Il 2019 sembra così lontano ormai, persino i meme si sprecano sull'argomento. L'anno precedente il grande spartiacque della pandemia da COVID-19, del distanziamento sociale, delle videoconferenze e dell'ulteriore spintarella dello streaming verso l'esperienza in sala. L'anno, a proposito di spinte (mi riferisco all'iconica battuta sulla follia di Heath Ledger), di Joker, diretto da un novizio dei cinecomic quale Todd Phillips, capace però di superare il miliardo di dollari al botteghino e di vincere addirittura il Leone d'oro al Festival di Venezia. Un caso più unico che raro da moltissimi punti di vista, esterno al più esteso universo diegetico DC Comics e progettato per restare un unicum ma, come sempre accade, la legge del mercato prevede che a ogni successo corrisponda un seguito: Joker: Folie à Deux, presentato ancora una volta alla kermesse italiana nel 2024. Questa volta però la magia tra film e pubblico non si ripete, portando a un sostanziale insuccesso dello stesso, mentre critica e addetti ai lavori si dividono nettamente tra aspri detrattori e fermi sostenitori.
Ambientato a circa due anni di distanza dal predecessore, il lungometraggio vede Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) internato nel manicomio criminale di Arkham, alle prese con delle perizie mediche che potrebbero stabilire la sua infermità mentale e, conseguentemente, evitargli un processo che quasi sicuramente lo condannerebbe alla pena di morte. Mentre ogni giorno subisce le angherie delle guardie carcerarie, tra cui spicca il violento Jackie (Brendan Gleeson), conosce e si innamora follemente (pun assolutamente intended scusate) di Lee (Lady Gaga), giovane paziente dell'istituto ossessionata dal Joker grazie al film televisivo tratto dalle sue gesta.
A cominciare dal marketing a essa legata, il titolo della pellicola sembra apparentemente fare riferimento all'iconica coppia del crimine costituita dai due protagonisti, ma, difatti, Joker: Folie à Deux fa della dialettica tra due poli opposti l'essenza di sé e del mondo folle che rappresenta, in primis quella tra Arthur e Joker. Mentre l'avvocato difensore (Catherine Keener) tenta in tutti i modi di dimostrare la dissociazione tra i due, come se fossero due distinte identità all'interno di un unico corpo, il resto del mondo vede nel tragico personaggio unicamente il volto truccato da clown del serial killer capace di generare delle sanguinose rivolte a Gotham con le sue gesta. Harvey Dent, procuratore distrettuale e accusatore dell'uomo, mette in risalto unicamente le vicende delittuose di questi, omettendo volontariamente qualunque traccia del passato da vittima. I tanti sostenitori del protagonista inneggiano unicamente a Joker e lo stesso vale per Lee: l'amore che prova è solamente una morbosa attrazione verso una celebrità oscura e dannata, simile a quella delle tante groupie degli assassini seriali più famigerati o al fenomeno social italico del "malessere". Ancora una volta Arthur è totalmente invisibile alla società di cui dovrebbe far parte e trova un unico metodo per assumere consistenza dinanzi agli occhi del mondo, ovvero trasformarsi nel rabbioso pagliaccio idolatrato dai disadattati di Gotham.
Tutto come nel potente finale del primo capitolo dunque? Tutt'altro. In primis perché i seguaci del Joker non sono più solamente i reietti, i diversi, gli esclusi che avevano trovato nell'ira funesta di un loro simile un vessillo da seguire, sfogando anni e generazioni intere di repressione da parte degli strati sociali più altolocati e di un sistema politico ed economico iniquo. Sulle stragi di Arthur è stato addirittura girato un film che lo ha reso una vera e propria icona pop, sfondando la distinzione tra diegesi e realtà e facendo dei tanti esaltati che assistono al processo del protagonista dei riflessi di coloro che avevano amato a tal punto la pellicola del 2019 e il noto villain in genere da esaltarlo al pari di un eroe o forse anche più del suo arcinemico Batman. Follia? Semplice delirio di una minoranza di squilibrati? No, il semplice effetto di quella che Guy Debord definisce "società dello spettacolo". Tutto nella contemporaneità perde di significato in sé per trovarne uno solamente nella propria rappresentazione mediatica, filtrata dal linguaggio dell'entertainment e dall'onnipresenza di uno schermo, elementi non a caso onnipresenti nell'opera diretta da Phillips. In questo senso diventa pregnante la scelta di intervallare ai momenti da prison movie e thriller legale dei numeri da musical classico, dove Arthur, nei panni del proprio alter ego, e Lee si esibiscono in canti e danze tipicamente hollywoodiani per esprimere l'amore che li lega. Un amore artefatto, superficiale e stilizzato alla stregua di quelli con happy ending obbligatorio di Vincente Minnelli e Stanley Donen, utilizzati dal cineasta statunitense come emblema stesso dell'imperante mistificazione in cui viviamo tutti noi, nascosti dietro le maschere che creiamo ogni giorno attraverso selfie e stories che postiamo con tale abbondanza da sotterrare il nostro vero io.
A infrangere uno schema tanto razionale e paradigmatico nella sua follia non può essere altri che un diverso quale Arthur, che in un ultimo gesto di titanismo, contrario e affine allo stesso tempo a quello dell'omicidio in diretta tv del primo film, getta via il trucco e si rivolge alla giuria non più come Joker, bensì come quello sfortunato e abbandonato uomo che incarna il Male, banale e strisciante. Quell'Arthur che non interessa neanche al pubblico del mondo reale, quello che è uscito indignato dalle sale di tutto il mondo perché chiedeva ancora una volta un pezzo del principe del crimine di Gotham e non di empatizzare con un uomo comune. Joker: Folie à Deux costituisce il punto di non ritorno del cinema anarchico e nichilista di Phillips, arrivato al punto di girare un blockbuster che decostruisce non solo la propria essenza, quella dei sequel e dei cinecomic, ma soprattutto quella dei fan, in quanto degenerazione ultima degli alienati creati dal capitalismo denunciato da Marx ormai due secoli or sono. Se siete tra coloro che si aspettavano l'ennesimo film rassicurante e accomodante allora dopo la visione dovreste iniziare a porvi qualche quesito, almeno secondo l'autore di Una notte da leoni (The Hangover, 2009).
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