mercoledì 15 marzo 2023

THE FABELMANS: LA VITA CHE SI FA CINEMA

Chiunque abbia frequentato in maniera piuttosto assidua la filmografia di Steven Spielberg, ossia almeno 3/4 della popolazione mondiale grazie a classici come Lo squalo (Jaws, 1975) o I predatori dell'arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981), attendeva da almeno un paio di decenni una sua autobiografia, vista la costante ispirazione al proprio vissuto personale in ogni sua opera, persino quelle più fantastiche e apparentemente prive di apporto alla scrittura dell'autore. E il 2022 ha finalmente portato in dote il tanto atteso The Fabelmans, liberamente ispirato ad alcune fasi cruciali della giovinezza del regista tramite gli avatar della famiglia che dona il nome alla pellicola. Osannato all'unanimità dalla critica il film si rivela però una grande delusione al box office, segnando il peggior risultato nella carriera del cineasta americano e l'ennesima conferma della profonda crisi vissuta dal cinema d'autore in sala, dove ormai sembra che il pubblico preferisca recarsi unicamente per i nuovi episodi dell'universo Marvel.

Il lungometraggio segue il percorso di formazione del giovane Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle) a partire dalla sua prima volta in sala, durante la quale la visione di Il più grande spettacolo del mondo (The Greatest Show on Earth, Cecil B. DeMille, 1952) segna la sua infatuazione verso il cinema, passando per l'adolescenza, contraddistinta dall'impegno verso la direzione di film amatoriali sempre più professionali ma, soprattutto, i problemi legati alla separazione dei genitori (Michelle Williams e Paul Dano).

A cominciare dallo sguardo meravigliato dinanzi alla scena del treno diretta nel capolavoro di DeMille, The Fabelmans mette in mostra alcuni punti cardine sia della propria forma che del proprio percorso narrativo. Pur inserendosi in un filone particolarmente florido, ossia quello delle autobiografie cinefile sublimato da 8 e 1/2 (Federico Fellini, 1963), il film con quel topos così familiare agli appassionati di Spielberg avverte immediatamente lo spettatore di quanto di più prezioso l'autore di E. T. l'extraterrestre (E. T. The Extra-terrestrial, 1982) abbia imparato da ragazzo e perfezionato nel corso della sua carriera: se amiamo così tanto il cinema non è soltanto per lo spettacolo che riesce a offrirci, specialmente dinanzi al grande schermo, bensì per la sua capacità di mistificare e, spesso, mitizzare la realtà. La presenza di una certa dose di romanzesco all'interno di qualsiasi opera ispirata a fatti realmente accaduti è assodata persino per lo spettatore meno smaliziato ma come riesce davvero la settima arte a falsificare il reale senza provocarci la sensazione di essere raggirati e soprattutto perché lo fa? Il regista statunitense, utilizzando come tramite un LaBelle che nel corso del lungometraggio assume tratti sempre più somiglianti a sé, soffermandosi costantemente sulla scoperta di nuove tecniche o di mezzi espressivi sempre più sofisticati da parte del protagonista da applicare ai suoi progetti filmici afferma con vigore che il racconto in essere non è semplicemente quello di come Steven sia diventato Spielberg, ma quello di come un ragazzo qualsiasi possa affrontare il dolore attraverso le possibilità di modificare il mondo reale tipiche del cinema. 

Attraverso un processo non dissimile da quello esplorato da Michelangelo Antonioni nell'immortale Blow-Up (1966), il cui esempio diventa palese nel corso della sequenza in cui Sammy mostra alla madre il film girato durante il campeggio di famiglia, la pellicola si sofferma in primis proprio sullo straordinario impatto che può avere sulla vita vera la padronanza delle molteplici possibilità formali offerte dalla macchina da presa, dal montaggio e da tutto l'apparato tecnico che rende possibile la magia chiamata cinema. Una buona profondità di campo permette di cogliere sullo sfondo dell'inquadratura un amore clandestino che forse soltanto l'ingenuità dell'infanzia celava all'occhio, un paio di ralenti trasforma un bullo antisemita in un eroe sportivo che sembra in grado di volare e un adolescente può persino provare un genuino senso di perdita per dei commilitoni immaginari grazie a una eccellente direzione degli attori. Il potere della celluloide non conosce limiti tra le mani di un artigiano dedito anima e corpo all'arte, tanto da diventare l'unico mezzo attraverso cui un ragazzo alle prese con la perdita dell'innocenza può accettare l'inaccettabile, dalle prime delusioni amorose alla distruzione di un nucleo famigliare che sembrava assolutamente perfetto. 
Ecco perché è impossibile non amare The Fabelmans: perché non racconta solamente le origini cinematografiche di un maestro ma, in primo luogo, quanto sia dolorosa la scoperta del lato oscuro dell'universo e che pur essendo il più bello ed emozionanti dei rifugi, il cinema altri non è che un rifugio da questa terribile verità.

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