A distanza di circa quattro mesi dalla distribuzione mondiale del primo capitolo, Zack Snyder torna a dividere pubblico e critica con Rebel Moon - Parte 2: La sfregiatrice (Rebel Moon - Part Two: The Scargiver, 2024), che conclude solamente una fase della space opera ideata dall'autore di 300 (2007), dato il finale ma anche l'arrivo promesso di versioni estese di entrambi i film, che certamente terranno alto l'interesse verso un franchise che al momento però non sembra scaldare il cuore neanche della fanbase più affezionata al regista. In attesa di scoprire i numeri relativi alle visualizzazioni su Netflix, difatti, la pellicola sta ricevendo una pletora di recensioni negative e quindi non è scontato che invece a livello commerciale e in generale il pubblico sia ancora interessata all'IP.
Il lungometraggio riprende le fila del racconto esattamente da dove finiva A Child of Fire, con il ritorno di Kora (Sofia Boutella) e degli altri guerrieri tra gli abitanti di Veldt per festeggiare la vittoria su Noble (Ed Skrein), senza sapere però che quest'ultimo è sopravvissuto alla battaglia ed è pronto a vendicarsi dell'affronto subito. Venuti a conoscenza dell'imminente attacco i protagonisti, guidati stavolta da un punto di vista tattico ed emotivo da un ritrovato generale Titus (Djimon Hounsou), preparano una resistenza a oltranza, che possa salvare definitivamente il villaggio dalle angherie di Mondo Madre.
Nel corso dell'analisi della Parte 1 avevo sottolineato come la narrazione mostrasse il fianco a difetti non di poco conto, come una sorta di fretta nel voler raggiungere tutti i punti focali del viaggio dell'eroe di Joseph Campbell e del modello offerto da I sette samurai (Akira Kurosawa, 1954), facendo sì che la ricercata epica finisse per essere ridimensionata, al netto di una cura per la forma di tutt'altro spessore. La sfregiatrice, d'altro canto, pur soffrendo a mio avviso di una rapidità eccessiva nel passaggio da una fase all'altra del racconto che credo sarà assente nella versione estesa, come accadeva per Batman v Superman: Dawn of Justice (Zack Snyder, 2016), può permettersi di accantonare tutta la fase espositiva della lore presente nel prequel, asciugando dunque le vicende fino a renderle ben più compatte ed essenziali però poter concedere alla forma di prendere il sopravvento. E questo fa solamente bene al film, poiché nel panorama hollywoodiano di genere pochi registi dimostrano una mano singolare, evidente e fiera della propria personalità come quella di Snyder, qui anche direttore della fotografia. Avvicinandosi maggiormente a quanto fatto con il già citato 300, il cineasta di Green Bay mette in scena stavolta un'opera puramente action, dove la ricercatezza nella composizione delle inquadrature, l'estrema leggibilità degli scontri sia con armi da fuoco, sia con quelle bianche, resa possibile anche dall'amato/odiato ralenti marchio di fabbrica del regista, e il ricorso a obiettivi analogici sulla mdp che donano fisicità anche agli effetti speciali digitali soverchiano ogni incertezza narratologica. Come spesso affermato nel corso di interviste e making-of, il director statunitense abbraccia nel corso di questo lungometraggio le proprie influenze provenienti dal fantasy muscolare di John Milius, delle illustrazioni di Frank Frazetta e di cult fumettistici quali Heavy Metal e Conan il barbaro, esaltando la carica emozionale di singoli gesti e posture per un racconto che procede tramite funzioni prettamente mitologiche e metonimiche da fumetto/b-movie pulp.
Impossibile negare le strizzate d'occhio a Kurosawa e Lucas ma il vero modello per questa seconda parte di Rebel Moon mi sembra essere il mondo del peplum, della space opera d'appendice e della mitologia in cui ogni singolo personaggio e ogni azione viene asciugata di ogni sottigliezza naturalista fino a diventare puro simbolo che dialoga con la pregressa conoscenza del pubblico di un certo immaginario visuale e narrativo, come quella sterminata serie di avventure occorse a Ercole o Maciste nel periodo d'oro del cinema vernacolare nostrano che all'indagine sociologica del coevo post-neorealismo mettevano in bella mostra la fisicità dei vari Steve Reeves e la potenza pittorica delle inquadrature, esattamente come nei tableau vivant snyderiani.
La sfregiatrice è dunque un ritorno ai livelli più alti della filmografia del regista di Watchmen? Non per me, non quando si sente eccome la mancanza di uno sceneggiatore di livello assoluto come Chris Terrio e la scelerata idea di distribuire ancora una volta prima la versione monca del film, ma queste due ore su Veldt divertono e finalmente esaltano l'importanza della forma e della personalità in un cinema contemporaneo sempre più scialbo e fordiano quando si tratta di generi popolari.