mercoledì 29 agosto 2018

SILENCE: LA POTENZA DELL'ASSENZA

Dopo una gestazione iniziata addirittura nei primi anni '90 nel 2016 Martin Scorsese riesce finalmente a realizzare e portare sugli schermi di tutto il mondo Silence, film tratto dall'omonimo romanzo storico del 1966 a opera dell'autore nipponico retto da una potente fede cristiana Shusaku Endo. Arrivato dunque in sala a pochi anni dal trionfo commerciale di una pellicola stilisticamente agli antipodi quale The Wolf of Wall Street (2013), il lungometraggio in questione trova inevitabilmente un riscontro ben diverso da parte del pubblico, posto dinanzi a un lavoro dotato di ritmo totalmente opposto e privo anche dell'appeal donato da una star quale Leonardo DiCaprio. Nonostante dunque una corsa poco fortunata al box office, probabilmente già preventivata come si potrebbe evincere dalla scelta di girare il film esattamente dopo il più grande successo della filmografia di Scorsese, la pellicola ottiene pareri entusiasti dalla critica, che la definisce la summa del percorso religioso intrapreso dal regista italoamericano a partire da Mean Streets (1973).

Protagonista assoluto dell'opera in analisi, ambientata nel XVII secolo, risulta senza ombra di dubbio il giovane gesuita Rodrigues (Andrew Garfield), il quale decide di intraprendere una pericolosissima missione in Giappone, nel pieno delle repressioni anticristiane, alla ricerca del suo mentore, Padre Ferreira (Liam Neeson), in compagnia solamente del suo amico fraterno Padre Garupe (Adam Driver). Sebbene i due siano spinti da una fortissima fede in Dio e dalla convinzione che sia impossibile che colui che li ha iniziati al Cristianesimo abbia rinnegato Gesù una volta arrivati nel paese asiatico si ritrovano immersi in un'ambiente miserabile e affascinante al tempo stesso, accolti da molti contadini devoti e disposti anche al martirio per il loro credo (come Mokichi, interpretato da Shinya Tsukamoto) ma anche dall'intransigenza dell'inquisitore Inoue (Issei Ogata) e dei suoi uomini, tra i quali spicca il colto interprete portato sullo schermo da Tadanobu Asano. Rodrigues sopporta qualsiasi tortura, fisica o psicologica, inflitta sia a sé che ai fedeli davanti ai propri occhi pur di resistere alla tentazione di rinnegare Cristo ma la sua visione del mondo e del rapporto con Dio non è più ferma come in Europa e il tanto atteso incontro con l'apostata Ferreira finirà per cambiarla del tutto o quasi.

In una società globale sempre più rapida, nella quale i confini si assottigliano in nome del progresso e della capacità di raggiungere in tempi brevi qualsiasi luogo sulla Terra, in cui le culture si ibridano fino a rendere quasi indistinguibili le rispettive origini Silence appare un vero azzardo da parte di Scorsese, un atto di coraggio paragonabile a quello dei due gesuiti raccontati all'interno del film che con una certa dose di incoscienza giovanile vanno incontro a un destino avverso. Certamente l'autore di Taxi Driver (1976) non è più un giovinetto eppure nella sua ferma volontà di portare sugli schermi una pellicola stilisticamente così lontana da quello dei suoi prodotti più apprezzati dal pubblico attuale sembra confermare una delle battute di Rodrigues che racchiude forse l'essenza stessa del film e dell'operazione del regista nella quale afferma, dinanzi all'inquisitore e altre autorità nipponiche, come qualsiasi azione essi possano compiere non smuoveranno mai il suo cuore. Nemmeno quando sembrerà che vi siano riusciti aggiungo io. Fin dall'incipit, introdotto da una lunga e silenziosa inquadratura vuota completamente nera sulla quale poi compare il titolo, il film adotta una forma rigorosa, scevra da commenti musicali o da prodigiosi movimenti di macchina (le uniche finezze in questo senso sono rappresentate dalla God's Eye View sulle scale proprio durante la prima sequenza e dalla vertiginosa carrellata all'indietro durante la fuga del protagonista che richiama in parte l'effetto Vertigo) in luogo di una ricerca prettamente incentrata sul colore. Quasi tutto il lungometraggio è dominato dall'ombra, dal fango e dal sangue che a esso si mescola, dipingendo dunque ambienti così oscuri da risaltare i piccoli e sporadici barlumi di luce protratti da fiaccole accese durante la notte, quando i persecutori non sono all'opera, capaci di ricreare quella singolare intimità silente tipica della pittura di Jan Vermeer.

Il riferimento al pittore fiammingo, attorno al cui operato si conforma quasi per intero lo stile di Silence, diventa il naturale strumento formale per poter mettere in scena la visione religiosa di Scorsese, già accennata e mostrata in molti suoi lavori precedenti ma che in questo caso trova il suo compimento e una maturità linguistica totale. Ciò che mostra il cineasta simbolo della New Hollywood è prima di tutto la natura assolutamente privata, intima della fede in contrasto con quella esteriore e rituale della stessa. Se da un lato risulta ben evidente anche a chi non abbia compiuto studi teologici quanto sia importante per ogni religione il versante del rito, del tramandare gesti pubblici compiuti magari collettivamente dai fedeli il regista ne evidenzia la fallacia, la subordinazione di questi atti formali dinanzi alla convinzione interiore di credere nell'esistenza di un'entità trascendente alla quale sottomettere il proprio egoistico interesse. Molta critica nostrana e americana sottolinea come la richiesta ai cristiani sotto minaccia da parte dell'inquisitore di calpestare una icona raffigurante Gesù rappresenti uno dei momenti in cui Scorsese dimostra l'abissale differenza tra la cultura europea e quella giapponese, nella quale le immagini religiose possiedono un valore realmente sacro e dunque profanarle significa davvero rinnegare Dio, a differenza dell'idea solamente simbolica che gli occidentali riservano a questi oggetti. A causa di tali differenza il Padre interpretato con enorme potenza emotiva da Andrew Garfield chiede più volte ai fedeli di cedere al ricatto degli aguzzini e per lo stesso motivo la maggior parte di essi preferiscono morire dopo atroci sofferenze piuttosto che voltare le spalle a Dio. La tematica relativa al relativismo culturale e all'arroganza violenta di matrice imperialista occidentale è dunque ben presente nella pellicola e lo dimostrano i colloqui tra Rodrigues, l'interprete e Ferreira ma vi sono due elementi che mi portano a pensare che al centro del percorso di martirio fisico e psicologico girato da Scorsese vi sia il primato dell'interiorità rispetto all'esteriorità: il primo è rappresentazione delle brutalità commesse da ogni singolo personaggio, dagli ufficiali del governo che perseguitano, torturano e uccidono loro simili solamente per paura che il Cristianesimo possa diventare un'arma di penetrazione europea nel paese allo stesso protagonista che per pura superbia finisce per identificarsi con Gesù e anche per questo rinuncia a calpestare le icone cristiane facendo morire centinaia di persone, persino il suo migliore amico. Nessuno è completamente libero dal peccato, il male sembra albergare ovunque sulla Terra a giudicare da ciò che si vede e quindi come può esservi la mano del Creatore in tanta sofferenza? La risposta all'interrogativo che assilla da secoli qualsiasi uomo e anche Rodrigues alberga nel personaggio più ambiguo e al contempo centrale del film, il peccatore Kichijiro. Un uomo che, come afferma in un momento di grande sconforto, se fosse nato qualche decennio prima sarebbe stato un ottimo cristiano ma che invece rinnega continuamente la fede, tradisce il prete che lo ha riportato in Giappone senza però accettare le trecento monete d'argento offerte dalla taglia e fugge dalla condanna al rogo inflitta a tutta la sua famiglia senza però fuggire lo sguardo sull'intera orribile scena. Kichijiro all'esterno appare un codardo, un approfittatore che pensa solo alla propria incolumità eppure ogni volta che pecca rischia anche la morte pur di chiedere al protagonista una confessione e questi, sebbene sempre più restio, finisce sempre per concedergliela, inizialmente quasi spinto solamente da quell'aberrante mania di grandezza che lo porta a identificarsi con Cristo (meravigliosamente didascalica la scena in cui il prete si specchia in un ruscello vedendo al posto del suo volto quello di Gesù e da questo prova un piacere irrazionale e perverso, come l'innamoramento di Narciso per la sua immagina riflessa) ma in seguito alla resa dinanzi all'inquisitore il giovane gesuita capisce finalmente che la sua prima guida nel paese asiatico rappresenta l'esempio massimo di come si possa al contempo peccare e amare Dio con tutta la forza che si ha. Kichijiro è la manifestazione vivente della dialettica tra fede esternata e fede intima e diventerà l'esempio da seguire, insieme al ritrovato Padre Ferreira, per Rodrigues, il quale vivrà una vita agli occhi del mondo da prete apostata, con un nome giapponese, moglie, figli e persino un impiego svolto con rigore estremo che prevede l'individuazione e l'eliminazione di qualsiasi riferimento al Cristianesimo nei prodotti importati dall'Europa in Giappone ma al contempo, durante il finale volutamente diverso rispetto a quello del romanzo, verrà sepolto, ovviamente secondo rito buddhista, con stretto tra le mani il crocifisso donatogli nel villaggio che lo aveva accolto al suo sbarco nel paese del Sol levante.

Dopo aver posto la luce sull'assordante caos dell'inferno economico di Wall Street e sull'ascesa/discesa del luciferino Jordan Belfort Scorsese decide dunque di mostrare come la vera ricchezza, l'essenza del nostro io stia nell'invisibile dimensione del silenzio, dell'assenza. Un ossimoro proprio come il mistero della fede.

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