Alle spalle dello sfavillante universo popolato di star e budget miliardari costituito dall'industria hollywoodiana e più in generale dal mainstream che invade i multisala esiste un mondo ben lontano da tanta opulenza, un sottosuolo vissuto da migliaia di cineasti indipendenti e da tutti quei registi europei che, purtroppo, riescono a ottenere una certa visibilità solamente attraverso festival distanti dal grande pubblico. Tra questi partigiani della celluloide spicca per qualità e per sfortuna in egual misura la figura di Claudio Caligari, regista e sceneggiatore scomparso nel 2015 durante la lavorazione del suo terzo e ultimo lungometraggio, quel Non essere cattivo che ha saputo conquistare la critica e che ha finalmente aperto gli occhi anche di una buona fetta di pubblico cinefilo su questo autore, impossibilitato a rilasciare sul mercato solamente tre pellicole di fiction, dopo alcuni documentari. Il film che intendo proporvi è il secondo di questo terzetto che per affinità stilistiche, poetiche e di ambientazione può essere definito una vera e propria trilogia: L'odore della notte, girato nel 1998 e protagonista dell'edizione del 1999 del Nastro d'argento. L'ottima accoglienza da parte della critica purtroppo non è stata corrisposta da un pari successi commerciale, rilegando la pellicola a una nicchia piuttosto ristretta.
La seconda opera del director romano segue la discesa tra gli inferi della criminalità da parte di Remo Guerra (Valerio Mastandrea), poliziotto durante il giorno e rapinatore di notte insieme agli amici e complici Maurizio (Marco Giallini) e Roberto (Giorgio Tirabassi). Data la scarsa affidabilità dei due e il desiderio di colpire obiettivi sempre più altolocati Remo decide di associarsi per i suoi violenti furti al Rozzo, altro delinquente delle borgate attratto più dalla violenza in se stessa che dai guadagni economici. In coppia con il nuovo alleato e con il saltuario aiuto di Maurizio la banda diventa un vero e proprio spauracchio per la borghesia romana, alimentando l'ego da Robin Hood del protagonista e causando di conseguenza il suo arresto durante un assalto alla villa di un importante esponente della Democrazia cristiana. Libero dalla galera grazie alla libertà vigilata, Remo tenta di redimersi attraverso il bar che aveva precedentemente comprato insieme a Roberto ma i debiti e l'incapacità di tenersi lontano dai guai lo riaffondano nella melma della criminalità rappresentata dal Rozzo.
Ambientato esattamente come l'esordio Amore tossico (1983) tra le classi più umili del milieu di Roma, L'odore della notte recupera gran parte degli stilemi estetici visti in quel lungometraggio incentrato sulla gioventù eroinomane degli anni '80, si svolge nell'arco del medesimo periodo storico ma aggiorna, amplia molte delle tematiche espresse più di dieci anni prima e dimostra, anche visivamente, la profonda conoscenza del mezzo cinematografico e della sua storia da parte di Caligari. Se nel primo lungometraggio di fiction il cineasta aveva chiaramente messo in mostra la propria devozione nei confronti di Godard e di Pasolini, del loro sferzante rifiuto della grammatica classica e del loro sguardo politico incentrato soprattutto sugli emarginati, nel film in questione le ancora presenti influenze pasoliniane si affiancano all'enorme presenza del cinema americano nella mente dell'autore, come dimostra persino la scelta di affrontare, seppur in maniera estremamente personale e destrutturante, un genere prettamente a stelle e strisce quale il neo-noir. L'utilizzo costante di una voce over che commenta l'escalation fattuale e psicologica all'interno della criminalità da parte di Remo trae evidentemente ispirazione da un topos del noir classico ma l'ambientazione urbana, prettamente notturna, tra i bassifondi di una grande città come Roma e la sottolineatura dello stato di alienazione da parte di questi ceti sociali dimenticati dal boom economico e dalla politica del compromesso democristiana avvicinano la pellicola alla rilettura del genere operata dai giovani registi che hanno animato la New Hollywood tra anni '60 e '70, tra i quali è impossibile non ricordare l'idolo di Caligari: Martin Scorsese, il cui Taxi Driver (1976) costituisce un modello chiaramente onnipresente. Proprio come Travis Bickle l'ex poliziotto dal volto di Mastandrea non riesce ad allacciare autentici rapporti interpersonali, prova a costruirsi un'esistenza da comune cittadino borghese ma fallisce miseramente e dunque finisce per perseguire, anche a costo della propria vita, un percorso tortuoso attraverso gli inferi della metropoli, tra arcidiavoli maledetti più per l'abbandono subito dal lato chiaro della Luna costituito dalla media e grande borghesia che per dei veri e propri peccati da essi commessi volontariamente. Eppure Remo non risulta del tutto "innocente" come gli antieroi pasoliniano o l'alienato tassista De Niro, la macchina da presa rifugge quasi sempre i classici primi piani frontali dedicati all'eroe in favore di angolazioni asimmetriche o inquadrature infrante da effetti chiaroscurali antinaturalistici, sottolineando attraverso la forma filmica il terrore espresso dallo stesso personaggio nei confronti del proprio volto, simbolo della propria caduta morale e psicologica alla stregua del ritratto di Dorian Gray nell'omonimo romanzo di Oscar Wilde. Persino le continue riflessioni del rapinatore da un lato mettono in mostra questa inesorabile discesa negli inferi ma dall'altro espletano l'ambiguità del personaggio e dell'intero lungometraggio, perennemente diviso tra la critica sociale e la riflessione sul cinema stesso, in pieno spirito moderno proprio come i registi ribelli fautori della Hollywood Reinassance.
Non per caso il film si conclude con citazioni sempre più forti ed esplicite a un caposaldo del cinema statunitense quale The Great Train Robbery di Edwin Porter (1903), fondatore del mito del genere per eccellenza, il western, ma soprattutto pellicola che mette al centro dell'inquadratura, dell'occhio di Dio il male e non il bene con un atteggiamento di coraggio artistico e indagine sulla realtà proprie di quel cinema moderno esploso solamente mezzo secolo dopo.
Con questa brevissima trattazione spero di aver suscitato in voi quantomeno una minuscola curiosità nei riguardi di una figura unica all'interno del panorama cinematografico italiano e non solo, colta e popolare insieme, incompresa e forse anche per questo ancora più affascinante. Date una chance a L'odore della notte e non credo che ve ne pentirete.
P.s. Il solo cammeo di Little Tony vale la visione.
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