Dopo aver raccontato con Le conseguenze dell'amore (Paolo Sorrentino, 2004) l'opera che lo ha confermato tra i migliori talenti del cinema italiano del terzo millennio, non posso esimermi dal dedicare una manciata di righe all'ultima fatica del cineasta partenopeo. È stata la mano di Dio, prodotto da Netflix ma con una discreta distribuzione anche in sala sul finale del 2021, segna il ritorno cinematografico di Sorrentino alla propria città natale, così come un nuovo inizio nel suo rapporto con critica e pubblico, sottolineato da numerose e prestigiose candidature internazionali e da un notevole passaparola tra gli spettatori.
Ambientato nella Napoli degli anni Ottanta, in preda al fervore per l'arrivo di Maradona nella squadra di calcio della città, il film racconta la forzata maturazione di Fabietto Schisa (Filippo Scotti), la cui adolescenza spensierata all'interno di una colorita famiglia borghese, viene sconvolta dall'improvvisa morte, causata da una fuga di gas, degli amati genitori (Toni Servillo e Teresa Saponangelo). Incapace di trovare un senso a quanto accaduto, il ragazzo capisce di potersi aggrappare solamente al suo sogno: diventare regista.
Come affermato a più riprese nel corso della sua promozione, È stata la mano di Dio rappresenta quanto di più autobiografico Sorrentino abbia mai scritto o diretto. Sebbene molto del suo carattere, delle proprie ossessioni e del suo passato fosse presente già nelle opere precedenti, così come molto di ciò che viene portato sullo schermo in questa sua più recente fatica sia del tutto immaginario, la pellicola presenta evidenti punti di contatto con la reale vicenda dell'ancora giovanissimo Paolo, la cui vocazione cinematografica nasce proprio a poca distanza dall'incidente che lo trasforma in orfano. Destino fatale a cui sfugge, proprio come il suo alter ego filmico, grazie all'intervento divino dell'idolo Maradona, a quei biglietti per la partita del Napoli che lo allontanano dal padre e la madre nel lasso temporale più importante.
La familiarità in cui si districa la cinepresa nel corso del lungometraggio no significa però che l'autore de Il divo (2008) perda di vista l'unicità del proprio sguardo e del suo modo di raccontare il mondo. Parafrasando quanto affermato in una delle sequenze chiave dell'opera dal regista Antonio Capuano (Ciro Capano), il director non si disunisce in nome dell'aderenza alla realtà, bensì sfuma il proprio magniloquente senso della composizione e il piacere per la battuta sagace con il vivido ricordo dell'indimenticabile Napoli del primo Scudetto, della spensieratezza precedente la caduta della Prima Repubblica ma anche del contrabbando di sigarette e degli status symbol kitsch assurti a palliativi per una miseria che non ha mai abbandonato l'ex capitale del regno borbonico. La filmografia sorrentiniana vive fin dagli esordi di un crescente realismo magico, fieramente ispirato alla negazione del Neorealismo operata da Fellini (del quale viene, non a caso, menzionata proprio l'affermazione secondo cui la realtà sia scadente) e all'idea di poter individuare sempre elementi di meraviglioso anche all'interno della più meschina delle milieu. In fondo la pellicola vive in primo luogo come riproposizione di ricordi dell'adolescenza del regista e non esiste episodio del passato che la memoria non mitizzi attraverso alterazioni della fattualità, rendendo in tal senso quanto mai opportuno per la narrazione lo stile sempre in bilico tra mondanità e fantasia di Sorrentino.
La grande novità rispetto alla precedente produzione del cineasta napoletano risiede, dunque, nel raccontare non più un uomo nel pieno della maturità e dei rimpianti per un'innocenza perduta molti anni addietro, bensì nel mostrare finalmente il momento esatto di quella perdita e, nel fare ciò, una reazione che, a giudicare dal finale e dall'autobiografismo fin qui descritto, porterà il protagonista a non disunirsi, come invece era successo al giovane Gep prima di inabissarsi nella squallida fauna romana ne La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013). Fabietto, seppur ancora molto insicuro e distrutto dal "tradimento" causato dall'essere stato abbandonato dalle persone che più amava, capisce che il suo grande e forse stupido sogno può aiutarlo a convivere con il dolore, rifiutando l'escapismo del fratello maggiore e l'oblio pronosticatogli dalla baronessa, facendolo diventare finalmente Fabio, un uomo fatto e finito, capace di avere qualcosa di personale da raccontare, con l'aiuto delle tantissime storie che Napoli offre ogni giorno.
Sarebbe impossibile negare alla città, infatti, il ruolo di co-protagonista. Il film inizia con un lungo piano sequenza che parte dalle sponde del mare che la bagnano per arrivare poi nel suo cuore pulsante, fatto, non a caso, da quel misto di sacro e profano, miseria e nobiltà che rendono unico il capoluogo campano. Le strade, gli interni delle case, i costanti riferimenti al mare, non dissimili da quelli dell'unica altra pellicola della filmografia sorrentiniana ambientata nella sua amata terra, L'uomo in più (2001), diventano non solamente una manifestazione dell'interiorità del giovane Schisa (alla stregua della Roma de La grande bellezza), ma liriche disserzioni di una città che ogni suo abitante porta con sè ovunque vada. Solo apprezzando la centralità che questa possiede per il regista assume un senso estremamente pregnante ed emozionante la scelta di Napule è quale unica canzone all'interno dell'intera pellicola.
Fabio/Paolo ha imparato a non disunirsi non soltanto rispetto a se stesso, ai valori insegnatigli dagli amati genitori, al proprio sogno e al "disprezzo" per una realtà scadente, ma anche nei confronti di un luogo dell'anima che soltanto chi non ha mai visitato neanche per un giorno può non amare.
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