venerdì 23 agosto 2019

SUBWAY: EMARGINATI E SINCRETISMO NEL CUORE (CINEMATOGRAFICO) DI LUC BESSON

C'era una volta un regista francese che, in barba ai luoghi comuni, tentò di conquistare il mondo del cinema importando nel proprio paese e nella sua cultura il modello statunitense, a partire dall'aderenza ai generi popolari fino ad arrivare alla creazione di una vera e propria major, l'EuropaCorp. Ovviamente questo cineasta è Luc Besson, produttore instancabile, autore di uno dei film più amati dalle hipster italiane ma del quale raramente si ricordano i lavori precedenti alla coppia di successi strepitosi formata da Léon (1994) e Il quinto elemento (Le Quincième Élément, 1997). Tralasciando il discorso riguardante il coraggio che ha permesso a un europeo di allestire una società di produzione realmente assimilabile al modello industriale americano, oggi mi preme riportare a galla uno dei suoi primi lungometraggi, Subway, girato nel 1985, campione di incassi in Francia e vincitore di tre premi César.

Ambientata quasi interamente all'interno di una metropolitana, la pellicola ruota attorno alla fuga dalla polizia di Fred (Christopher Lambert), reo del furto di alcuni documenti compromettenti dalla cassaforte di Héléna (Isabelle Adjani), moglie di un ricco quanto pericoloso uomo d'affari. Tra il ladro e la vittima del reato si crea una certa attrazione ma i tutori della legge e i killer assoldati dal marito di Helena si avvicinano sempre di più al protagonista, nonostante il supporto trovato negli uomini che vivono all'interno della metropolitana.

Subway, mettendo in secondo piano la natura sperimentale del precedente Le Dernier Combat (1983), introduce alcuni elementi che diverranno poi centrali sia nella poetica che nello stile di Besson, dimostrando una natura estremamente personale rispetto al cinema francese del tempo, sebbene alcuni critici tendando ad assimilarlo ai lavori coevi di Leos Carax e Jean-Jacques Beinex. La sequenza d'apertura, un lungo inseguimento in auto dal ritmo sincopato che tende a ricalcare quello della musica rock che fuoriesce dallo stereo di Fred, è il biglietto da visita con cui il cineasta parigino intende mostrare la sua idea della settima arte, tutta improntata al sincretismo tra la tradizione transalpina e quella statunitense. Proprio il car chase e l'utilizzo del rock sia come commento musicale extradiegetico che intradiegetico sono elementi attinti in pieno dalla New Hollywood, così come il ricorso al jump cut e l'atipica love story che nasce tra il protagonista e la sua "vittima" riportano alla mente il Godard del periodo Nouvelle Vague. Proprio come l'autore de Il disprezzo (Le Mépris, 1963), Besson ambienta la sua storia in un presente e in un luogo aderenti al reale, in cui ogni spettatore può riconoscere elementi del proprio vissuto quotidiano, ma che presenta avvenimenti tutt'altro che ordinari. Se in Godard la riflessione sul cinema è totalizzante, onnipresente ed estesa a ogni sua componente, nel lavoro in analisi l'aspetto metacinematografico riguarda nella fattispecie proprio il bagaglio di tradizioni a cui attingere e l'ibridazione dei generi: è impossibile non leggere il film come una singolare sintesi tra musical e thriller, con la romance e la detection che si intersecano continuamente, anche a livello visuale, fino all'ambiguo finale, in cui finalmente i due protagonisti si dichiarano il proprio amore ma al contempo sembrerebbe che Fred sia sul punto di morire, colpito a morte da un killer a pagamento mentre la band che ha plasmato suona la sua canzone. I percorsi narratologici di entrambi i generi vengono dunque rispettati, fino però a convergere in un epilogo ibrido e velatamente ironico, con quella risata finale di Lambert, in sincrono quasi perfetto con la fine del brano musicale, che sembra quasi uno sberleffo del regista verso una lettura forzatamente seriosa dell'opera.
In questi termini si potrebbe pensare a Subway come una sorta di divertissement postmoderno ma, proprio tramite anche i riferimenti metacinematografici, emergono con forza alcuni dei temi che poi saranno al centro della poetica dell'autore di Nikita (1990). Nel momento in cui l'azione, dopo la prima sequenza, si sposta definitivamente nella metropolitana appare evidente come il director voglia mostrare al pubblico un microcosmo popolato unicamente da outsider, reietti della società che ne creano una parallela tra gli anfratti e le tante gallerie destinate ai treni. Personaggi come il pattinatore o il fioraio vivono sì di espedienti tutt'altro che legali ma, allo stesso tempo, emanano una vitalità straordinaria e agiscono secondo un codice morale che li avvicina molto di più alla gioventù alternativa che porterà alla caduta del muro di Berlino che non a dei veri criminali. L'emblema di questa corrispondenza è la band capitanata dal bassista interpretato dal compositore Éric Serra, un gruppo eterogeneo di individui ai margini di quella società benpensante (simboleggiata dal marito di Héléne e dai suoi amici) della quale non condividono né lo stile di vita, né l'abbigliamento o l'etica individualistica. Persino i poliziotti che tentano di catturarli vengono ritenuti dei completi incapaci dal resto della popolazione e dunque si trovano a difendere la legge senza alcun aiuto dai cittadini, i quali sembrano spesso persino incapaci di notare la loro presenza. 

Subway risulta dunque un tassello fondamentale per comprendere il cinema di un autore come Luc Besson ma, prima di tutto, un film estremamente personale e intriso di amore, per la settima arte e per una gioventù scapestrata che rinnega l'individualismo capitalista dei genitori. Un film ambientato in una realtà ben riconoscibile ma anche atemporale e priva di alcun riferimento a luoghi precisi, come in un mondo fiabesco che l'autore francese porterà alle sue estreme conseguenze in Angel-A del 2005.

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