mercoledì 13 novembre 2019

SONATINE: IL PARADISO SOSPESO TRA VIOLENZA E (INEVITABILE) MORTE

Se Takeshi Kitano è considerato tra i maestri del cinema (asiatico e non) contemporaneo lo si deve in primis al Leone d'oro vinto da Hana-bi (Hana-bi - Fiori di fuoco, 1997) ma il suo primo vero exploit al di fuori della terra d'origine, dove peraltro i suoi primi lungometraggi erano stati tutt'altro che campioni d'incassi, è in realtà costituito dal precedente Sonatine, scritto, diretto, interpretato e montato dall'autore di Violent Cop (1989) nel 1993. Presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard, il film ha lentamente ma inesorabilmente conquistato i palati prima europei e poi statunitensi, complice anche l'assenza di quel pregiudizio diffuso in Giappone verso il regista causato dal suo passato da attore e autore di programmi televisivi comici.

Al centro delle vicende raccontate all'interno della pellicola vi è lo yakuza Murakawa (Tskeshi Kitano), stanco e disilluso dopo una vita in cui ha scalato le gerarchie di una delle bande che domina Tokyo e dunque intenzionato a ritirarsi dalle attività illecite. Prima che possa abbandonare la criminalità il boss gli chiede, come ultimo lavoro, di recarsi a Okinawa per risolvere la contesa tra due bande in affari con la loro. Nonostante i numerosi e accesi dubbi sulla missione Murakawa obbedisce ma, arrivato alla meta insieme ai suoi uomini di fiducia, scopre, come temuto, di essere stato attirato in una trappola.

Definire Sonatine un tipico yakuza movie sarebbe una semplificazione estrema, per non dire addirittura un errore. Analizzando il versante prettamente narrativo dell'opera in questione si potrebbe definirla tripartita, più come una sinfonia in tre movimenti che non come la tipologia di composizione musicale richiamata dal titolo. Il primo movimento è quello che può essere, pur con le sue unicità, ricondotto agli stilemi del genere yakuza, i seguenti cambiano notevolmente registro: un adagio per la sezione centrale e un malinconico epilogo folgorato da alcuni lampi di violenza cruda, spiazzante e assolutamente lontana dalle estetizzazioni dei coevi lavori tarantiniani. Al centro, non a caso, c'è però quel segmento riconducibile, volendo mantenere la metafora musicale, a un adagio che è il cuore pulsante della pellicola e l'esplosione compiuta della poetica e dello stile di Kitano. Costretto a rifugiarsi con i pochi sottoposti sopravvissuti all'attentato nemico in una piccola casa abbandonata sulla spiaggia, il protagonista ammazza il tempo inventando giochi in cui si mescolano, in maniera sempre più perturbante, trivialità e bestialità, infantilità e violenza. Esemplare di questo meccanismo è certamente la sequenza con la roulette russa, capace di esplicitare in pochi minuti l'intera Weltanschauung kitaniana, dominata dalla consapevolezza dell'onnipresenza della morte all'interno della vita di ogni uomo e delle scelte che compie. La vita come un lungo percorso in cui tutto accade in funzione della fine, della meta. Una visione del mondo estremamente nichilista che rende evidente i motivi per cui il cineasta nipponico resti così affascinato dai mafiosi, personaggi costantemente appesi al filo che lega vita e morte, ma che trova una luce all'interno dell'oscurità nella meraviglia della natura, o meglio in parte di essa: il mare. Costantemente nel cinema di Kitano il mare diventa una sorta di luogo in cui la spirale di violenza e morte si arresta; un limbo, una terra di mezzo tra questi due estremi che regolano la vita degli yakuza (e non solo) che dunque assume i caratteri di una paradiso sulla Terra.
La parte centrale del film ambientata in spiaggia segna, come già anticipato, non solo la prima e matura enunciazione dei temi cari all'autore di Violent Cop ma anche la piena realizzazione di un percorso stilistico che porta il regista ad affrancarsi pienamente dai cardini del genere per giungere a uno stile personale e riconoscibile. Dopo la prima parte ancora legata al gangster movie in versione nipponica Kitano abbandona il ritmo sostenuto nel montaggio e le inquadrature strette dilatando enormemente i tempi, allargando il quadro. In questo modo si crea una distensione spazio-temporale di carattere chiaramente contemplativo, adatto in tutto e per tutto a quella sorta di momentanea pausa dagli oneri dell'esistenza di un criminale. Il gangster movie si colora dei tempi, delle attese e del rigore stilistico di maestri del passato come Ozu o Antonioni, rievocato da Beat Takeshi in particolare con l'attenzione rivolta verso il vento, protagonista assoluto di pellicole come L'avventura (1960) o L'eclisse (1962).

Sonatine può essere dunque definito uno yakuza movie? Forse sì ma uno yakuza movie dotato di un lirismo tanto inatteso quanto sconfinato. Un lirismo che ha aperto le porte del mondo al signor Kitano e che ha permesso al mondo di conoscere il complesso e affascinante universo di un ex comico che riflette costantemente sulla morte.

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