mercoledì 14 novembre 2018

GOODBYE DRAGON INN: UN COMMIATO AL NOVECENTO

Alle soglie del terzo millennio, per la precisione nel 2003, il taiwanese Tsai Ming-liang, attivo dai primi anni '90, realizza una vera e propria lettera d'addio a modo di intendere il cinema prettamente novecentesco e analogico, come se fosse già pienamente consapevole di trovarsi all'interno di una rivoluzione in divenire ma ormai scoppiata. Goodbye Dragon Inn, questo il titolo della pellicola, ottiene immediati consensi da parte della critica, venendo peraltro premiato anche al Festival di Venezia, eppure ancora oggi non gode di una distribuzione italiana ufficiale e per questo resta un prodotto estremamente di nicchia persino per gli appassionati della settima arte di matrice asiatica o comunque d'essai.

Come da tradizione per l'autore di Che ora è laggiù? (2001) l'esile traccia narrativa del film si riduce a una sorta di affresco che immortala le ultime ore di vita del cinema Good Fortune di Taipei, all'interno del quale viene scelta come ultima pellicola da proiettare il classico wuxia Dragon Inn (1967) di King Hu. Privo di un vero protagonista il racconto segue i non molti spettatori di questo ultimo spettacolo mentre vagano per l'edificio ormai in malora, qualcuno alla ricerca di prestazioni sessuali omoerotiche mentre addirittura due degli interpreti del film in programmazione assistono con nostalgia a quel loro glorioso passato.

Certamente apprestarsi alla visione di Goodbye Dragon Inn con l'aspettativa di trovarsi dinanzi a una narrazione di matrice classica, ossia rintracciabile nella costruzione tipica del romanzo ottocentesco, significa ritrovarsi estremamente spiazzati poiché di tutto ciò non vi è traccia in tutta la filmografia di Tsai e quest'opera non costituisce un'eccezione. Ciò a cui assiste lo spettatore è a tutti gli effetti un commiato nei confronti del secolo scorso e in particolare della sua concezione della settima arte attraverso un impianto formale costituito da una sequela di piani sequenza molto lunghi, spesso sconnessi da un punto di vista meramente cronologico, e privi quasi completamente di commenti musicali o dialoghi. Se proprio possiamo rintracciare una colonna sonora (badate bene che per colonna sonora si intende l'intero comparto audio del film e non soltanto la parte musicale) che possa tendere a una colonna musica allora questa sarebbe costituita dai dialoghi e dai brani provenienti da Dragon Inn, inseriti all'interno della pellicola a un volume solitamente riservato alle parole proferite dai personaggi principali della diegesi proprio per fare del lungometraggio proiettato uno dei personaggi stessi che popolano il Good Fortune. Proprio la sala viene messa in scena dal regista come un rudere, un edificio fatiscente che, anche grazie a un sapiente utilizzo dell'oscurità, ricorda le case infestate tipiche degli horror gotici e così i suoi frequentatori, sempre silenziosi, in movimento da una stanza all'altra quasi senza una meta o un vero scopo, assumono la sostanza di spettri, entità fantasmatiche che abitano un luogo in cui ormai la vita è assente. Non vi è più vita in questa sala cinematografica non perché sia davvero soggetta a una maledizione ma semplicemente perché l'idea stessa di visione dei film davanti a un grande schermo, insieme a centinaia di altre persone, pertiene a un secolo ormai concluso. La visione collettiva secondo Tsai è defunta insieme al Novecento per lasciare spazio ad altre forme di consumo del prodotto filmico, quasi ad anticipare l'attuale proliferazione dei dispositivi mobili come tablet e smartphone sui quali una larghissima fetta dell'utenza tende a godere del cinema, privandosi e privando la stessa settima arte di quelle modalità che un tempo erano insite nell'esperienza del cinematografo.

Come una vera profezia Goodbye Good Inn anticipa la deriva attuale di quello che molti studiosi chiamano cinema 2.0 o postcinema, ossia quella condizione per la quale l'esperienza della visione dei film oggi prescinde dalla originaria essenza collettiva all'interno di un edificio specificatamente adibito a questa funzione in favore di un rapporto singolare dello spettatore con l'opera cinematografica che può avvenire in qualsiasi luogo, grazie ai dispositivi portatili di ultima generazione e alla digitalizzazione delle pellicole stesse. Una riflessione portata avanti da un lungometraggio di raro rigore formale del 2003, ancora prima che un pioniere quale Michael Mann mostrasse come si potesse lavorare a Hollywood senza il vecchio simbolo della tecnologia analogica, la celluloide

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