut: lo spettatore sa benissimo cosa sta per succedere, è il perno della storia del protagonista, della Seconda guerra mondiale e forse del Novecento, eppure la sua detonazione viene procrastinata così a lungo e con una tale perizia nel ritmo e nella concentrazione di aspettative che il suo arrivo esplode in primis all'interno dell'emozione del pubblico, davvero messo a dura prova dall'attesa. Pur all'insegna dell'attesa ma con una diversissima costruzione è l'altra scena-madre del film, ovvero lo svelamento del dialogo sul lago tra Oppenheimer e Einstein. In questo caso il riferimento evidente è Orson Welles, dato che tutto l'astio provato da Strauss verso il fisico americano e, di conseguenza, la gogna politica a cui lo sottopone nasce proprio da un fraintendimento legato a questo dialogo. Verso la conclusione della pellicola, alla stregua della rivelazione del trucco in The Prestige (Christopher Nolan, 2006), il pubblico scopre finalmente quanto in realtà il punto focale di quell'incontro sia esattamente ciò che Robert prova verso il suo lavoro all'atomica e la grande differenza tra i due geni della fisica quantistica.
Oppenheimer rappresenta in definitiva non soltanto il miglior film dell'anno, almeno fino a questo momento, ma anche una pietra miliare nelle possibilità offerte dal biopic e l'ennesimo magnifico tassello del puzzle nolaniano sull'enigma dell'uomo contemporaneo, di cui il fautore degli stermini di Hiroshima e Nagasaki assurge il ruolo di exemplum di latina accezione.
Nessun commento:
Posta un commento