Seguendo di pochi anni le vicende di Rogue Nation il lungometraggio vede la squadra di Ethan Hunt (Tom Cruise), supportata a pieno questa volta dall'ex CIA Alan Hunley (Alec Baldwin), alle prese con la minaccia globale portata dagli Apostoli, gruppo terroristico internazionale nato dalle ceneri del Sindacato di Solomon Lane (Sean Harris) intenzionato a seminare il panico nel mondo tramite tre ordigni nucleari. Il primo tentativo di sventare la minaccia dell'IMF fallisce a causa della scelta di cuore del protagonista, che sceglie di salvare la vita dell'amico Luther (Ving Rhames) a discapito della missione, così la direttrice della CIA Erica Sloane (Angela Bassett) impone alla squadra la presenza di un suo uomo di fiducia, August Walker (Henry Cavill).
Se esiste una saga in cui il protagonista unico rappresenta la vera e propria stella polare dell'intera operazione è sicuramente Mission: Impossible, sia per quella atipica serialità alla quale accennavo pocanzi che per la costanza con cui in ogni nuovo capitolo Cruise mette a dura prova le proprie possibilità fisiche e quelle di stunt quasi del tutto privi di CGI in un cinema in cui la tecnologia digitale invade ogni singolo frame. Nel caso di questo Fallout però, come in parte già anticipato, la serializzazione assume caratteri ben più corposi: oltre alle presenza costante del trio Hunt - Luther - Benji (Simon Pegg) ritornano altri personaggi più o meno importanti sia del prequel diretto che dei precedenti capitoli, così come la missione attuale si rivela nel corso della pellicola come il vero epilogo di quella affrontata durante Rogue Nation. Questa impronta fortemente seriale permette a McQuarrie, autore anche della sceneggiatura, di poter lavorare non solo sui collegamenti o le citazioni dei predecessori (in particolare il capostipite firmato Brian De Palma del 1996) ma, soprattutto, sullo sviluppo del lato prettamente umano di Ethan. Se in questa sesta missione impossibile l'agente dell'agenzia supersegreta statunitense mantiene la sua proverbiale capacità di risolvere qualunque situazione mortale, di lanciarsi nel vuoto, correre tra i tetti o infiltrarsi all'interno di pericolosissime organizzazioni criminali, l'uomo dietro l'eroe rivela tutta la propria fragilità. Il personaggio che da più di vent'anni segue il corso della carriera di Cruise condivide con il proprio interprete proprio quell'aura di invincibilità che però inizia a mostrare tutti gli scricchiolii dettati dal passare del tempo. Il leader dell'IMF appare mai come prima indebolito nel fisica dall'età che avanza, rallentato nelle proprie imprese ai limiti dell'umano da un fisico che inevitabilmente non è più quello di un giovane uomo, proprio come il divo hollywoodiano che non può più fregiarsi del titolo di sex symbol per eccellenza dello star system. Si crea dunque un corto circuito metacinematografico, tra personaggio di finzione e il suo interprete, che porta su un piano nuovo per la saga l'aspetto empatico, grazie anche all'evoluzione psicologica ed emotiva che accompagna quella fisica del protagonista.
L'incubo che funge da prologo all'intera pellicola mette in chiaro subito la volontà del regista e sceneggiatore americano di indagare anche attraverso la scrittura il percorso interiore di Hunt, le conseguenze di anni passati sempre sul filo del rasoio, costretto a fare sacrifici enormi (in particolare l'allontanamento dell'ex moglie), a perdere amici o compagni pur di servire un paese che più di una volta ne ha messo in discussione etica e modus operandi. Un uomo portato inevitabilmente alla solitudine e al rimpianto nei confronti di ciò che sarebbe potuta essere la sua vita se avesse scelto di lavorare come postino o semplice impiegato.
Per la prima volta Hunt/Cruise, grazie alle possibilità offerte da una serializzazione totale e dalla penna di McQuarrie, riflette sul tema della senilità per gli uomini d'azione e sugli effetti dell'eroe sull'uomo che si nasconde al suo interno con una consapevolezza e un'efficacia mai raggiunte da altre pellicole come I mercenari (The Expendables, Sylvester Stallone, 2010) o Red (Robert Schwentke, 2010).
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