lunedì 5 novembre 2018

VIOLENT COP: IL NICHILISTICO ESORDIO ALLA REGIA DI UN COMICO

Da circa venti anni Takeshi Kitano, noto anche come Beat Takeshi, è considerato uno dei più importanti autori del cinema giapponese, amato da molti cinefili europei e presenza fissa ai festival più prestigiosi; eppure la sua carriera artistica comincia come attore prettamente comico e showman televisivo di grande successo in patria per produzioni demenziali. Soltanto nel 1989 e in fondo per una circostanza imprevista (l'abbandono di Kinji Fukasaku) il futuro cineasta esordisce dietro la macchina da presa per un film del quale avrebbe dovuto "solo" interpretare il protagonista: Violent Cop. Una pellicola agli antipodi rispetto all'immagine televisiva scanzonata del suo autore che riscuote buoni incassi e critiche favorevoli ma che soprattutto permette al mondo di far conoscere un nuovo Kitano, meno Beat e consapevole di avere talento tanto davanti quanto dietro la macchina da presa.

Azuma (Takeshi Kitano), protagonista assoluto del film, è un poliziotto di lungo corso, tra i pochi a non farsi corrompere dalla malavita locale ma anche un uomo estremamente violento, pronto a usare qualsiasi mezzo pur di punire i criminali e dedito a vizi tutt'altro che eroici. Dopo aver riportato a casa sua sorella da un ricovero per disordini mentali si trova invischiato in un caso di droga nel quale scopre avere un ruolo molto importante un suo collega e un potente boss, reso inarrivabile o quasi dalla protezione di un sicario chiamato Kiyohiro.

Non è esattamente il tipo di lungometraggio che chiunque avesse conosciuto Kitano con programmi televisivi come Takeshi's Castle si sarebbe aspettato questo Violent Cop, specialmente considerando che è stato proprio quest'ultimo a modificarne la sceneggiatura per eliminare gran parte dei momenti comici inizialmente previsti. L'esordio alla regia dello showman nipponico recupera e adatta alla propria sensibilità e all'ambientazione locale la rivisitazione che la Hollywood Reinassance aveva riserbato al poliziesco e al noir: mi riferisco in particolare al lavoro svolto da Don Siegel con Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry, 1971), vero e proprio creatore di un tipo di neo-noir in cui il protagonista è un poliziotto che piega al suo volere la legge pur di farla rispettare. Azuma, proprio come l'iconico personaggio interpretato da Clint Eastwood, si avvicina molto più al concetto di giustiziere rispetto a quello di agente delle forze dell'ordine, ossia di un uomo che in solitaria combatte il crimine utilizzando i suoi stessi metodi poiché si rende conto di lottare contro nemici che non rispettano alcuna remora etica e che riescono a infettare persino le istituzioni con i loro infiniti tentacoli. L'atteggiamento violento e anarchico dell'agente dal volto monolitico di Kitano assume dunque l'aspetto di una diretta conseguenza della milieu nella quale è costretto a vivere, fin troppo corrotta per poter pretendere che la polizia rispetti le regole, ma è anche evidente come l'uomo provi un personale piacere sadico nel ritorcere verso assassini, stupratori e spacciatori i loro stessi metodi violenti. Il mondo ripreso dall'autore giapponese appare completamente privo di luce, completamente invischiato in un'oscurità impenetrabile nella quale persino le uniche due figure (apparentemente) innocenti finiscono per subire un destino degno della grande tragedia attica (la sorella di Azuma) o per rivelarsi in realtà i più corrotti (il collega del protagonista che si finge ingenuo e idealista per l'intero corso del film).

A una costruzione narrativa e poetica tanto coraggiosa quanto nichilista Beat Takeshi abbina una ricerca estetica altrettanto personale. Fin dalla sequenza di apertura il regista mostra quanto sia importante nella sua cifra stilistica il piano sequenza, la dilatazione temporale delle inquadrature che, coadiuvata da una ben calcolata povertà di commento musicale, crea un effetto straniante nello spettatore adatto ad amplificare la natura perturbante della storia messa in scena. Violent Cop non spettacolarizza l'azione fino a renderla assimilabile alla danza come John Woo perché non esiste morale o empatia nel suo universo. Il male ripreso dall'autore nipponico è banale, squallido e privo di qualunque fascino e per questo sceglie di portarlo sul grande schermo con movimenti di macchina minimi, persino in scene estremamente cinetiche come l'inseguimento a piedi e in auto tra le strette vie della città. L'unica eccezione a questo assetto linguistico rigoroso risiede, non a caso, nell'involontaria uccisione di una ragazza durante lo scontro tra Azuma e Kiyohiro, un momento di una tale oscurità e violenza grafica da riassumere in sé l'intero universo tenebroso della pellicola e i primi tratti distintivi di un autore in divenire.

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