venerdì 13 dicembre 2019

DOLOR Y GLORIA: UNA VITA IN 24 FOTOGRAMMI AL SECONDO

Pedro Almodóvar è internazionalmente divenuto sinonimo non solo di quella rinascita socio-culturale vissuta dalla Spagna negli anni Ottanta, in seguito alla definitiva chiusura dell'esperienza franchista, ma dell'intero panorama cinematografico iberico, al punto di essere riconosciuto persino dalla persona più indifferente alla settima arte. Con un tempismo quasi esoterico nel 2019, a circa quaranta anni dal suo esordio dietro la macchina da presa, il cineasta castigliano presenta al Festival di Cannes il suo lavoro più autobiografico: Dolor y gloria. La pellicola segna un vero e proprio trionfo per l'autore di Donne sull'orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988), vincendo numerosi premi in tutto il mondo (al momento è in corsa anche per due Golden Globes) e ritrovando i favori anche del pubblico dopo un paio di tappe poco fortunate all'interno di un percorso di grandissima qualità.

Centro di gravità permanente del film è Salvador Mallo (Antonio Banderas), regista reduce da decenni di successi indimenticati ma nel pieno di una paralisi sia nel lavoro che nella vita privata causata, almeno in apparenza, da una lunga serie di problemi di salute. L'abbondanza di tempo libero permette all'uomo di riflettere sul proprio presente ma soprattutto sul passato, dall'infanzia in povertà vissuta affianco della volenterosa madre (Penelope Cruz) passando per due storie d'amore con uomini accomunati solamente dalla dipendenza dall'eroina. Proprio l'incontro con Alberto Crespo (Asier Extendía), attore protagonista di una delle sue opere più celebri, e con Federico (Leonardo Sbaraglia) porteranno a una svolta per l'impasse del regista.

Qualunque spettatore con una minima cognizione della filmografia di Almodóvar non può che notare quanto della sua vita reale si trovi nelle disavventure e nella caratterizzazione di Salvador, rendendolo in tutto e per tutto un alter ego dell'autore. Utilizzando l'amico Banderas come una sorta di avatar videoludico nel quale riversare la propria personalità, il proprio passato, i tormenti della diversità in un paese profondamente cattolico e vissuto per decenni tra le sbarre della dittatura, l'amore per il cinema e la nostalgia tipica dell'età che avanza, il cineasta spagnolo gira quello che potrebbe essere considerato il suo 8½ (Federico Fellini, 1963). Con i capolavoro felliniano il film in analisi condivide non solo la natura autobiografica e autoanalitica, bensì anche la discrasia temporale e soprattutto il ricorso a una mise en abyme che si rivela man mano sempre più raffinata e idonea a poter rappresentare lo stato d'animo di un uomo non più giovane diviso tra i rimpianti del passato e il desiderio di vivere il futuro che potrebbe attenderlo. La struttura a scatole cinesi della pellicola, barocca solamente in apparenza, cela in realtà una vena metacinematografica essenziale all'intimo racconto almodovariano poiché, come rivelato da Mallo all'interno del monologo che fa recitare ad Alberto, in ogni suo ricordo, fin dall'infanzia, c'è sempre stato il cinema e solo attraverso l'occhio della cinepresa riesce ad affrontare le questioni in sospeso trascinate per anni.
Attraverso una forma che unisce il gusto per il décor raffinato degli esordi al lavoro di sottrazione attuato nell'ultima parte di carriera, l'autore di Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999) riesce a dare vita a una riflessione sul proprio vissuto di uomo e regista attuando gli stessi propositi che il suo alter ego enuncia nelle discussioni con il suo ex attore protagonista (si pensi, per esempio, alla categorica negazione delle lacrime) e, allo stesso tempo, toccando tutti quei temi che in circa quarant'anni di carriera lo hanno reso uno dei più importanti cineasti viventi. L'equilibrio con cui dosa emozione struggente e tenerezza quasi adolescenziale per filmare l'incontro tra Salvador e Federico è materiale che può scaturire solo dallo sguardo di un maestro, eppure a rubare la scena resta la tempesta di tonalità che colorano il rapporto con la madre, altro tema cardine della filmografia almodovariana. Un'esplorazione, attraverso spazi e tempi sempre diversi, di quello che appare come un mistero insondabile almeno quanto quello della natura una e trina di Dio secondo il dogma cristiano: come può una madre rifiutare di accettare la natura di un figlio che indubbiamente ama e per il quale ha vissuto un'esistenza intera? E come può un figlio perdonarla e convivere con la consapevolezza di averla delusa, pur amandola con tutto se stesso?
Salvador non pronuncia alcuna parola, alcuna frase che possa rispondere chiaramente al dilemma ma quel ricordo che si trasforma in ripresa cinematografica pare la più eloquente delle enunciazioni. L'amore non basta a salvarci ma il cinema sì.

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